interviste

You Speak My Language

Mi ricordo benissimo quando ho sentito per la prima volta i Morphine: era l’estate del 1995 e un amico mi passò Yes, uscito qualche mese prima. Avevo appena diciassette anni, eppure quei brani mi colpirono tantissimo: erano liberi, del tutto originali, unici nel loro genere. Poco alla volta recuperai la discografia dei Morphine, conclusa con il cd masterizzato di The Night, nel 2000, quando Mark Sandman era già morto da un anno abbondante. Diciassette anni dopo penso ancora che le canzoni dei Morphine siano una specie di unicum.
I Morphine sono ormai per me un metro di paragone inevitabile: non arrivo a dire “se ti piacciono sei mio amico, se no no”, però mi trovo in sintonia con chi li ama. Un po’ come faccio con i Monty Python. In fondo, per capire bene la band di Boston e il gruppo di matti per lo più britannici, bisogna comprendere il loro modo di comunicare e, cosa non da poco, la loro ironia.
I Morphine sono stati, con “Have a Lucky Day”, la sigla finale di Monolocane (la trasmissione notturna che ho condotto tanti anni fa), con “Honey White” (la traccia che apre Yes) il ritorno a quell’estate di metà anni Novanta, con “The Night” il suggello tremendo di qualcosa di meraviglioso che avrebbe potuto essere e che non sarà mai.

Quando, qualche mese fa, ho scoperto che la Gatling Pictures aveva prodotto un documentario sul leader della band, Cure for Pain – The Mark Sandman story, ho sentito che volevo e dovevo fare qualcosa su questo film che ancora neanche possedevo. E ho contattato subito la casa di produzione, il produttore Jeff Broadway e il sassofonista dei Morphine, Dana Colley. Non lo faccio mai: prima di parlarne per lavoro voglio ascoltare, vedere e leggere. Ho rischiato, perché sentivo che il documentario era qualcosa di buono: quando l’ho visto, nonostante tutti questi pregiudizi positivi, il mio stupore è stato grande. I registi di Cure for Pain sono riusciti a realizzare un bel film, da ogni punto di vista, adottando una prospettiva rischiosa (quella della tremenda storia dei Sandman) e portando lo spettatore ad appassionarsi a una storia unica e per lo più misconosciuta.

Finalmente lo speciale su Cure for Pain – The Mark Sandman story è pronto: va in onda questo pomeriggio in Maps e, da domani, potrete riascoltarlo andando qua. Come “regalino” per voi fedeli lettori, vi anticipo il contenuto delle interviste che hanno trovato posto nello speciale, trascritte in forma integrale. Se non volete rovinarvi la sorpresa perché preferite sintonizzarvi su RCdC intorno alle 16 di questo pomeriggio, vi basta non cliccare qua sotto. Per tutti gli altri, buona lettura. Per gli altri che amano alla follia i Morphine, spero che l’ascolto e la lettura siano emozionanti quanto per me preparare questo lavoro; in fondo, tutto questo è che anche per voi: “you speak my language”.

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Abbiamo fatto il trenino – Express Festival 2010

A differenza dell’anno scorso, dove ho fatto l’en plein o quasi, quest’anno ho partecipato a tre concerti su cinque dell’Express Festival, anticipato di un mese e tenuto per lo più dentro al Locomotiv. Se cliccate sulle foto andate al set, per i primi due concerti. Ieri avevo la macchina fotografica ma senza pile. Genio. Ah, nei prossimi giorni sul sito di Maps trovate le interviste ai protagonisti del Festival.

