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Raccontare con gli arrangiamenti: intervista a Matthew E. White

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Big Inner è uno dei dischi dell’anno scorso che mi sono un po’ sfuggiti: capita di appuntarsi mentalmente di ascoltare un album che poi, per un motivo o per un altro, non riesce mai a meritarsi il tempo necessario ad apprezzarlo. Qualche tempo fa, finalmente, mi ci sono messo e l’ho ascoltato più volte da cima a fondo. Ciò che mi ha fatto impressione è stato il primo approccio. Mi ha fatto tornare in mente What’s Going On di Marvin Gaye: gli strumenti che arrivano un po’ alla volta, senza una intro vera e propria, come se l’ascoltatore entrasse gradualmente in una casa dove già si suona, scoprendo la musica che viene da dentro un po’ alla volta. Quest’immagine mi è rimasta impressa nella mente fino a quando ho incontrato Matthew E. White in un albergo di Barcellona: il musicista era là per un concerto al Primavera Sound. E quindi l’intervista è iniziata con questo parallelo tra i due dischi che, l’avrei capito alla fine della chiacchierata, non era poi così peregrino.

Se Gaye si poneva delle domande sulla violenza e sui violenti cambiamenti della società degli anni ’70, c’è una domanda che Big Inner si fa o fa al suo pubblico di ascoltatori?
No, non in senso proattivo: non credo ci sia un tema dominante o una domanda che viene posta lungo il disco, oppure se c’è è qualcosa di inconscio. Non ho scritto l’album con grandi temi in mente: dopo averne parlato con un po’ di gente, ritengo che ci sia un senso di speranza opposto al turbamento. Èin effetti un argomento importante, ma ancora una volta è stato qualcosa di inconscio, non il risultato di un tentativo di fare emergere quel messaggio.

Quando hai capito che era arrivato il momento di realizzare il tuo disco? È stata solo una questione materiale, di tempo, oppure c’è stato qualcosa di più profondo che ti ha spinto?
Credo che sia dipeso dal rapporto con la comunità nella quale vivo. Per dieci anni sono stato prima uno studente all’università, poi una specie di organizzatore con ruolo da promoter e quindi ho messo in piedi la mia prima jazz band… Con queste esperienze ho pensato che sarebbe stato bello creare un’etichetta discografica che fosse basata sull’idea di fare musica insieme alle persone con le quali già la facevo: si trattava di dare un nome a tutto questo e di organizzarsi meglio. Quando l’ho fatto, ho chiamato l’etichetta Spacebomb ed è cominciato un processo che mi ha portato a pensare che forse dovevo uscire io per primo, che io dovevo essere la prima persona a provare quello che cercavo di realizzare: soprattutto perché, se fosse andata male, ci sarei andato di mezzo solo io, visto che l’idea era mia. Insomma, non si è trattato di una reale scelta forte, quanto di una serie di eventi che sono successi in molto tempo e che mi hanno naturalmente portato a fare un disco. Ecco, penso che sia il modo più facile per spiegarlo.

La Spacebomb è un altro esempio, come ce ne sono negli Stati Uniti, ma anche nel Regno Unito, di etichetta-collettivo, un po’ famiglia, un po’ legata ai rapporti di amicizia, oltre che di lavoro. Ci racconti di più?
Guarda, io vengo da Richmond, in Virginia: è un posto che ha una tradizione, dove vivono musicisti e da dove altri musicisti provengono. Tuttavia penso che negli ultimi dieci anni abbia acquisito uno slancio particolare: gente con cui andavo a scuola ha deciso di rimanere invece di spostarsi altrove. Penso che ciò che rende una comunità speciale non sia il decidere consciamente di fare qualcosa insieme, ma il valore di ciò che si fa insieme. Chiunque può dire con i suoi amici “facciamo musica insieme”, ma è ancora meglio fare buona musica insieme. Molti a Richmond hanno detto “stiamo qua e facciamo musica” e credo che ciò che hanno prodotto (e non parlo solo di Big Inner) sia qualcosa di davvero molto speciale. È un posto speciale perché abbiamo deciso di rimanerci, ma anche perché la musica che facciamo lo è. È la musica che possiamo fare solo noi, questo gruppo di persone… Ed è un gruppo nutrito, siamo in 30-40, interagiamo tra noi, è davvero bello farne parte: in questo momento io sono un leader, nel senso che ho la possibilità di andare in giro per il mondo e parlare con te e altri di cosa facciamo. Per esempio il mio amico Reggie… Eravamo in una band insieme e poi l’ha voluto Bon Iver nella sua per il tour. Quindi prima c’era lui a girare, a fare da predicatore per Richmond, ora tocca a me… È stato divertente farlo negli ultimi due o tre anni: questa piccola comunità ha avuto modo di viaggiare ed è bello che sia stata notata sempre di più.

