mucchio selvaggio

Dagli archivi: PAUS – Clar​ã​o

Paus – Clarão (El Segell del Primavera), 31 marzo 2014
7,5

Il secondo disco dei portoghesi Paus nasce sotto l’egida del prestigioso Primavera Sound, che ha ospitato per due edizioni di seguito i musicisti di Lisbona e che fa uscire questo album sotto la sua etichetta. Il quartetto ha una peculiarità: ci sono due batteristi che suonano lo stesso set (“siamese”, con la cassa in comune) uno di fronte all’altro. Clarão, però, non è un disco di puri ritmi, sebbene i battiti siano al centro delle dieci tracce che lo compongono. E non è neanche un album strumentale, per quanto le voci siano filtrate, spezzettate, usate come suoni in mezzo a chitarre, bassi e synth.

I Paus fanno rock come se fosse musica elettronica e viceversa: le canzoni, dalla struttura liquida e mutevole, sono rutilanti e rumorose, con cambi di tempo e ricchi fill-in. Sebbene ricordino band come Battles, Blk Jks, Tortoise e Fuck Buttons, i portoghesi ci mettono decisamente del loro, inserendo nel disco ritmiche poco occidentali: tuttavia i Paus non si abbandonano del tutto a tropicalismi o derive afrobeat. Nelle menti e nelle braccia dei componenti della band sono ben presenti i volumi e l’attitudine punk-hardcore, terreno comune dei musicisti. Il risultato è un ibrido molto interessante che sospettiamo sia ancora più efficace dal vivo: questa prima pubblicazione in Italia anticipa un imminente tour nel nostro Paese. Non perderemo i loro concerti.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di gennaio 2015 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: Kisses from Mars – Not Yet

Kisses from Mars – Not Yet (New Model Label), 25 marzo 2014
7

Dopo due ep e un album (Birth of A New Childhood, del 2012) i ravennati Kisses from Mars si confermano con Not Yet una realtà coraggiosa e ambiziosa, per quanto immaginiamo (da ciò che abbiamo visto in rete) che la band dal vivo abbia un valore aggiunto notevole, grazie ai visual di Silvia Bigi e le coreografie e installazioni di Chiara Gamberini. L’album, con i dieci minuti dell’apertura “Dissolves”, mette subito le cose in chiaro: la voce di Massimiliano Gardini entra solo poco prima di metà pezzo, le chitarre e i synth di Luca Baldini rimandano allo shoegaze, ma non hanno paura di tornare all’inquietudine che scorreva sottile e costante nel post-rock di un paio di decenni fa.

Richiedono tempo, i Kisses from Mars, e un ascoltatore attento, concentrato e disponibile affinché i sei lunghi brani del disco gli si stratifichino lentamente intorno, stringendolo in una morsa di tensione e malinconia. Le dinamiche non si accontentano di crescere e esplodere: spesso c’è un su e giù continuo e pericoloso, perché se l’album si aggancia all’ascoltatore (e le possibilità ci sono, eccome) è fatta, altrimenti si rischia di arrivare ai quindici minuti della title-track che chiude il disco un po’ annoiati, più che tesi. Insomma, un lavoro per pochi (ma buoni), che necessita impegno nel riceverlo, tanto quanto è stato messo nell’idearlo.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di settembre 2014 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: MiceCars – A S I M O / I

MiceCars – A S I M O / I (Black Lodge), 24 febbraio 2014

7

Dieci anni fa un ep, quindi l’album I’m the Creature, premio Fuori dal Mucchio per il migliore esordio. Poi nulla fino allo scorso giugno, quando è comparsa “Volunteer”, ora posta a chiusura di A S I M O / I, l’atteso ritorno dei MiceCars. “You should not play with my heart tonight / And praise our love with another lie”, dice la canzone: le parole e il cantato in falsetto rimandano al 2004, ma Little P. e Peter T. (che suonano insieme ad Andrea Mancin, Oliviero Farneti, Pasquale Citera e Marco Caizzi) sono ancora più disillusi e amaramente ironici sin dall’apertura “Mutual Destruction Assistance”, che riporta alla sfera intima e relazionale l’annientamento reciproco paventato nell’era nucleare richiamato dal titolo.

