Peter Sarsgaard

Dagli archivi: Flightplan – Mistero in volo (Robert Schwentke, 2005)

Di Robert Schwentke
Con Jodie Foster, Peter Sarsgaard, Sean Bean, Kate Beahan, Greta Scacchi
Durata 98’
Distribuzione Buena Vista International Italia

La storia: Kyle Pratt, ingegnere aeronautico, sta volando da Berlino a New York con la figlia Julia, insieme alla salma del marito, morto accidentalmente, che deve essere seppellita negli Stati Uniti. Durante il volo la bimba scompare, e Kyle inizia una ricerca, aiutata dall’addetto alla sicurezza di bordo Gene Carson e dai membri dell’equipaggio.

Leggendo la trama e il cast di Flightplan, vengono in mente altri due thriller di ben altro spessore, La signora scompare di Hitchcock e di Panic Room di Fincher. Ma la scomparsa misteriosa di un personaggio in un luogo chiuso, e “Jodie Foster con la figlia in un luogo chiuso” sono gli unici due elementi che aprono e subito esauriscono i paralleli con questa opera seconda del tedesco Schwentke. Flightplan, infatti, è carente proprio nei due punti che hanno fatto la forza dei film citati.

Tipico di Hitchcock è il “mcguffin”, un espediente che innesca e mantiene il meccanismo narrativo, e la tensione che ne deriva. La sparizione di Julie Pratt, così come quella di Miss Froy nel film di Hitchock, vorrebbe funzionare proprio in questo senso, ma non riesce nello scopo. Un difetto non proprio trascurabile di un prodotto che vorrebbe essere un thriller, infatti, è proprio la mancanza quasi assoluta di tensione: ce n’è un accenno nella prima parte, ma poi scema fino al necessario e annunciato colpo-di-scena-di-tre-quarti-di-film. La sceneggiatura, però, non riesce a tenere insieme tutti gli elementi, e quindi la loro soluzione nel finale appare davvero improbabile e forzata.

L’elemento chiave di Panic Room, invece, era lo spazio (cinematografico) e la sua gestione. Le scenografie di Alec Hammond in Flightplan, per quanto convincenti nel mostrarci un enorme aereo di linea a diversi piani, con salotti, salottini, scale e posti per quasi quattrocento persone, non sono sfruttate dalla macchina da presa di Schwentke, che si limita a qualche scolastico virtuosismo con immagini riflesse e superfici lucenti varie. Il senso spaziale è, insomma, annullato, tant’è che ci si dimentica presto di essere in/su un aereo: lo spazio si caratterizza semplicemente come un “luogo dell’azione” anonimo e viene privato di alcun tipo di forza narrativa o di tensione.

L’unico tentativo di opposizione a questo appiattimento progressivo dell’ambientazione del film è dato da alcuni richiami alla situazione dei voli dopo l’undici settembre. Mano a mano che la tensione tenta di crescere, nascono paranoie e razzismi vari tra i passeggeri, che sfociano in un attacco dell’esasperata Kyle nei confronti di un arabo. Ma anche quel tipo di tensione, se sulle prime rischia di trasformarsi in lapidazione collettiva, viene facilmente risolta dall’arabo che tende una mano verso la protagonista, in un finale che più lieto non si può.

Recensione originariamente apparsa su duellanti, dicembre 2005

Dagli archivi: L’inventore di favole (Billy Ray, 2003)

Shattered Glass

Di Billy Ray (USA 2003)
Con Hayden Christensen, Peter Sarsgaard, Chloe Sevigny, Steve Zahn, Rosario Dawson
Durata 95’
Distribuzione Medusa

La storia: Nel 1998 un giornalista scopre che Stephen Glass, l’astro nascente dell’importante settimanale politico The New Republic, ha inventato del tutto o parzialmente gran parte degli articoli di successo che ha pubblicato.

Molta della forza di Shattered Glass, diciamolo subito, risiede nella storia che racconta, senza dubbio affascinante, ma che forse ha fatto rilassare su di essa Billy Ray, regista e sceneggiatore. Nonostante la buona prova di Sarsgaard, infatti, la caratterizzazione dei personaggi è un po’ tirata via, soprattutto quella del protagonista, che viene rappresentato soltanto come un giovane ambizioso che fa della modestia e di un understatement esibito i suoi tratti fondamentali. Ma l’interesse del film non credo stia in quanto ci sia in esso di cinematografico (o di televisivo), bensì nel tema che fa emergere. Tutto è focalizzato sulle questioni etiche del giornalismo, anche in prospettiva “didattica”: si veda, a questo proposito, l’inizio del film ambientato in una scuola e le esercitazioni per alunni e insegnanti scaricabili dal sito ufficiale del film.

Una delle parti centrali della “lezione” che Glass tiene agli studenti della sua vecchia scuola è tesa a illustrare il metodo di verifica di un articolo, una serie di passaggi da reiterare più e più volte. L’ultimo punto di questa routine riguarda gli appunti del giornalista: anche quelli devono essere controllati, sebbene alla fine sia il giornalista a fare da garante sulla loro veridicità. Proprio qui sta il centro di Shattered Glass: Peter sbandiera i suoi appunti e quindi la sua persona, forgiata a forza di gentilezze e premure nei confronti degli altri, come garanzie di verità di quello che scrive. Tuttavia gli appunti di Glass alla fine si rivelano essere falsi: in fondo sono solo le sue scritture private e personali, le sue favole, e in quanto tali non sono verificabili, esattamente come accade quando si scrive fiction. Lo spunto interessante del film, purtroppo solo appena accennato a mo’ di cornice narrativa, è che alla fine anche noi spettatori ci rendiamo conto di essere caduti nelle alchimie favolistiche e narrative dell’ingegnoso Glass, di avere creduto alle sue parole riportate, come il direttore del giornale e, soprattutto, come i lettori dei suoi articoli.

La conclusione di tutta la vicenda è perfetta nella sua “costruzione ad abisso”: Glass, adesso, fa lo scrittore, e il suo primo romanzo ha come tema quello di un giornalista che si inventa delle notizie per fare carriera.

Recensione originariamente apparsa su duellanti, gennaio 2005

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