Pensi che fare base a Richmond faccia un’enorme differenza rispetto a vivere a Los Angeles, New York o Austin, che sono città di riferimento per la cosiddetta scena indipendente statunitense?
Sai, in realtà credo che quello che è accaduto negli ultimi anni con internet e i media digitali abbia decentralizzato l’industria. Certo, gli uffici delle case discografiche sono a New York e Los Angeles, ma il modo in cui lavorano i direttori artistici, l’andare nei club, non è più lo stesso. Le cose si muovono e, insomma, non ho trovato alcun reale svantaggio a stare dove sono, anzi! Lo dico spesso, ma non potrei fare altrove quello che faccio. E non sto a Richmond perché voglio stare a Richmond, ma perché Richmond è l’unico posto dove posso fare la musica che voglio, questo è ciò che la rende unica. Non è questione di orgoglio o di avere molti amici in città: ci vivo perché è ciò che è più giusto che faccia per la mia carriera. Non potrei trasferirmi a Austin, Los Angeles o New York e continuare con la musica che faccio.

Torniamo al disco: c’è spesso un contrasto tra ciò che canti e il modo in cui lo fai. È una scelta precisa o deriva solo dal tuo stile e quindi canteresti a proposito di qualsiasi argomento così?
Ancora una volta, non credo che si tratti di qualcosa di intenzionale. O meglio, lo è nel senso che il modo di cantare che ho e di affrontare i temi che ci sono nel disco mi rispecchia molto come persona. Ho uno stile vocale che uso e mi è capitato di scoprire che mi si adatta bene. Quindi per me c’è una bella corrispondenza tra come sono qui, mentre ti parlo, e come sono sul palco: non ci sono maschere da indossare. Questo è molto bello e mi permette di scrivere di alcuni argomenti su disco. È per me qualcosa di molto personale, introspettivo e intimo. D’altro canto questo mi permette di esprimere emozioni più grandi con i suoni, la musica, gli arrangiamenti. Così si può raccontare una storia a tre dimensioni o raccontarne due: da un lato cantando, diciamo, in maniera piatta, o non troppo emotiva e rilassata. Dall’altro ci sono questi grandi arrangiamenti che rappresentano l’altro lato della narrazione. È significativo, perché se cantassi la stessa canzone al piano o alla chitarra si perderebbe la natura tridimensionale della storia, e questa è la peculiarità di lavorare con gruppi numerosi di persone e arrangiamenti estesi: si può raccontare molto della storia senza farlo propriamente.

Si è parlato del tuo album anche come un disco gospel, ma in un brano dubiti della tua stessa fede. Qual è il tuo rapporto con la religione e il cristianesimo? So che i tuoi genitori hanno a che fare con questo e vorrei saperne di più.
Sì, sono cresciuto in un ambiente molto religioso, molto cristiano. I miei genitori erano missionari oltreoceano e tutto questo ha fatto parte della mia vita a lungo. Da dieci anni a questa parte, però, ho intrapreso il mio viaggio, qualunque sia: talvolta ci sono molti dubbi, talvolta non mi sento a mio agio con alcune delle ripercussioni che la fede porta con sé, ma ci sono diverse cose del mio passato che rispetto molto. Penso che tutti abbiano un percorso di fede, unico, basato su come hanno affrontato alcuni eventi: è un lungo viaggio. Per me si è trattato di documentare questo sul disco e affiancare questioni religiose di fede ad altre cose, perché la nostra vita è così. Qualunque cosa facciamo, che sia stupida, formativa, importante, è affiancata da un lato spirituale: devo essere sincero e dire che questo fa parte della mia vita così come lo è una brutta relazione, o la morte di qualcuno. Si tratta di creare un dialogo onesto, che rifletta un po’ anche il mio percorso.

