Sono tornato dal concerto di Damien Rice e, sinceramente, vorrei andarmene a letto. Solo che non posso, per colpa sua. Erano sette anni che non andavo in un fast food a mangiare, perché mi sono fatto convincere da F.? E non ho neanche l’Alka Seltzer a casa. Potrei farmi uno shottino di Mister Muscolo Idraulico Gel, ma credo che potrebbe forarmi l’intestino. Quindi farò finta di parlarvi del concerto, fino a che il rutto finale non mi dirà che il lungo processo di digestione è completato. Considerando che l’ultima esperienza con fast food e affini ha fatto sì che riuscissi a digerire questo in sole sette ore, il post sarà chilometrico.
Quando arriviamo io, F. e Whopper, il locale è già pienissimo. Facciamo in tempo a sentire Josh Ritter, musicista di supporto, che suona la sua ultima canzone senza microfono e con una chitarra acustica non amplificata. Ovviamente non si sente una mazza. “Forse l’ha fatto per avere intimità col pubblico”, dico io. “Forse è imbecille”, dice Whopper, che non accenna a muoversi dal mio stomaco.
Intanto ne approfitto per dare un’occhiata al pubblico. Si piazzano davanti a me un ragazzo e una ragazza. Altissimi, come è di rigore. Lei scrive messaggini come “anke tu 6 qui?” e li manda ai vari Klaudi, Katerine, Kiare, Karle della sua rubrica (sì, ho fatto il guardone). Il ragazzo alto le offre una canna, ma lei rifiuta. “Non mi faccio le kanne”, dice. “Peggio x te, kazzi tuoi”, pensa lui. “Kuesta me la fumo da solo. 6 proprio una stronza”.

Dopo avere sentito un disco intero di Nick Drake, entra finalmente Damien Rice, che attacca con una canzoncina in francese, che include parecchie volte la parola “chanson” (metatestualità, presumo). Ogni volta io e F. ci guardiamo e pensiamo “voilà, le garçon ancien c’est moi”. La canzone, peraltro, finisce con il verso “french wine and cheese”. E vabbè. Come se ogni canzone in italiano, o che parla di Italia, finisse con pizza e mandolini.
Va bene, esempio sbagliato.
Poi Mr Rice ci delizia con varie chicche dal suo album, una bellissima versione di “Volcano”, per esempio, alla fine della quale uno del pubblico gli urla (testuale): “You break!”, cioè “Spacchi”. Se non ci fossero i corsi della De Agostini, where we would go to end (dove andremmo a finire). Si palesa anche un altro esemplare del pubblico. Alto pure lui, e ti pareva, con maglietta bianca a maniche lunghe attillata, si muove e si muoverà per tutto il concerto come se sentisse musica-da-ballare, dalla disco al liscio. Insopportabile, ma apprezzabile per il suo rigore, la sua coerenza e il suo eclettismo. “Sei un fesso!”, gli urla ad un certo punto Whopper dalle mie viscere, con una certa arroganza. Io penso di sfruttare questo dono per dare una svolta alla mia vita e diventare ventriloquo professionista.
Ad un certo punto, però, Rice si ricorda di avere con sé una loop station…

Flashback. Casa Rice, Natale di molti anni fa.
“Damien, bello di mamma e papà, che cosa vuoi che ti porti Babbo Natale quest’anno?”
“La pista Polistil”
“E invece no, ti ha portato un sequencer”
“Cazz’è?”
“Un apparecchio che tu ci registri una sequenza e lui la ripete”
“Se lo vendo e mi compro la Polistil?”
“Vedrai che se un giorno farai il musicista ti servirà”
“Ma io voglio fare il parrucchiere”

Emblematica e lapidaria la frase che mi ha rivolto G. dopo sei minuti di loop: “Ha un po’ stracciato la minchia”. Io, F. e Whopper annuiamo.
Poco dopo, ecco arrivare la cover di “Hallelujah”, già di Leonard Cohen, rifatta a sua volta da Jeff Buckley. Una cover al quadrato, insomma. Il pubblico reagisce cantandola in maniera sommessa e composta. Io mi sento a disagio come se fossi alla messa di Natale, anche perché Whopper la canta stonato, apposta.
Il concerto continua, alternando momenti intimi altissimi e schitarrate un po’ fuori luogo, in cui però pare che Damien si diverta tantissimo.

Flashback. Casa Rice, un pomeriggio di inverno. Frastuono proveniente dal piano di sopra. Mamma Rice sale le scale inviperita e scopre il giovane Damien con una chitarra a tracolla, distortissima. Prende il distorsore e glielo rompe sotto il pesante zoccolo di legno irlandese.
“Quante volte ti ho detto che devi fare piano? Puoi suonare la chitarra, ma solo canzoni tristi e intime, arpeggiando con grazia”
“Ma io voglio fare il rocker, mamma”
“Un tempo volevi fare il parrucchiere. Io e papà ti abbiamo anche comprato la loop station apposta. Ingrato”

Prima dei bis la bella violoncellista (le violoncelliste sono tutte belle) Vyvienne fa una cover di “Seven Nation Army”. Mentre io mi chiedo il perché di questa idiozia, il pubblico è esaltatissimo e si agita a ritmo. Il danzatore di cui sopra, non ne parliamo: sembra Tony Manero. Whopper anche. Lo convinco a stare fermo promettendogli che, quando sarei arrivato a casa, mi sarei fatto una padellata di alici e burro fuso. Per nutrirlo.
Rientra Damien Rice, che, dopo un po’ di schitarrate e giochini con i loop, chiude con una bellissima versione di “The Blower’s Daughter”.

Il concerto, alla fine, mi è piaciuto, ma preferirei avere Damien Rice nell’armadio, in modo tale da poterlo tirare fuori quando sono triste, e farlo suonare per me nella mia stanzetta, così come lui suonava nella sua, dimenticandosi delle gioie del suono distorto e dell’abuso di loop.
Vado a prepararmi le alici. Le promesse sono promesse.