Neneh Cherry: la libertà è oggi

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“Seven Seconds”? Sì, va bene. Ma la canzone più famosa interpretata da Neneh Cherry insieme al fratellastro Eagle Eye è un granello nella vastità del patrimonio musicale della figlia(stra) del grande trombettista Don, della giovane post punk frontwoman dei Rip, Rig & Panic, di un’artista che si è continuamente messa in discussione flirtando con ogni genere musicale e mettendo in primo piano, sempre, “l’espressione di ciò che sono”, come mi ha detto nell’intervista che potete leggere qua sotto, ascoltare sul sito della radio e sentire in onda oggi alle 16, durante l’ultima puntata di Maps. Ma la chiacchierata con la splendida cinquantenne è cominciata con le sue scuse, ripetute più volte, per il ritardo con cui ha risposto al telefono. E si è conclusa con svariati “tesoro” e ringraziamenti sinceri. Senza contare i grazie che potete leggere qua sotto. Insomma, la Cherry non è solo una musicista rara, ma anche una persona speciale e pare speciale il rapporto con Bologna. “Oh sì, ci sono stata… Quand’era… Mi sa che è passato un po’ troppo tempo perché mi ricordi bene. Credo sia stato quando l’Italia ha vinto la Coppa del Mondo di calcio, quando può essere stato… Nell’82? Ero proprio a Bologna con i Rip Rig & Panic e con mio padre. È stato fantastico: tutta la città sembrava morta, tutto era chiuso e si potevano sentire le persone a casa che guardavano la partita. Al fischio finale tutti si sono riversati per strada ed è stato il delirio.”

Mi sa che si è verificato lo stesso quando abbiamo vinto l’ultima Coppa del Mondo…
Lo immagino… Be’, insomma, io c’ero, ero a Bologna!

Incredibile… Parliamo dell’ultimo album: è stato uno dei nostri dischi della settimana… un lavoro bellissimo che abbiamo amato molto…
Che bello! Grazie mille! Queste sono davvero le cose che danno senso alle mie giornate. Grazie.

Che cosa ti ha spinto a farlo?
Be’, penso che ogni tanto sia la vita che ti spinge fino al limite e l’unico modo che conosco per risolvere alcune questioni della mia vita è essere creativa: ed è venuto fuori Blank Project. Mia madre è morta, quand’è stato?, tre anni prima che il disco uscisse, anzi, prima che lo registrassimo. Ho iniziato a scrivere come una specie di terapia, con un po’ di disperazione, per provare a uscire da un momento difficile. Ma è stata un’arma a doppio taglio: da un lato una sorta di terapia, per uscire da un periodo buio, ma anche un modo per ricordare e celebrare nuovamente la vita. Quindi penso che allo stesso modo ci siano due lati nel disco: intensità e imbarazzo, insieme a una parte più pesante, per rimettere insieme i pezzi, quelli del lato più bizzarro e divertente della vita.

Non è rischioso collegare canzoni che suonerai, suonerai e suonerai ancora a un dolore tale?
Per me la creatività ha sempre a che fare con l’espressione e con ciò che sono. Quando si ascolta Blank Project, probabilmente si sente che ha molto a che fare con il tempo in cui è stato prodotto, ma le canzoni, per quanto siano legate a un periodo, cambiano sempre. Magari certe sono molto significative rispetto a un momento definito, ma per me sono sempre cangianti, e hanno una vita propria, raccontano la loro storia. Se pensi a Blank Project, anche se le canzoni sono legate al momento in cui mia madre se n’è andata e cose simili, penso che la maggior parte non siano semplicemente biografiche. Non so se mi capisci… Insomma, cerco sempre di non scrivere solo di me stessa, anche se uso le mie emozioni. Mi segui? Sono una specie di trampolino, ma cerco di immaginarmi come fossi un’altra persona, come se prendessi in prestito altre vite per metterle nelle canzoni. Fare il disco è stato un sollievo, mi ha riportato in vita e anche se ci sono delle parti di canzoni che sono malinconiche o tristi, il processo di produzione mi ha reso felice.

Un processo che è stato molto breve, durato solo cinque giorni. Come hai coinvolto i collaboratori?
Innanzitutto ho lavorato con Cameron, mio marito: lo faccio da tempo. C’erano poche persone coinvolte nella fase di scrittura, poi abbiamo passato le canzoni ai Rocketnumbernine, che sono un duo, Ben e Tom Page. Sono in due e possono suonare come fossero effettivamente due persone, ma anche come se fossero in sei. È interessante, perché sebbene siano un duo elettronico live, nulla è programmato, suonano tutto dal vivo. La collaborazione insomma è andata nella direzione che volevo: musica elettronica, ma suonata in modo sperimentale. Insomma: il disco è cominciato tra me e Cameron e poi è cresciuto con i due ragazzi che hanno portato il suono giusto e la forza alla musica, dando il via alla produzione e al viaggio che si è concluso in cinque giorni, con la chiusura del disco. Prima di andare in studio a registrarlo, abbiamo provato le canzoni moltissimo, in modo tale che, una volta in studio, abbiamo avuto la possibilità, semplicemente, di lasciarci andare, di suonare le canzoni senza pensarci su troppo. Kieran Hebden, Four Tet, che ha prodotto il disco, aveva le idee molto chiare: “Faremo questa canzone, ci metteremo insieme in una stanza, e suoneremo insieme, senza sovraregistrazioni, aggiustamenti e cose simili”. E avevamo solo una settimana, cinque giorni per fare il disco: era tutto il tempo che Kieran aveva a disposizione. Quindi ci siamo detti: “Bene, dobbiamo chiudere due canzoni al giorno”. Ed è quello che abbiamo fatto! Era il modo giusto per produrre il disco, e anche il modo che ha di fare Kieran ci ha rilassati, ci siamo fidati di lui e delle sue opinioni e ciò ci ha permesso di essere sciolti, di seguire il nostro istinto e il cammino che ha tracciato. Un viaggio interessante, collaborativo in modo naturale: con i Rocketnumbernine siamo vicinissimi, c’è intesa molto forte tra tutti noi.