Un altro riferimento forte legato al disco è quello con la musica nera, con etichette quali Atlantic, Stax, Motown, insieme alla cosiddetta “americana”: ascolti questi generi?
Sì, sono davvero le prime cose che ho ascoltato. La musica afroamericana dai primi del ‘900 agli anni ’80 è ciò che ascolto, che amo: il ragtime, il jazz di New Orleans, l’R&B, il soul… Tutto questo viaggio, la storia della musica americana che ha fatto il giro del mondo, è così influenzato dalla musica afroamericana; se poi pensiamo anche alla musica folk e a come si è sviluppata nel rock and roll… Per me è la musica migliore del mondo, e sono felice che tu abbia citato la Atlantic perché di solito tutti parlano della Motown e della Stax, ma per me la musica migliore di quegli anni è della Atlantic. È la migliore etichetta di sempre, fosse anche solo per tutta la musica che ha pubblicato, per come fosse sempre avanti agli altri. Adoro le loro cose, sono un grande fan della loro musica, quindi… non posso dire di non ascoltarla (ride).

Torniamo al tuo passato: riesci a raccontarci la tua prima memoria musicale?
Sì, i miei avevano due cassette che ascoltavo: un greatest hits dei Beach Boys e uno di Chuck Berry. Le ho scoperte da piccolo e me ne sono innamorato. Mi ricordo che ero alla Filippine, seduto sul divano con un registratore e premevo play e poi rewind e ascoltavo quelle cassette di continuo…

Abbiamo parlato di musica e radici musicali americane, ma tu hai vissuto qualche anno appunto nelle Filippine. C’è mai stata nella tua testa la sensazione di uno scontro tra la cultura che vedevi intorno a te, quella dei tuoi genitori. La cultura con la quale sei stato cresciuto non era quella nella quale vivevi: un fattore che apre la mente, ma che può anche portare a disagi…
Sì, crescere oltreoceano… Non è che poi là pensassi in questi termini, non avevo una tale consapevolezza, ma una cosa interessante è successa quando sono tornato a casa, negli Stati Uniti: la cultura americana, le canzoni… Tutto è di più: l’aria è più pulita, ci sono i condizionatori, il traffico è incasinato, alla radio parlano del tempo… È casa. C’è una distanza che ti permette di vedere la natura unica di una serie di cose. Vivere identificando la propria casa con gli Stati Uniti è qualcosa di peculiare, anche se io mi sono sempre sentito un po’ un outsider, perché non è lì che ho vissuto i miei primi cinque anni… cioè, otto, a dire il vero. È interessante essere un outsider da un lato, e d’altro canto identificarsi molto con gli Stati Uniti: i miei vengono dal sud del Paese, le loro radici sono lì. Quindi per me è stato molto bello essere conscio delle mie origini, ma allo stesso tempo non esserne completamente preso. Ho fatto il disco, e non è un disco di musica “southern”, o di “americana”: è solo quello che ho fatto, ed è bello che non sia associabile del tutto ai luoghi da dove provengo. Non so se quello che ho detto ha senso, ma comunque: ci sono dei vantaggi a essere cresciuto oltreoceano e a tornare poi a casa. Dà libertà, anche nel modo in cui vedi la tua musica.

Non so se l’intervista ti sia piaciuta finora, ma la facciamo crollare: mi dici i tuoi cinque dischi da isola deserta?
Uno è il best of degli Staples Singers degli anni su VJ… Un box… La musica che hanno inciso per la VJ prima di passare alla Stax. È la musica più bella che sia mai stata fatta, secondo me… What’s Going On di Marvin Gaye. Qualcosa di Ray Charles…

Tipo Modern Sounds in Country & Western Music?
Sì, Modern Sounds in Country & Western Music. Good Old Boys di Randy Newman… Ho bisogno di qualcosa di New Orleans… Life, Love & Faith di Allen Toussaint, uno dei suoi primi dischi. Quindi, ce n’è uno di New Orleans, uno di Ray Charles, uno di Randy Newman, uno di Staples Singers…

e Marvin Gaye, con cui abbiamo iniziato l’intervista: il cerchio si chiude.
Sì, è vero. Ecco fatto!

Sul sito di Maps trovate l’intervista audio.

