Sono andato alla festa ieri pomeriggio. Sono arrivato a casa di F. alle otto e mezzo di sera. E ho cantato, ballato, suonato. Più altre cosette che potete immaginarvi.
Per dieci ore di seguito.
Poi siamo rimasti davvero solo noi, gli amici di vecchia data. Distrutti, ma entusiasti.
“Andiamo sul Po”, ho proposto biasciando verso le sette del mattino.
“Sul Po si deve andare in macchina, e non è il caso. Ma andiamo a fare una passeggiata fino ad un castello. C’è il fossato. Acqua. Anche lì”, ha detto F.
E così, in sei, siamo usciti da casa e siamo andati a passeggiare in mezzo alla campagna, nel silenzio assoluto. Sarebbe stato bello vedersi da fuori: sei trentenni barcollanti che vanno non si sa dove, come in un film di Buñuel.
Siamo arrivati al fossato, siamo tornati indietro.
Uno di noi ha abbandonato.
Quattro hanno iniziato una partita a calcetto, nel giardino di casa di F.
Il quinto un po’ faceva l’arbitro, un po’ il raccattapalle, un po’ dormiva.
Ho ripreso un treno alle 10 del mattino, e sono arrivato nella strada di casa mia, nelle condizioni che potete benissimo figurarvi, verso le 12.
E ho sentito una voce provenire da un altoparlante vicino a casa.
“Beppe Grillo?”, ho ipotizzato, sentendo il tono pontificante. (Ero distrutto, dai.)
Mi sono reso conto che non era Beppe Grillo, quello che parlava a volume altissimo, ma il prete della chiesa sotto casa. E mi sono chiesto perché. Perché io devo essere costretto a sentire la predica di un prete, perché devo essere invaso dalle sue parole, perché i suoi pensieri devono essere diffusi da altoparlanti per strada.
Ho quasi trent’anni, e da quasi trent’anni vivo in un Paese che dovrebbe essere laico, ma che ultimamente non finge neanche di esserlo.