L’autobus numero tredici, direzione est-ovest, intorno a mezzogiorno, è pieno. Lo so e mi rassegno. Come sempre. Tanto ho da ascoltare The Shape of Jazz to Come, sperando di capirci qualcosa. In piazza Malpighi, però, l’autobus magicamente si svuota, in coincidenza con un piano nelle cuffie. Allora mi siedo, sperando di leggere qualcosa. Dopo due fermate, però, in coincidenza con un crescendo e toni alti di sax, entra una scolaresca intera: una ventina di bambini intorno ai dieci anni. Che fa quello che fa una scolaresca: casino, anche se in maniera moderata. L’autobus si riempie all’inverosimile, secondo uno schema che ha come base scientifica la legge fisica dell’impenetrabilità dei corpi. Stiamo tutti fermi, a parte Gillespie e i suoi, si sa, ma quelli li sento io. Sento anche un odore strano. I bambini non sanno di strada, ma di Pringles, tutti. Ma non vedo patatine in giro: l’odore sale dalla pelle, e si mischia a quello del tredici pieno, direzione est-ovest, poco dopo il mezzogiorno di un giorno feriale d’inverno.
Poi l’autobus si ferma, il disco nelle orecchie no. Qualcuno parla da fuori, la voce proviene dalla porta posteriore, aperta. La voce ha un accento bolognese: è l’autista, aspro e incazzato.
“Dovete andare avanti.”
Nessuno si muove: se lo facesse potrebbe essere tranquillamente accusato di molestie, pedofilia e violazione delle leggi della fisica, in un colpo solo.
“Lei”, dice l’autista.
E gli altri, dietro, tirano un sospiro di sollievo. C’è uno scuro, sull’autobus. È lui. Tutto.
“Parla italiano? Deve andare avanti!”
Ma nessuno, compreso lo scuro, si muove. Nessuno può muoversi. Ma tutti sono tranquilli, perché quello che si deve muovere è lui.
“Insomma, parla italiano? Lei deve andare avanti”, dice l’autista, marcando il “deve”. Lo so, alla prossima frase inizierà ad usare gli infiniti, come nei film di una volta. Si sa che l’italiano coniugato all’infinito è una specie di lingua universale, un esperanto che funziona.
Poi lo scuro parla: “Sì, capisco, ma non posso andare avanti.” E, nel dirlo, tenta di muoversi. Ma non può.
Nessuno si muove, a parte il tempo. Per evitare ritardi, lamentele, note di demerito o chissà che, l’autista torna al suo posto.
Alle dodici e ventitré l’autobus arriva alla fermata Berretta Rossa, e dovrei scendere, ma non posso farlo, se non dalla porta posteriore. Nonostante le mie richieste, la porta dietro non si apre, e io non scendo. Allora affronto il codice penale e le leggi naturali e attraverso tutto l’autobus, ma non sento quello che la gente mi dice, perché, stavolta è più forte la forma del jazz che ha da venire nelle mie orecchie, e penso che sia quella che mi fa andare avanti.
Passa l’odore di Pringles, supero anche lo scuro, che ha ancora lo sguardo spaventato dall’interrogativo alla fine dell’accusa “parla italiano”.
Dopo due mie parole l’autista mi chiede se io voglia insegnargli il suo mestiere. Noto che ha gli occhi azzurri e la faccia buona. Scendo.
ho ragione io ad odiare i bambini.
gli autisti del 27 sono più bravi: normalmente aprono anche le porte dietro..
Bologna per me è una spina nel cuore, ma sono contenta di aver trovato il tuo blog.
Immagino che anche lo scuro avesse la faccia buona.
Io al posto suo avrei trattenuto forse a fatica una risposta acida. E’ anche vero che a farlo mi sarei presa al limite della maleducata, lui invece…
e io che mi lamento continuamente dell’atac di roma.
federica
rael: non esageriamo. erano tra i più innocenti della vettura, i pargoli.mokia: anche quelli del tredici. gli autisti girano. ma soprattutto agli autisti girano.flores: prego. dev’essere un bel casino ad avere bologna come spina nel cuore: io, per evitare traslochi, penso sempre di essere da un’altra parte. la mia spina del cuore, quindi, è boulder, colorado. o lima. o roccasecca inferiore.mela: seh, faccia buona. quelli sono tutti cattivi, si sa. (poveri noi, dove andremo a finire)federica: no, l’atc non è male. è che ultimamente ci sono certi personaggi nervosetti…per tutti: avete mai visto questo?
Mi hai detto prego: grazie! Io però non ti avevo mica ringraziato…comunque una cosa è certa: se te ne vai da Bologna, l’idea di tornarci è come pensare di rifarsi un anno di galera. Mai sentito qualcuno che una volta lasciata Bologna ne provasse nostalgia.