Giorni indipendenti: cronaca da un festival, tra il musicale e il mondano

A me i festival musicali, di solito, non piacciono. Troppi gruppi, pericolo di distrazione e di bulimia, tempi stretti. Ma quando mi è stato proposto di fare la diretta dell’Independent Days Festival per Popolare Network insieme a Elisa, non ho avuto dubbi e ho accettato. Insomma, due giorni di concerti gratis, con pass all areas, voglio dire… E quindi eccoci, alle dodici e qualcosa del 4 settembre, entrare nell’Arena Parco Nord.

Sabato 4 settembre

Da Ginsberg ai 3 allegri ragazzi morti. Scusa, Ginsberg.
Il primo personaggio che vedo lascia il segno. Un ragazzo dal capello lungo e luccicante (non ho voluto indagare se per eccesso di sudore, acqua o strutto) si aggirava per quella landa brulla e battuta da sole, con indosso un camice bianco. Si inginocchia per terra a caso, e urla: “Il re della poesia è Ginsberg!” Quando qualcuno gli chiede delucidazioni, si rialza, si calma un po’, poi chiede: “E lo sai qual è il re della prosa?” Si inginocchia di nuovo e urla, brandendo un libretto: “Jack Kerouac!”. “Forse è il figlio della Pivano”, ho pensato.
Sul palco si avvicendano i primi gruppi e, siccome la diretta inizia alle sei, ho tutto il tempo di guardarmeli. Di solito per non più di cinque minuti.
I Ray Daytona, però, sono simpatici. A parte la mia passione smodata per il garage (fans dei Fuzztones, a me!), è sempre bello vedere delle persone mascherate sul palco. Uno da martello, uno da chiave inglese, uno con la maschera antigas e uno… da uomo. Sì, sul palco dei Ray Daytona c’era un uomo con sopra un travestimento da uomo. Coi baffi. Forse l’omino sotto era sprovvisto di peluria facciale, chissà.
I Colour of Fire quando salgono sul palco si lamentano, perché il loro “Cheeao!” non è accolto dal pubblico come si deve. Quindi il cantante esclama, stupito: “Che razza di benvenuto è questo? Veniamo dall’Inghilterra!” In quel momento ho sperato che un siciliano lo minacciasse in dialetto stretto di salire sul palco e di spaccargli la faccia, se non la smetteva di dire cazzate e non iniziava a suonare.
E poi, I tre allegri ragazzi morti, che indossano maschere e fanno proclami. E la guerra. E la pace. E l’amore. E che due palle.

Gente, gente, gente, divertente (ma che bella situazione)
Avete presente le barzellette della Settimana Enigmistica dove si vedono i padroni dei cani uguali ai loro animali? Ecco, ai festival è così. L’Arena, sabato, era piena zeppa soprattutto di fan-sosia di Nick Oliveri. Omoni baffuti e con cappellino da camionista, che li vedi e sogni le grandi highway del Midwest. Poi li senti parlare e sono al massimo di Savona.
Stare vicino alla postazione mixer con il pass di cui sopra, inoltre, fa sì che si venga visti dal pubblico come degli oracoli, prodighi di saggezza e sapere. Mi è stata chiesta la scaletta circa settanta volte. E una quarantina di persone mi hanno chiesto “Ma i dEUS non suonano?” Ogni volta che ho confermato la triste notizia, le reazioni sono state da “Ah, vabbè, ma tanto piacevano solo a quello stronzo del mio ex”, fino al tentativo di suicidio. Dopo un po’ mi si avvicina un tizio e mi chiede “Oh, ma i Keane?”. Ho fermato un paio di fan dei dEUS che lo stavano per incaprettare.
L’altra gettonatissima domanda era: “Ma dov’è la tenda Estragon?” La mia risposta brevettata era un “là” accompagnato da ampio movimento del braccio, a comprendere tutto l’orizzonte. Ho smesso di indicarla quando uno mi ha chiesto se ci volesse la macchina, per raggiungerla.
Evidentemente il fatto che ci fossero due palchi non visibili l’uno dall’altro ha gettato nel panico tutti. In particolare una coppia, presumo piemontese, quarant’anni circa a capoccia. Lei mi approccia, da dietro le transenne, e mi inizia a chiedere dei due palchi, ma non chiamandoli “palchi”, bensì “situazione”. “Senti, ma in questa situazione qua suona Mark Lanegan? Ma quell’altra situazione dov’è?”. Ho ripreso immediatamente a sbracciarmi verso l’orizzonte e le ho fatto credere che Mark Lanegan fosse con i dEUS a bere pinte di Stella Artois a casa mia.
Dopo l’esibizione del suddetto Mark, si avvicina l’uomo della coppia. “Come ti è sembrato Lanegan? No, perché l’ho visto a Urbino, qualche anno fa, e mi sembrava meglio”. Io faccio la faccia del che-ne-so. Poi si avvicina, e mi sussurra: “Ma che c’è qualcosa che non va a Lanegan? No, lo chiedo a te, perché magari lo sai” e mulina la manina come per dire “birra e salsicce”. Io faccio la faccia di prima. “Ah, non sai un cazzo, eh?” E se ne va, con la sua compagna, verso nuove ed entusiasmanti situazioni.

