Come distruggere l'inconscio collettivo superiore di una generazione

Queste righe non sono per voi, persone che mi conoscete, che mi frequentate, che condividete con me luoghi di lavoro, di divertimento, amicizie e affetti.
Questo post è per chi non ha idea di chi ci sia dietro a queste pagine, se non intuitivamente: dico tutto questo perché chi mi conosce ha sentito le parole che seguono migliaia di volte.
Per tutti: questo è un post serio. Cominciamo.

Da qualche anno a questa parte, quando mi confronto (profondamente o superficialmente) con i miei coetanei, maschi o femmine che siano, sul vago tema del lavoro, del futuro, delle aspettative, quello che incontro è principalmente sconforto, depressione, malumore, frustrazione. Questi sentimenti sono più che diffusi soprattutto tra chi, come me, lavora in ambito culturale, ma in realtà – sebbene con modalità diverse – sono davvero comuni a tutta la mia generazione di più-o-meno trentenni. Badate bene che questo sentire è limitato al lavoro e agli ambiti di cui ho parlato, e non ha nulla a che fare, almeno in prima battuta, con la sfera affettiva ed emotiva.
Insomma: siamo tutti sottopagati, attaccati a lavori poco gratificanti, o gratificanti ma svolti praticamente gratis, non abbiamo prospettive di carriera, se abbiamo un contratto (se) è a tempo determinato. E di solito scade in una manciata di mesi, e poi chissà.

Dal punto di vista politico-economico, non sarò di certo io a dirvi che conseguenze abbia questo malessere. Ma rendiamoci conto che questo stato d’animo sta minando psicologicamente una generazione intera. Qual è questa generazione? Beh, essendo il nostro un Paese di vecchi, in cui l’unica forma costante di potere che esiste e si riproduce è quella della gerontocrazia, noi non siamo neanche lontanamente la “classe dirigente”. Se resisteremo, lo saremo tra una ventina d’anni come minimo. Una ventina d’anni in cui, con ogni probabilità, continueremo a sopravvivere attraverso le solite frustrazioni, delusioni, fragilità.
Supponiamo ora che, dopo questo faticosissimo iter, uno arrivi ad occupare una qualsiasi “posizione di potere”: quanta forza d’animo ci vorrebbe per rendersi conto di essere vecchio, inadeguato, naturalmente non più al passo coi tempi, per tirarsi indietro almeno un po’? Tanta, tantissima, e probabilmente questa forza sarà stata prosciugata da tutti gli anni di fatica, quindi non ne rimarrà neanche l’ombra. Risultato? Anche noi perpetueremo uno dei grandi mali d’Italia, la gerontocrazia, appunto.

Ma anche nel presente, nel quotidiano che viviamo ogni giorno, questo stare male si ripercuote su quello che produciamo. Pur sapendo che il lavoro è fatica, sempre, questo stato d’animo diffuso evidentemente ci fa comunque rendere meno: un eventuale calo di risultati diventa quindi un’ulteriore “riprova” del fatto che “ne abbiamo ancora da imparare”. E di nuovo il sistema gerontocratico si autoalimenta.

Secondo Jung, l’inconscio collettivo superiore, opposto a quello inferiore, legato al passato, è direttamente connesso al futuro. Il futuro. Quale futuro? Io, sinceramente, non sono un pessimista, ma non riesco davvero a pensare al mio futuro. Non ho alcun tipo di sicurezza, fare le cose bene non mi garantisce nulla (meritocrazia, cos’era costei), il sistema premio-punizione, alla base della socializzazione non solo primaria dell’individuo, è stato scardinato da un bel po’. Quindi si sta come sugli alberi le foglie, come diceva quel poeta che tanto amo; ma lui parlava d’autunno: io credo invece che la nostra caducità sia perenne. Anche per questo tanti miei amici hanno gastriti, soffrono di insonnia, di broxismo, sublimano la loro condizione con dipendenze di vario tipo. Questo, direte voi, è sempre successo. Sì, ma non in queste proporzioni, non con questa frequenza, non con questo riscontro globale, per cui si incontrano delle persone in vacanza, diversissime per estrazione, aspirazioni, studi, e dopo cinque minuti si parla di certe cose come se si condividesse da anni lo stesso ufficio.
E non riusciamo neanche più a protestare, e questo è il vero dramma, perché siamo terrorizzati che la sediolina sulla quale stiamo, rotta, scomoda, sporca, potrebbe essere l’ultima che ci viene concessa.