Oltre ai nomi che hai fatto, nel disco c’è anche Robyn: sei aggiornatissima sul mondo musicale! Sei un’ascoltatrice vorace, ti stimolano le novità, ascolti dischi compulsivamente?
Diciamo che a volte mi piace molto ascoltare bella musica e c’è musica nuova letteralmente ogni giorno, in ogni ora della giornata, specialmente grazie alla rete. Ci sono momenti in cui sto bene, in cui mi piace riempirmi le orecchie di musica; a volte capita che per settimane non ascolti nulla ed ecco che mi perdo una ventina di cose. Penso che la musica nuova sia importante, ma amo tantissimo anche i classici: insomma, ascolto cose diverse. Tuttavia musica nuova vuol dire nuove energie, diventa fonte di ispirazione. Ho ascoltato proprio oggi questa nuova rapper, Tink, davvero meravigliosa: l’ha prodotta Timbaland, ha un paio di pezzi davvero belli.

C’è qualcuno che ti passa la musica? Tuo marito o qualcuno di cui ti fidi, che magari quando ti passa un link lo apri senza indugi?
Sì, dietro l’angolo di casa c’è un negozio di dischi fantastico che si chiama Honest Johns: è sopravvissuto a tanti alti e bassi… Vendono vinili, musica africana, jazz… un gran negozio. E c’è un ragazzo che lavora con me, Phil, il figlio di Sean Oliver, il bassista dei Rip Rig & Panic: è un tipo davvero in gamba, a volte mettiamo i dischi insieme e mi passa un sacco di musica. Sa quali sono i miei gusti e mi dice “ascolta questo, ascolta quest’altro”… E poi… Be’, ci sono i miei figli ai quali rubo un sacco di musica!

Hai avuto una vita avventurosa, movimentata, anche musicalmente parlando. Ascolti mai i tuoi vecchi album? Cosa provi?
Mica così spesso! A volte mi dico: “Oddio, oddio che roba…”, altre volte sono sorpresa, ma la sfida è sempre quella che deve arrivare. Ciò che farò mi interessa di più rispetto a ciò che ho già fatto. Se ascolto cose vecchie è perché capita, del tutto casualmente, oppure perché mi devo ricordare una canzone che devo cantare, fare dal vivo… Capisci? A volte mi dico “Oh, ma è meglio di quel che pensassi” (ride), altre volte sono sorpresa… Ma vedi, di solito guardo avanti e, quando ascolto musica, è di altri, non la mia. Se capita, c’è una ragione… Ed è interessante perché da un lato suona molto familiare, è ovvio, l’ho registrata io quella musica, fa parte di me; d’altro canto è interessante perché è un lato di me dal quale mi sono separata ed è quindi andare altrove, in un altro tempo che però è quello che mi ha condotta fino a qua, al presente che viviamo ora. La cosa bella è che se mi guardo ora riesco a percepire finalmente un pizzico di libertà, un’apertura che ho sempre cercato, sai. In un certo senso mi sento come se avessi appena iniziato (ride): è bellissimo provare oggi questa sensazione di novità.

Che live vedremo a Bologna? Chi suonerà con te e come sarà composta la scaletta, considerando il tuo vastissimo repertorio?
Sarò con Rocketnumbernine e faremo per lo più le canzoni di Blank Project e poi faremo qualche classico, se avremo tempo, come “Manchild” e “Woman”. Sarà bello, perché abbiamo avuto bisogno di focalizzarci su Blank Project per definire il nostro stile in maniera unitaria, ma poi inserire in scaletta alcuni brani vecchi ha decisamente funzionato. Poi chissà: stiamo anche lavorando a dei pezzi nuovi e magari ne faremo uno dal vivo… È una scaletta piuttosto potente… Ci sono anche pezzi più calmi, ma se tutto andrà bene ci sarà una gran forza sul palco… È come un viaggio, la nostra musica è cresciuta col tempo e, paragonata a quella che puoi ascoltare su disco, è più piena e l’energia è diversa, nel senso migliore del termine. E siamo solo in tre: io, Ben al sintetizzatore e sequencer, e Tom, suo fratello, alla batteria.