piuttosto che

Se questo post vi fa cacare è perché c'è di mezzo la Crusca

Non ne posso più. Non ne posso più di vedere e sentire la nostra lingua schiaffeggiata, derisa, talvolta stuprata. Non ne posso più del po’ scritto pò (e c’è gente che dice “risparmio un carattere”: ma per favore), di “qual’è” e simili, di “attimino”. Ma, soprattutto, non ne posso più di tre cose, che hanno una caratteristica comune: si sono diffuse nel linguaggio ordinario come indizio di raffinatezza, di alto profilo del discorso. No: quelli che elenco sono niente di più o di meno che errori.
1. Piuttosto che. Allora, mettiamo le cose in chiaro. “Piuttosto” è un avverbio che mette i due termini che lega in una condizione di disparità, non di uguaglianza, che il locutore usa per “prendere una parte”, non per elencare. “Piuttosto che piangere, fa’ qualcosa.” “Dammi dei soldi o, piuttosto, prestami il bancomat”. Usarlo come se fosse “o” (inteso come “vel” latino, come congiunzione, non disgiunzione – “aut”) è sbagliato. Non si può dire: “Ho fame. Potremmo andare a mangiare la pizza, piuttosto che una pastasciutta” intendendo che pizza o pasta pari sono. No. “Ho fame e non ho soldi: piuttosto che una pizza, mi preparo una pastasciutta”. Chiaro? Piuttosto che usarlo a cavolo, usatelo bene.
2. Quant’altro. Ormai lo si usa completamente a sproposito, per dire “eccetera” e tutti i suoi sinonimi, a conclusione della frase. No. No. No. L’espressione “quant’altro” è legata a un termine, che di soito è esplicito, ma che comunque è ben preciso. Esempio: “So che hai fame, per questo ti ho messo da parte del pane e quant’altro ti possa servire”. Quanto-di-altro, capito? Se no uno dice “eccetera”. Che vuol dire “e tutte le altre cose che fanno parte di un elenco potenzialmente infinito e non sto qui a numerare”. Come si dice qui, l’et cetera è una dissolvenza, un fade out, il quant’altro è uno che preme “stop” per sbaglio. Un gesto goffo, una gaffe sciocca, uno scivolone… eccetera.
3. Importante. L’uso di questa parola è tale che “importante” sta rischiando di diventare una sorta di “termine ombrello assolutizzante”. Quindi diventa importante il motore di un’automobile, ma non rispetto alle prestazioni della stessa: magari solo perché ha una grossa (importante…) cilindrata. Il costo di una casa è importante, ma no, è elevato, conveniente. A meno che uno non dica: “Ecco, signori Rossi, la catapecchia che volete vedere. Non sottovalutate, però, il costo della suddetta: è importante, perché la capanna, qua, vi viene solo 3000 euro.” Ha senso usare “importante” quando l’aggettivo serve a valorizzare il sostantivo (o il termine) a cui è associato, rispetto ad altri termini. Allora “importante” ha una sua giustificazione. Se no usate dei sinonimi. Sembrano piccole cose, ma (rispetto ad altre) sono importanti. Facciamo uno sforzo.

Eh?

Negli ultimi giorni mi è capitato di intervistare per la trasmissione tre persone diverse. Non posso scendere in particolari, come capirete, ma si tratta di persone abbastanza “in alto”, per così dire. Non personaggi famosi, ma uomini e donne in posizioni che comportano un certo potere, quanto meno culturale.

Uno era tra i curatori della mostra su un fotografo del passato. Prima di intervistarlo mi sono documentato con una (una) pagina di Wikipedia sul fotografo in questione, tanto per. Quando gli ho chiesto qualcosa di più specifico oltre alla cartella stampa, ho sentito chiaramente il rumore delle sue unghiette sul vetro – e badate bene che un’intervista non è e non dev’essere un interrogatorio. Alla mia domanda sull’evidente importanza e rivistazione dei temi del fotografo oggi, con una finta l’intervistato mi ha parlato del fatto che “prima o poi tutto viene ripreso dalla moda”. Mi mancava solo che mi parlasse della completezza di uno sport come il nuoto, come mi ha detto prima FedeMC.

Una era la direttrice del luogo dove veniva esposta una collettiva di fotografi del presente. Ha definito “inglese” uno nato a Dublino, e ha raggruppato diversi paesi dell’Europa del nord, da dove provenivano altri artisti, dicendo “da nord”. Hic sunt leones. Con quel freddo.

Uno era il responsabile di un’importante galleria milanese. Ha citato un film sbagliandone la data. Ne ha citato un altro sbagliandone la pronuncia (e non stiamo parlando dei capolavori della cinematografia ungherese). Ma soprattutto ha usato continuamente l’espressione “mentre che” completamente a caso, messa in mezzo alle frasi, così, come si lanciano i coriandoli. Per non parlare dell’uso ormai diffusissimo di “piuttosto”, adoperato alla stessa maniera di un “o” congiuntivo.

Lo so, sono discorsi spocchiosi e pallosi. Ma così non solo si parla male, ma lo si fa credendo di essere colti. L’esempio di questo “piuttosto” usato a cazzo è evidente. Semplificando al massimo:
– qualcuno, in una posizione culturale di potere X, usa “piuttosto” nel modo sbagliato (per motivi che non ci è dato di sapere);
– un altro, in una posizione X-1, riprende l’uso sbagliato senza porsi domande, perché il signor X vuoi che parli male? Inizia ad usare quindi “piuttosto” in quel modo, sentendosi anche quasi manzoniano, colto, all’altezza di tutto quello (esagero) che il signor X rappresenta.
E la catena è infinita.

Sì, ci sono problemi più grossi al mondo, è vero. Ma non posso pensare che, anche in questo, siamo un paese approssimativo, arretrato, per molti versi orrendamente borbonico. E ciò si vede anche dalle parole, e da come sono usate per esprimere dei contenuti, per di più talvolta inesistenti.

Mentre che, piuttosto, eh?
Appunto.

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