Nell’album, prodotto dal duo insieme a Andrea Sologni, si percepisce un senso di isolamento e abbandono nei confronti di se stessi e dell’umanità. Un concetto su cui i MiceCars sperimentano a modo loro, per fortuna: se alcuni finali sono prolissi e stride un po’ il rap di “In da Ghetto”, convincono gli arrangiamenti su “Interlude”, i richiami “mellotronici” alla “Mr Kite” beatlesiana in “Sloth” e quel senso di torpore psichedelico à la MGMT, mischiato con l’Albarn più agrodolce, di cui il disco è intriso. I MiceCars sono tornati più disincantati, consapevoli della vita e della loro musica; questa maturazione in A S I M O / I si sente tutta. Attendiamo quindi il secondo capitolo, sempre simbolicamente ispirato al robottino della Honda.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di aprile 2014 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: Depeche Mode, Unipol Arena, Casalecchio di Reno (Bologna), 22 febbraio 2014

La band torna nel nostro Paese dopo le due date estive del luglio 2013: ecco quello che è accaduto nella terza e ultima serata italiana dell’European Winter Leg del tour di Delta Machine, a Bologna. Può bastare un grande nome, un frontman iconico e dei pezzi immortali per rendere un live indimenticabile?

Foto da Flickr @sybell3

Tre schermi con visual spesso di ottima qualità, file e file di luci, piattaforme e proiezioni: è imponente la scenografia del palco montato all’Unipol Arena di Casalecchio di Reno, appena fuori Bologna. Una delle venue indoor più capienti del Paese ospita i Depeche Mode per l’ultima data italiana del tour invernale di Delta Machine, dopo i concerti tenuti a Torino e Milano nei giorni immediatamente precedenti. Il live è sold out, come il 99% delle date dei Depeche: più di undicimila persone sono pronte ad acclamare Dave Gahan, Martin Gore e Andy Fletcher, che salgono sul palco (insieme a Peter Gordeno e Christian Eigner) poco dopo le 21. L’inizio è dedicato all’ultimo album: “Welcome to My World” è una canzone che pare scritta anche come opener perfetto per il tour. Da quel momento in poi la scaletta (una ventina di tracce, uguali data dopo data in questa parte di tournée) è un mix calibratissimo di estratti dagli ultimi dischi e grandi classici, con una precisione matematica quasi prevedibile.

E forse la prevedibilità del set è uno dei punti dolenti del concerto bolognese della band: per quanto infatti i Depeche suonino bene (nonostante la pessima qualità del primo terzo di concerto) e concedano un paio di versioni alternative e remixate (“Halo” è notevole) non c’è un momento in cui si rimanga davvero sorpresi. Anche gli intermezzi acustici (“Slow” e “Blue Dress”) sono funzionali: lasciano il palco a Gore per fare riprendere fiato a Gahan, il vero protagonista della serata. Il frontman sfoggia anello con teschio e gilet nero d’ordinanza e, onore al merito, non si risparmia: suda copiosamente, struscia il pacco sull’asta del microfono, dirige il pubblico in cori infiniti su “Enjoy the Silence” e mostra tutto il repertorio da rockstar qual è. Ma appunto è tutto come ci si aspetta, come se le quinte (nonostante la scenografia) fossero nascoste maldestramente e si percepisse il necessario lato “business” dello show a cui abbiamo assistito. I fan duri e puri dei Depeche non ce ne vogliano, ma ci aspettavamo qualcosa di più. O qualcosa di meno. Insomma, una sorpresa, che sia una, perché per quanto sia bello cantare insieme a migliaia di persone “Just Can’t Get Enough”, c’è un problema se si pensa che, a un certo punto, “enough is enough”.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di aprile 2014 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: Bombino + Above the Tree & Drum Ensemble Du Beat, Locomotiv Club, Bologna, 13 febbraio 2014

Una serata all’insegna di musiche ancestrali e desertiche, dei loro mescolamenti e delle loro naturali proiezioni, quella di giovedì 13 febbraio al Locomotiv Club di Bologna: due set del musicista tuareg, uno acustico e uno elettrico, e la nuova incarnazione di Above the Tree per oltre due ore di musica di buonissima qualità.

