rap

Dagli archivi: Kill the Vultures – Carnelian

Kill the Vultures – Carnelian (Totally Gross National Product)

8

Altri ascolti raccomandati
cLOUDDEAD – s/t
Kill the Vultures – The Careless Flame
Brandt Brauer Frick – Miami

Dopo sei anni di silenzio, l’MC Alexei Casselle e il produttore Stephen Lewis tornano con un album cupo e teso. Carnelian spinge ancora più in là l’approccio dei Kill the Vultures, che, fin dall’esordio del 2005, hanno scelto delle basi insolite sulle quali raccontare le proprie storie. In quest’ultimo capitolo della loro discografia hanno per lo più sostituito i campioni presi da cataloghi jazz (nel senso più ampio del termine) con partiture che coinvolgono di volta in volta archi, pianoforte, ottoni, flauto, vibrafono e percussioni; musiche appositamente scritte e fatte registrare, per poi essere smontate e rimontate al fine di comporre i beat sui quali si dipanano i cinquanta minuti scarsi di questo disco. Se da un lato c’è la volontà di fare piazza pulita, dall’altro è evidente la necessità di avere tutto sotto controllo, per creare il disco più completo e convincente dei quattro finora firmati dal duo di Minneapolis.

Il titolo, tradotto, vuol dire “corniola”: è una pietra – ci insegna Wikipedia – dalla forte valenza allegorica, in particolare per gli Egizi: nei loro culti simboleggiava la vita ed era indispensabile per garantire ai defunti il passaggio tra i due mondi. Di riferimenti a questa transizione il disco è pieno, a cominciare da The River, in cui le parole di Crescent Moon – accompagnate da campane e contrabbasso – si muovono suadenti per narrare in maniera astratta e figurata uno stato tra la vita e la morte molto più quotidiano di quanto possa sembrare. I Kill the Vultures raccontano, non denunciano; declamano, non divertono. Da sempre. La sfida è quella di entrare nel loro mondo, notturno e minaccioso, descritto da immagini fortemente allegoriche (“Nothing but a white wall, lightbulb and a serpent”, nella citata The River), in cui il diavolo “danza sotto i lampioni” (Topsoil). Il senso di morte è a tratti opprimente e domina uno dei pezzi chiave del disco, quella Coins on the Open Eyes, dove il testo ripete il titolo nel ritornello, aggiungendoflies in the open mouth” e si chiede, sardonico, se un boia “ever gets stage fright”.

Sebbene i richiami al jazz ci siano (l’inizio di Simmer in questo è chiaro), le musiche di Carnelian si rifanno a melodie e armonie tipiche della cosiddetta avanguardia, sin dal singolo – e prima traccia dell’album – Shake Your Bones: le improvvisazioni che la chiudono si rincorrono sui registri più alti di archi e ottoni e fanno scivolare l’ascoltatore nel clima di tensione che vivrà per i successivi quaranta minuti. Tuttavia, per quanto “avant” o “sperimentali” possano essere considerati, i Kill the Vultures fanno comunque hip-hop e in questa ultima produzione non si rinuncia del tutto ai tratti più riconoscibili del genere, pur personalizzandoli. Il flow non è mai virtuosistico in termini di velocità o di metrica interna: ha un andamento solenne e declamatorio, è sicuro nel descrivere storie allo stesso tempo note e difficilmente riconducibili in maniera inequivocabile a scenari reali.

Eppure non è difficile rintracciare certi temi abituali della doppia H – razzismo, potere, denaro, crimine – lungo le dozzina di tracce del disco: in Vandal tutto ciò è più esplicito che in altri pezzi, ma le parole in Carnelian, dal potente senso immaginifico, lasciano all’ascoltatore la decisione di entrare nel mondo quasi orrorifico che si crea e il successivo piacere di definirne i dettagli. Non c’è la chiamata alle armi strombazzata da ritornelli da stadio, l’affiliazione sfacciata a cui brama, tra un ammiccamento e l’altro, il rap più comune e diffuso. Allo stesso modo le basi di Smoke in the Temple e del dittico finale Amnesia / The Last Time evocano strutture hip-hop usando altri mezzi rispetto ai beat pompati e compressi, senza mai fare sentire la mancanza di un uso massiccio di macchine e campionatori. E c’è spazio anche per filastrocche letteralmente agghiaccianti come quella di Crown, un girotondo allucinato di gemiti, pianoforte e batteria, il momento più estremo di un album davvero riuscito.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di dicembre 2015 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: Run the Jewels – Run the Jewels 2

Run the Jewels – Run the Jewels 2 (Mass Appeal)
8

Altri ascolti raccomandati
Killer Mike – R.A.P. Music
El-P – Cancer for Cure
Run the Jewels – ST

Il punto non è il cosa, ma il come. Già, perché Killer Mike e El-P, giunti alla seconda collaborazione nel giro di poco più di un anno (o alla terza in un biennio, se si considera R.A.P. Music), parlano di droga, sesso, problemi con la polizia, miti musicali e politici di ieri e mondo d’oggi: i contenuti del novanta per cento dei dischi rap degli ultimi trent’anni. Ma il secondo capitolo firmato Run the Jewels ha un modo di raccontare che fa sembrare il suo già ottimo predecessore, self-titled uscito la scorsa estate, una prova generale di un disco che surclassa ogni uscita di genere recente. Il connubio tra i due è eccelso e paragonabile a sodalizi come quelli tra Jay-Z e Kanye West, o Dr Dre e Snoop Dogg: eppure, per molti versi, qua si va oltre.

I suoni di El-P, pur non disdegnando qualche ammorbidimento, rimangono scurissimi, apocalittici, minacciosi: del resto lui è “a dirty boy who come down on the side dissonance / I can’t even relax without sirens off in the distances”, come dice in “Close Your Eyes and Count to Fuck”. Il pezzo, che incita alla rivolta nelle carceri, vede un featuring di Zack de la Rocha: uno dei nomi sulla guestlist di RTJ2, insieme a Boots, Travis Barker, Diane Coffee e Gangsta Boo. Quest’ultima è autrice di un contributo chiave dell’album: in “Love Again (Akinyele Back)”, la rapper ex-Three 6 Mafia dice che il suo amante vuole il suo clitoride in bocca tutto il tempo, fornendo un controcanto alle lodi della fellatio cantate da El-P poco prima.

Ecco il senso politico di RTJ2: il bersaglio è il politically correct, che però non viene seppellito da una mitragliata di volgarità fini a loro stesse. Il nuovo modo del duo è condannare la polizia raccontando in maniera realistica di un (vero) arresto (“Early”), mostrare la disperazione nel passaggio di cocaina tra uno spacciatore e una donna incinta (“Crown”), unire i lati migliori di due autori non in senso agonistico, ma puramente e pienamente collaborativo. Et voilà: i due sfornano, alle soglie dei quarant’anni, uno dei dischi migliori della loro carriera, nonché uno degli album rap più sorprendenti degli ultimi tempi.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di dicembre 2014 de Il Mucchio Selvaggio

Old School

Con i miei studenti di quinta superiore stiamo preparando un documentario, diciamo, sulla cultura hip hop. Oggi abbiamo parlato di musiche da inserire nella colonna sonora.
“Avete proposte?” ho chiesto.
“Mah, del rap”, ha detto uno di loro. “Ma magari qualcosa di molto vecchio.”
“Tipo?” ho chiesto.
“Beh, qualcosa anni ’90…”(E poi, al supermercato, una ragazza mi ha dato del lei.)
Di |2009-03-09T13:14:00+01:009 Marzo 2009|Categorie: I Me Mine|Tag: , , , , |12 Commenti
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