etica del giornalismo

Cronaca Vera alla televisione

Venerdì scorso, 9 settembre. Anzi, il 10, perché era mezzanotte e mezza. La televisione è accesa su RaiUno: c’è un servizio su un uomo che abita a Padova, in una zona malfamata vicino alla stazione. Dice di non essere razzista, e forse non lo è veramente: è solo esasperato dalla delinquenza in strada. Nella noia del venerdì sera non si cambia canale. La trasmissione prosegue, con una voce fuori campo che pare adotti dei temi da Mondo Movie, che ben si adattano al secondo servizio.
Da Padova ci si trasferisce in provincia di Benevento: “I battenti” parla della processione che si svolge ogni sette anni a Guardia Sanframondi, in cui un migliaio di incappucciati si battono il petto con degli spilli, bagnandolo col vino. La suadente voce femminile racconta il rito come Jacopetti parlava di popoli lontani. Abbondanza di primi piani sul petto dei battenti. Ho un ricordo: il tema (e il tono) è lo stesso di un articolo di “Cronaca Vera” di metà agosto. La gente sviene, canta, va in crisi mistica. La voce rimane suadente e morbosetta. All’uscita dei battenti parte una musica tribale.
Terzo servizio: veneti poveri che non possono fare le vacanze. Lo giuro. A questo punto sono completamente rapito. Vengono intervistati (in “Spirito del nord-est”) sempre con tono “esotico”, anziani che prendono il sole in un parcheggio, vigorosi padani che si bagnano nel Po e se la prendono con i meridionali, ciccione di Chioggia che non sono mai andate in altro luogo se non su quelle spiagge e anche delle persone che, oh!, vanno al mare in giornata con la corriera.
La trasmissione prosegue, e la mia incredulità aumenta quando, con tono davvero da “Cannibal Movie”, la voce femminile ci porta, pensate, in Sardegna dove, orrore!, c’è gente che mangia il formaggio coi vermi. Il titolo è “Il verme nel formaggio”, e la colonna sonora è ricolma di suoni gutturali. Ehi, ma la gente lo mangia davvero, il casu marzu, ed è un prodotto clandestino! “Il Guinness dei primati lo considera il prodotto alimentare più pericoloso al mondo”, dice la speaker con tono ammiccante. Verso la fine del servizio, un uomo di 104 anni parla con una di 108… in sardo, definito “incomprensibile dialetto arcaico”. Accidenti. E vivono in un paese con meno di venti persone! E mangiano le pecore “sacrificate ai loro appetiti insaziabili” (roba che neanche Joe D’Amato…).
Ma non è finita: in “Fatece largo” scopriamo che ci sono dei tifosi romanisti che se ne stanno una settimana a Brunico, a vedere la Roma in ritiro, con tanto di fumogeni giallorossi, porchetta, salsicce e l’elezione di Miss Roma a Brunico. “L’unica alternativa alla famiglia e al lavoro è la Roma”, dice qualcuno. E qualcun altro paragona la retrocessione della squadra alla morte di un caro. Per quasi tutti “questa è l’unica settimana di vacanza”. Il tutto sotto gli occhi dei biondissimi, compostissimi e altissimi indigeni. Colonna sonora “Mamma li italiani, mancu li cani”.
Il servizio seguente è su una piattaforma petrolifera: “Uomini in alto mare” è piuttosto sobrio, come contenuti, ma è la prova dello sputtanamento degli Arcade Fire, che vengono usati (nelle parti più corali) come commento musicale.
“Arsenico e vecchi bidoni” scopre il passato oscuro del lago di Vico, nei pressi del quale c’era uno stabilimento per la produzione di armi chimiche. Chi avrà ragione? Legambiente, che dice che l’arsenico nelle acque del lago è sei volte superiore alla norma, o i militari, che dicono “tutto bene”?
Il penultimo servizio è su Castel Volturno, e si intitola “L’Africa in casa”. Ecco, “Cronaca Vera” non avrebbe mai usato un titolo come questo per “quella che è stata definita la Gaza d’Italia”. Grazie al servizio scopriamo che gli africani “hanno paura dell’acqua”: ecco perché non fanno il bagno! Ma, alla fine, il calcio unisce, eh.
Il penultimo servizio, “Estate regale”, che ci porta a Cavallo, isoletta tra Sardegna e Corsica, dove trascorre le vacanze il principe Vittorio Emanuele. Come farne senza?
Dulcis in fundo, la “bonus track” è un fuori onda di una delle ultime interviste a Francesco Cossiga, definito (giuro) “L’italiano più presidente di chiunque”.

Non ci credete? Questa è la scaletta dell’ultima puntata di “E la chiamano estate”: la trovate qua.