Bombino live

“È molto bello suonare in Italia”, dice Omara Moctar e forse il ringraziamento sentito del musicista va oltre il cliché, visto che il nome d’arte Bombino è la storpiatura del nostro “bambino”: Omara in effetti ha un viso giovanissimo, luminoso e felice, che pare non soffra il caldo del club che ospita una delle date italiane del tour invernale di Nomad, uscito l’anno scorso per la Nonesuch.

Prima dei musicisti tuareg, però, c’è spazio per un support act di tutto rispetto: Marco Bernacchia, cioè Above the Tree, presenta il nuovo album Cave_Man insieme a Enrico “Mao” Bocchini e Edoardo Grisogani. Above the Tree & Drum Ensemble Du Beat affascina il pubblico mischiando con intelligenza percussioni “primitive”, suggestioni tribali, linee di elettronica e chitarra, risultando originale e personale, antico e modernissimo allo stesso tempo.

Non poteva esserci introduzione migliore ai set di Bombino: insieme ai suoi tre musicisti, Moctar sale sul palco per un raffinato live acustico che mostra subito la padronanza che il nostro ha del suo strumento. Una chitarra che, già nell’introduzione al secondo brano, scivola verso il blues: il concerto svela da subito il leit motiv della serata, banalissimo a parole, ma non nei fatti. E cioè che dobbiamo all’Africa la stragrande maggioranza della musica che ascoltiamo. Se, infatti, il primo set è più tradizionale, quando gli strumenti (due chitarre, basso, batteria) vengono collegati agli amplificatori, veniamo trasportati in un vortice che si allontana e torna continuamente al Sahara, sporcandosi di reggae e garage e, talvolta, diventando quel misto di blues e rock che ha fatto andare in brodo di giuggiole Dan Auerbach, produttore di Nomad, da cui proviene una buona parte dei brani in scaletta. I pezzi, rispetto al disco, si allargano e viaggiano liberi, vanno da ritmi in battere a quelli in levare; la chitarra di Bombino chiacchiera, urla, sputa grappoli di note che vibrano tra la musica tradizionale tuareg e tutte le contaminazioni attuate e subite in secoli di storia e migrazioni. Talvolta, forse, c’è troppa indulgenza in alcune code o passaggi, ma quando uno è bravissimo a suonare è facile perdonare che possa provare piacere e divertimento nell’ascoltarsi tanto quanto chi lo acclama sotto il palco.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di marzo 2014 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: Thee Silver Mt. Zion Memorial Orchestra – Fuck Off Get Free We Pour Light on Everything

Thee Silver Mt. Zion Memorial Orchestra – Fuck Off Get Free We Pour Light on Everything (Constellation Records), 20 gennaio 2014
8

Ogni volta che riascolto dall’inizio alla fine l’ultimo disco dei Thee Silver Mt. Zion ho una reazione fisica: un brivido che sale per scoppiare puntuale intorno al secondo minuto e mezzo della penultima traccia, “What We Loved Was Not Enough”. E ogni ascolto mi riserva particolari che mi erano sfuggiti prima, o che forse si rivelano solo dopo: i ritmi, più variegati del solito; le voci, arrangiate e dosate come non mai, pur continuando a narrare spesso cose tremende; alcune derive armoniche lontane dai pur variegati modelli di Menuck e compagni. Forse non bastano questi elementi a definire il disco (appropriandoci impunemente di una delle note definizioni di Calvino) un (piccolo) classico, ma di certo si tratta di una delle vette della vasta produzione dei canadesi, che riescono a combinare il loro usuale rigore con libere, inaspettate, luminose aperture. Appunto: Fuck Off Get Free We Pour Light on Everything. Ancora una volta un disco-manifesto, ma, a differenza di altri, necessario.

 

Recensione pubblicata originariamente sul numero di giugno 2014 de Il Mucchio Selvaggio

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