Bloggerz (e non solo)
Poco tempo per stare con loro, peccato, perché finalmente ne ho visto qualcuno che aspettavo da tempo di vedere!

La musica che non conta e non riempie, quella che conta e ti fa saltellare, quella che commuove
Spiegatemi perché esistono The Libertines. No, veramente. Proprio come l’acqua fresca quando non hai sete. Mah, magari sono gretto io.
I Franz Ferdinand li avevo già visti, e li aspettavo alla prova del grande pubblico da festival, dopo l’abbraccio accademico virtuale del pubblico del Covo. Beh, ce l’hanno fatta anche stavolta. E voci fidate del backstage mi hanno detto che sono tranquilli, modesti e proprio tanto gentili e simpatici. Mando un sms a Karol, che dite? Quattro più, quattro meno…
E infine loro, i Sonic Youth. Ecco, quando hanno iniziato con “I love you golden blue”, ho maledetto il fatto di non potermi gettare nel pubblico, sbattendomene della diretta nazionale. Un’esibizione bellissima, con un inizio incerto su “100%” che l’ha resa ancora più preziosa. Sono andato ovviamente a fare una foto, durante “Teenage Riot”. Beh, vedete qua che è venuto fuori. Si può fotografare il rumore del feedback? Forse sì.
I Sonic Youth finiscono il concerto verso mezzanotte e qualcosa, noi abbiamo la diretta fino a mezzanotte e mezzo. Ma qualcuno dell’organizzazione non lo sa, quindi ci toglie la corrente prima. Le mie ultime parole sono state: “Allora, Elisa”. Bel titolo per una canzone. Mi chiedo se qualcuno ci abbia già pensato.

Domenica 5 settembre

Fashion Nuggets
La cara Bea non ne avrà a male se rubo il nome del suo blog per questa parte di post. Del resto lei l’ha rubato ai Cake, quindi… Si perpetra una catena di furti. Insomma, il pubblico del giorno indipendente numero due è spettacolare: ci sono adolescenti brufolosi e quarantenni che non si rassegnano, un po’ come molti dei gruppi in programma. E le magliette, di tutti i tipi, dai Metallica ai Thin Lizzy, dai Led Zeppelin ai Nirvana, dagli Ska-P a Piero Pelù. Ehm. Scusatea. Ma soprattutto non vedevo tante magliette dei Guns’N’Roses dal 1992. Incredibile quanto siano attesi i Velvet Revolver e soprattutto Slash. Sì, lo Slash che io e Elisa avevamo in programma di intervistare. Arriva un sms dall’organizzazione: “Niente domande sui GNR e sugli STP”. Io e Elisa ci guardiamo: “E mo’ che cazzo gli chiediamo?”. Ma in fondo stiamo per tornare indietro di dieci anni, senza neanche avere bisogno della DeLorean di Doc.

