La cosa che noto sull’autobus è una ragazza, minuta e bionda, seduta dall’altra parte della vettura. Anche lei dà le spalle all’autista. Ha una gonna corta, ma non pare felice di indossarla. La imbarazza, e si stringe in un capo di lana più simile ad uno scialle da vecchia che ad un maglione, come vorrebbe essere. Di profilo è carina, ma non è rilassata. Nell’aria c’è un vago olezzo di alcol, ma non mi va di indagare da chi provenga, sono stanco e voglio tornarmene a casa. Nei pressi di piazza Maggiore l’interno del veicolo inizia ad illuminarsi di tenui luci blu, che aumentano mano a mano che si procede. Vedo le persone dal fondo dell’autobus che si alzano, e vengono avanti, verso di me, come attratte dal lampeggiante. L’autobus è fermo, ormai, e l’autista parla con qualcuno per strada. Non riesco a sentire quasi niente di quello che si dicono, intuisco solo parole come “auto”, “fermo”, “piano”. Lentamente tutti gli occupanti dell’autobus si avvicinano verso il lato opposto a quello su cui sono seduto: la luce blu è forte e fastidiosa. Mi giro ma il finestrino è coperto dalle persone che guardano. Riesco solo a vedere la luce blu che gira, tingendo l’aria ad intervalli regolari. Qualcuno mormora qualcosa con tono interrogativo. Anche la ragazza bionda ha lo sguardo incollato al vetro: si alza, per vedere meglio. Uno degli occupanti ne approfitta e le guarda a lungo il sedere.
L’autobus passa, ritorna ad essere illuminato sempre più fiocamente di blu. Il motore ricomincia a girare e tutti tornano al loro posto.
La ragazza bionda mi guarda, per la prima volta. Di profilo è meglio, penso. Pare che mi stia chiedendo perché sono rimasto fermo al mio posto. Forse crede che io sia facilmente impressionabile. Mentre mi guarda, non riesce a togliere dal suo volto l’aria di disgusto per quello che ha visto sulla strada. Si volta, offrendomi di nuovo il suo profilo. Solo allora mi alzo, per andare verso l’uscita.