In crescendo

Non faccio mai troppo caso alle citazioni che ci sono sulle copertine dei libri: frasi come “Con questo romanzo Pinco Pallino riscrive la letteratura contemporanea” mi irritano e tendono a non farmi leggere il volume in questione. Ma so di essere un’eccezione. Come lo è lo stralcio di una recensione del “Washington Post Book World” posta nella seconda di copertina di Tre vite, ultimo libro di Rick Moody pubblicato in Italia da minimum fax. Perché effettivamente quello che chiude il volume, “Albertine”, è “uno dei racconti più belli che siano stati pubblicati nel nuovo millennio”.

Devo dire, però, che Tre vite non inizia bene. Il primo dei tre racconti lunghi che lo compone, “L’armata Omega”, ruota eccessivamente intorno ai deliri del protagonista, un ex funzionario ministeriale americano che vede intorno a sé, sull’esclusiva isola dove si è ritirato dopo la pensione, gli indizi di un complotto ai danni della sicurezza nazionale. Eccessivamente lungo, seppure stilisticamente molto buono, il racconto non funziona del tutto, perché fa troppo gioco sulla caratteristica che accomuna i tre scritti: il “tradimento” del lettore da parte dell’io narrante (nel caso di “L’armata Omega” e di “Albertine”) o comunque del fuoco della narrazione.
Accade lo stesso anche in “K&K”, il secondo racconto, che parla di alcuni misteriosi e minacciosi biglietti infilati nella buchetta dei suggerimenti di una piccola azienda statunitense. In questo caso Moody usa la terza persona, ma l’assunto di base non cambia. Il racconto è però sostenuto da una narrazione più strutturata e tesa, e da un’ambientazione “aziendale” tutto sommato divertente.

E poi, “Albertine”: praticamente un capolavoro, che, è vero, risente molto delle oscure profezie di Philip Dick, ma del resto parlando di una sostanza che fa letteralmente rivivere i ricordi, sensazioni, profumi e sapori compresi, e ambientando il tutto in una New York rasa al suolo per metà da un attentato terroristico atomico, c’è poco da fare. Il racconto, di nuovo in prima persona, parte come una sorta di “inchiesta” che il protagonista deve fare sulla nuova droga, chiamata appunto Albertine. E anche in questo caso c’è una comunanza con gli altri due scritti, che in qualche modo riformulano lo stesso principio di “ricerca”. Poi, però, con uno stile che si fa via via sempre più fluido e serrato, Moody ci conduce nei labirinti delle potenzialità (o della realtà?) di questa droga, non avendo paura di tirare fuori le teorie sul tempo e gli studi junghiani sull’inconscio collettivo. Ci si rifugia nel passato perché il presente è troppo triste, perché sono morte milioni di persone, perché non c’è lavoro e Manhattan è un’enorme discarica (vi risparmio gli ovvi richiami al post 11 settembre). Ma se il passato si può rivivere, allora lo si può anche modificare per avere un presente migliore. E se si prende una dose di Albertine quando si è in un ricordo, cosa succede? L’acquisto del libro varrebbe anche solo per queste dense e altissime novanta pagine che lo chiudono.

Cos’è la memoria? La memoria è il groove. Sono un supergruppo di deejay che sparano un groove, e sei tu che balli, insegui le disperazioni del cuore, insegui qualcosa che non c’è più, è così effimero che lo riconosci solo dalle tracce che lascia, come una certa corda pizzicata in un certo modo raccoglie il tuono dei secoli, come il sapore delle ciliegie fresche rievoca indolenti coppie romantiche su portici ottocenteschi, tutte le storie del passato che ti vorticano attorno. La memoria è il groove, il solco, la bugia, la storia che non capisci mai fino in fondo, il posto migliore in cui stare. La memoria è la puttana, la fabbrica di vergogna, la maledizione e la consolazione.
(Rick Moody, Tre Vite, minimum fax, Roma, 2008, pp. 223-224. Trad. di Adelaide Cioni e Francesco Pacifico)