Cialtroni anche nella censura

Ieri ho visto dei film pornografici con animali e minorenni.
No, vabbè, dai, lo ammetto: ieri ho visto due edizioni del TG1, quella delle 1330 e quella delle 20. I titoli di apertura di entrambi i notiziari erano dedicati al primo anniversario del terremoto in Abruzzo. In mezzo alle solite lodi sperticate all’opera del Governo e a Bertolaso, nell’edizione dell’ora di pranzo c’è stata un’anomalia. Una donna che faceva parte del corteo in memoria delle vittime, ai microfoni del telegiornale, si è lamentata della mancata ricostruzione, aggiungendo qualcosa come “Quale miracolo, qui di miracoli non se n’è visti”. Ho pensato a questa frase tutto il giorno: com’è possibile, mi sono chiesto, che a Minzolini sia sfuggita questa voce di dissenso? Dormiva? Gli è apparso in sogno qualcuno di più alto e meno pelato che gli ha indicato la via? Ho escluso che si fosse ravveduto da solo: Minzolini? Ma andiamo, su…
E infatti, nella seconda edizione, che ha riproposto un servizio pressoché identico, la donna, la sua rabbia e la sua frustrazione, sono scomparse. Questa è l’Italia, amici: un Paese che si può permettere di essere cazzone anche quando si applica in una cosa seria come dovrebbe essere una sana censura di regime.

I giornalisti preferiscono i biondini

Devo avere studiato, anni fa, la tendenza che i mezzi di comunicazione di massa hanno nel chiamare i protagonisti dei casi di cronaca nera (soprattutto) con il loro nome di battesimo. Erika e Omar, Amanda e Raffaele, eccetera.
Ma, nell’ultimo caso di stupro balzato agli onori della cronaca, quello del parco della Caffarella a Roma, uno degli accusati viene ormai chiamato “il biondino”.Sono i momenti in cui mi vergogno profondamente di fare parte dell’Ordine dei giornalisti. Che schifo.

Oltre il paradosso

I corsi e i ricorsi di cui sotto continuano. Esattamente quattro anni fa scrivevo un post, intitolato Etica, in cui mi chiedevo che limiti si potessero raggiungere nel giornalismo sventolando la bandiera del “diritto all’informazione”. Allora ancora non facevo parte di una categoria alla quale mi dimentico spesso – colpevolmente – di appartenere, quella appunto dei giornalisti.

L’omicidio di Garlasco ha spostato la questione ancora più in là: prima che di etica, infatti, è possibile parlare molto oggettivamente di paradosso della comunicazione, o di sindrome della faccia-come-il-culo (e scusate i tecnicismi). Nell’edizione del TG1 delle 20 dell’altroieri, una giornalista ha redatto un intero servizio sull’accanimento dei mezzi di comunicazione nei confronti dei protagonisti di quel fatto di cronaca. Mentre la voce parlava degli innumerevoli tentativi di interviste andate a vuoto, delle continue richieste ai giornalisti da parte di amici e familiari della ragazza uccisa di smetterla di assediare le loro case, le immagini mostravano il fidanzato di Chiara in lacrime, il dolore della madre e del padre della ragazza, microfoni appoggiati ad altoparlanti di citofoni, riprese di persone in macchina che se ne vanno.
Non contenta di questo, la direzione del TG1 ha proseguito con un secondo servizio, di tono vagamente vittimistico, in cui un’altra giornalista “si lamentava” del fatto che lei e i suoi colleghi fossero chiamati “sciacalli” e “mostri”, concludendo con una frase simile a “i mostri sono altrove”.

Io non ho parole. So benissimo che, in questi giorni, non parlare di quell’omicidio (anche solo per ricordarne i momenti, per fare delle ricostruzioni, solo per citarlo) significherebbe “bucare la notizia” (altro paradosso: di notizie non ce ne sono), nel meccanismo perverso che ormai regola l’informazione nel nostro Paese (e non solo qua). Ma, quanto meno, che si abbia la decenza di non contraddirsi in maniera così esplicita e di non fare le vittime. In tutta questa faccenda, di vittima certa ce n’è una sola.

(E, ovviamente, penso a Enzo, morto tre anni fa, e a quanto si sarebbe incazzato, ancora una volta, per tutto questo schifo.)

Specchio delle mie trame

Nell’ultimo numero di “Specchio”, supplemento settimanale de “La Stampa”, c’è un’intervista di Marco Gregoretti a Licio Gelli. L’occasione è data dall’uscita di Licio Gelli. Parla il venerabile, un libro-intervista al capo della P2 di Sandro Neri.
Gelli, nell’articolo di “Specchio”, inizia subito a provocare: “Io sono l’ultimo gerarca fascista in servizio permanente effettivo in vita”, dice che per risollevare il paese servono “due anni di dittatura”, che dovrebbero iniziare con l’abolizione del Consiglio Superiore della Magistratura e delle Regioni. Gelli definisce la Massoneria come “una scuola di etica”, e parla della strage di Bologna come di un “incidente di percorso”.

La cosa che mi chiedo è: salvaguardando il diritto all’informazione, perché dare ancora spazio a Licio Gelli, adesso, considerando che è agli arresti domiciliari, ha 87 anni, ha fatto dei danni incommensurabili al Paese, e da lui i magistrati non potranno sapere nulla? Che informazioni mai mi daranno l’articolo e il libro (citato all’inizio, ma di cui poi non si parla neanche per una riga: tutt’altra cosa è l’articolo di Alfonso Contrera su “L’Espresso”, riportato da Dagospia)? Ditemelo voi, perché io proprio…

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