Efrim MenuckSpirito Collettivo – Thee Silver Mt. Zion Memorial Orchestra (8 aprile). Sono stato sempre un grandissimo fan dei Godspeed You! Black Emperor, e ho ascoltato ogni volta con attenzione i lavori della band capitanata da Efrim Menuck. Non sempre mi hanno convinto, ma l’ultimo Kollaps Tradixionales è davvero un ottimo disco. Sentendo Menuck in radio nel pomeriggio prima del concerto, mi ha stupito la sua loquacia e quello che ha raccontato del modo che ha la band di prendere i live: il dialogo col pubblico, la “deromanticizzazione” dello status di band, mi ha detto, sono importanti quanto la musica. E così è stato. Un set lungo e impegnativo, di quasi due ore, per brani che principalmente sono stati presi dall’ultimo disco, cinque persone sul palco (voce e chitarra, batteria e tastiere, due violini e contrabbasso) per un concerto davvero meraviglioso, che ha sfruttato tutta la lineup, coinvolgendo i cinque, ad un certo punto, in un canone da brividi. E l’alternanza tra i maestosi crescendo della band su Constellation e le chiacchierate col pubblico (Menuck ha ironizzato su tutto: dalla non esistenza del Canada, al presentare il suo gruppo prima come Foo Fighters e poi come Death Cab for Cutie) sono state spiazzanti e stimolanti al tempo stesso. Uno dei concerti della stagione.

Hayden Thorpe

Buoni e cattivi – Wild Beasts + These New Puritans (9 aprile). Sono andato al Locomotiv venerdì per i TNPS: il loro ultimo Hidden è bellissimo, e segna davvero un passo avanti rispetto alle spigolosità, talvolta pretenziose, di Beat Pyramid. Avevo ascoltato distrattamente, invece, il pur bello Two Dancers dei Wild Beasts, ma la sensazione che ho avuto dalle due band della Domino Records si è rivelata all’opposto delle aspettative. I Wild Beasts sono stati carichi e eccellenti. Le canzoni, non tutte indimenticabili, sono state suonate con passione e precisione, dando spazio alla musica, e costringendo i due vocalist della band a scambiarsi basso e chitarra con una rapidità fin troppo esagerata. Ma si percepiva che le luci, i cambi di strumento, l’annunciare le canzoni, erano elementi secondari: la band britannica ama la musica che fa, e ama il pubblico. Risultato? Una bellissima sorpresa.
I These New Puritans si sono fatti attendere: dopo il primo set, il Locomotiv ha visto il sipario chiudersi, per chissà quale allestimento di palco, pensavamo noi là sotto. E invece, davvero poca roba: set preso quasi tutto da Hidden, con uno scialbo (e unico) bis con “Elvis” hit del primo disco suonata con una poca voglia e un’energia scarsa da mettere in imbarazzo. Ma l’approccio dei TNP è stato questo anche al Covo due anni fa: non confondiamo, però, l’afflato “punk” con la mancanza di voce o lo scazzo sul palco, per favore. Dimenticabilissimi.

Avanguardie – Stefano Pilia + Massimo Volume che sonorizzano La caduta della casa Usher (11 aprile).  Ultima giornata del Festival con l’appuntamento più colto della cinque giorni. Stefano Pilia propone da solo sul palco la sua visione di musica, che sta diventando sempre più definita e personale. L’uso dell’arco sulla chitarra (una cosa che fanno decisamente in troppi, ormai) è giunto a raffinatezze tecniche e armoniche eccellenti. La seconda parte del breve set, invece, è più rumorista, e fa uso massiccio di feedback, registrazioni, masse sonore sovrapposte. Interessante, sebbene non facile.
I Massimo Volume, poi, hanno riproposto la “cosa” che li ha fatti tornare insieme, due anni fa. Il Museo del Cinema di Torino ha innanzitutto fatto un regalo alla band bolognese, assegnandole la sonorizzazione di uno dei film più belli della storia del cinema: sono passati più di ottant’anni dalla realizzazione di questo capolavoro, che, pur prendendo spunto principalmente dal racconto omonimo di Poe è, in realtà, una summa dell’opera dello scrittore di Baltimora, eppure La caduta della casa Usher riesce a sbalordire per l’ardire della messa in scena e per la freschezza del racconto. I Massimo Volume hanno creato intorno all’opera una musica che sfrutta benissimo il ritmo della narrazione, alternando momenti più rumorosi a (vivaddio) silenzi, ma non si sono limitati a un tappeto: le melodie, le strutture tematiche, le soluzioni talvolta quasi pop che la band ha scelto sono uno dei migliori esempi di sonorizzazione intelligente che si siano visti di recente. Eccezionale.