Slash: un simpatico quarantenne un po’ bolso
Quando veniamo chiamati dalla produzione del festival, io e Elisa siamo in fibrillazione. Slash, rendiamoci conto. Mica cavoli. Lo so, dimentichiamoci dello Slash Snakepit, tutti fanno degli errori. Mi viene in mente la mia compagna di scuola Silvia, perennemente in lotta ormonale e interiore tra le bellezze del chitarrista nicotinomane (tanto per citare una mania) e il biondo Axl. Stiamo per andare indietro nel tempo.
Per andare indietro nel tempo, però, ci vuole un’ora e un quarto di preparazione, durante la quale l’eccitazione si stempera in sentimento d’attesa e quindi in nervosismo. Intanto vediamo gli altri nel backstage. Appena vedo Slash penso: “Madonna, quanto è invecchiato”. Poi mi deprimo pensando che, poco prima, un ragazzino mi ha fatto la solita domanda della scaletta dandomi del lei. Nel frattempo mi siedo vicino alla truccatrice (?) dei Velvet Revolver, che sta appuntando una croce sul berretto militare che indosserà Scott Weiland. Il dialogo tra me e lei è surreale.
Io: “Posso sedermi qua?”
Lei: “Non lo so, tra un po’ arrivano”
Io: “Va bene, quando arrivano, tanto, devo intervistarli, quindi, per il momento, posso sedermi qua?”
Lei, dopo un minuto di pausa: “Non lo so, tra un po’ arrivano”
Per evitare il loop, mi siedo, e la guardo. Cuce questa croce sul cappello nero, e intanto tira su col naso. Ha gli occhi lucidi e il viso congestionato. Evidentemente ha pianto. Cosa nasconde nell’animo una costumista di un gruppo composto da vecchie glorie? Forse anche lei si è accorta, come me, che il tempo passa e non siamo più adolescenti?
I miei pensieri vengono interrotti dall’arrivo di Slash. Ci sediamo nel suo camerino, un’altra ragazza gli prepara un beverone energetico dal colore torbido, lui si siede, accende una sigaretta (Gitanes blu con filtro: e quando lo vedo che se la porta alla bocca penso solo “minchia”) e iniziamo l’intervista.
Slash è allegro e gioviale, parla con voce bassa e calda, sorride, ridacchia, non è avido di parole. Insomma: Slash è felice. Ed è lui a parlarci dei Guns’N’Roses, forse stimolato da una mia domanda un po’ rischiosa, su come è cambiato il pubblico in tutti questi anni.
Sei minuti intensissimi. Poi ci facciamo la foto che avete visto nel trailer, dove io ed Elisa lo imitiamo abbastanza bene, come si può notare.

Ecco l’intervista a Slash!

Kick Out the Jams
Avevo comprato il biglietto per il quattro, non per il cinque, senza pentimenti. Ma mi incuriosiva tantissimo sentire gli MC5, anzi DKT MC5, come si fanno chiamare adesso. Mi sono chiesto che tipo di operazione ci fosse dietro la reunion di un gruppo che ha fatto sì la storia del rock, ma che, in fondo, non è universalmente conosciuto. Ho risentito Kick Out the Jams, più volte, e non ne sono mai riuscito a cogliere l’essenza, in quel miscuglio di hard rock con influenze soul, ma dannatamente potente (adoro scrivere “dannatamente”). Alle 2005 di domenica 5 settembre 2004, quarant’anni dopo la loro formazione, ho capito. Ho capito che cos’è il rock-e-basta, dal vivo. Ho capito perché gli MC5 vengono da Detroit, come la Motown, ho capito vagamente che cosa doveva essere sentire quella musica nell’aria qualche decina di anni fa. Secondo momento in cui ho maledetto il mio lavoro (ballare “Kick Out the Jams” suonata da loro dietro un mixer è molto peggio dell’interruzione dell’amplesso) e decisamente miglior concerto della due giorni. Semplicemente splendidi.

L’oscurità senza fuochi d’artificio
Sono tamarri, fuori tempo massimo, commerciali e cantano in falsetto. Ma diciamolo: pur con tutti questi limiti, un paio di canzoni i The Darkness le hanno azzeccate. Quando una delle ragazze dell’organizzazione ci ha portato la scaletta della loro esibizione, e ho visto come finale prima del bis “Friday Night” e “I Believe in a Thing Called Love”, mi sono detto: “Ecco a cosa servono le prove denominate “Pyro” che ho visto su un foglio attaccato nel backstage”. E mi ha anche confortato che i case del gruppo fossero ventisei, ognuno grande come un’utilitaria. E invece niente: i Darkness hanno soprattutto usato le luci, il cantante si è cambiato d’abito solo tre volte, ha preso per il culo il pubblico e i Queen. E non è stato sparato neanche un fuoco d’artificio, niente. Che delusione.
Almeno, alla fine, nessuno ci ha staccato la corrente. Quindi abbiamo potuto salutare e concludere degnamente le nostre brave undici ore di diretta (che sono sempre meno, a vedere bene, del tempo che ci avete messo per leggere tutta ‘sta roba. Grazie.)

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