Eh?

Negli ultimi giorni mi è capitato di intervistare per la trasmissione tre persone diverse. Non posso scendere in particolari, come capirete, ma si tratta di persone abbastanza “in alto”, per così dire. Non personaggi famosi, ma uomini e donne in posizioni che comportano un certo potere, quanto meno culturale.

Uno era tra i curatori della mostra su un fotografo del passato. Prima di intervistarlo mi sono documentato con una (una) pagina di Wikipedia sul fotografo in questione, tanto per. Quando gli ho chiesto qualcosa di più specifico oltre alla cartella stampa, ho sentito chiaramente il rumore delle sue unghiette sul vetro – e badate bene che un’intervista non è e non dev’essere un interrogatorio. Alla mia domanda sull’evidente importanza e rivistazione dei temi del fotografo oggi, con una finta l’intervistato mi ha parlato del fatto che “prima o poi tutto viene ripreso dalla moda”. Mi mancava solo che mi parlasse della completezza di uno sport come il nuoto, come mi ha detto prima FedeMC.

Una era la direttrice del luogo dove veniva esposta una collettiva di fotografi del presente. Ha definito “inglese” uno nato a Dublino, e ha raggruppato diversi paesi dell’Europa del nord, da dove provenivano altri artisti, dicendo “da nord”. Hic sunt leones. Con quel freddo.

Uno era il responsabile di un’importante galleria milanese. Ha citato un film sbagliandone la data. Ne ha citato un altro sbagliandone la pronuncia (e non stiamo parlando dei capolavori della cinematografia ungherese). Ma soprattutto ha usato continuamente l’espressione “mentre che” completamente a caso, messa in mezzo alle frasi, così, come si lanciano i coriandoli. Per non parlare dell’uso ormai diffusissimo di “piuttosto”, adoperato alla stessa maniera di un “o” congiuntivo.

Lo so, sono discorsi spocchiosi e pallosi. Ma così non solo si parla male, ma lo si fa credendo di essere colti. L’esempio di questo “piuttosto” usato a cazzo è evidente. Semplificando al massimo:
– qualcuno, in una posizione culturale di potere X, usa “piuttosto” nel modo sbagliato (per motivi che non ci è dato di sapere);
– un altro, in una posizione X-1, riprende l’uso sbagliato senza porsi domande, perché il signor X vuoi che parli male? Inizia ad usare quindi “piuttosto” in quel modo, sentendosi anche quasi manzoniano, colto, all’altezza di tutto quello (esagero) che il signor X rappresenta.
E la catena è infinita.

Sì, ci sono problemi più grossi al mondo, è vero. Ma non posso pensare che, anche in questo, siamo un paese approssimativo, arretrato, per molti versi orrendamente borbonico. E ciò si vede anche dalle parole, e da come sono usate per esprimere dei contenuti, per di più talvolta inesistenti.

Mentre che, piuttosto, eh?
Appunto.

Speciale su Enzo Baldoni

Ho curato le interviste a Pino Scaccia e a Enrico Deaglio, direttore di Diario, per uno speciale su Enzo che andrà in onda all’interno de La talpa spaziale, la trasmissione quotidiana di informazione di Città del Capo – Radio Metropolitana di Bologna, dalle 1815 di oggi.
Se siete a Bologna, Ferrara o Modena – ma soprattutto Bologna – sintonizzatevi sui 96.250 o 94.700 MHz. Se siete altrove, potete sentire il programma in streaming.
Con ogni probabilità l’intervista a Scaccia verrà ripresa da Popolare Network in uno dei prossimi giornali radio.
Update: verrà ripreso nel GR immediatamente dopo La talpa spaziale.

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