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Dagli archivi: A Place to Bury Strangers – Romare. Locomotiv Club, Bologna, 17 aprile 2015

La rassegna Murato, nel suo penultimo appuntamento stagionale, porta al Locomotiv due nomi molto diversi tra loro, in una serata che è nettamente divisa per suoni, pubblico di riferimento e atmosfera.

Si comincia con l’unica data italiana (sold out) degli A Place to Bury Strangers: la band “più rumorosa del mondo” raccoglie non solo il pubblico di Bologna e della Regione, ma anche di Veneto e Toscana. “We’ve Come So Far” è il brano di apertura: Oliver Ackerman inizia da solo, poco dopo raggiunto sul palco da Dion Lunadon al basso e Robi Gonzalez alla batteria. I tre sono perfettamente amalgamati nel riprodurre sul palco l’alchimia creativa di Transfixiation: gran parte della scaletta è costituita dai brani dell’ultimo album del gruppo, scritto da tutti e tre i musicisti proprio pensando alla resa dal vivo.

Entro poco il Locomotiv è invaso dal fumo e dalle luci stroboscopiche: il bilanciamento dei suoni si affina e il concerto diventa una sorta di vortice audiovisivo che coinvolge i partecipanti nonostante il terrorismo da decibel che precede la fama della band non si concretizzi mai davvero. Non sono i volumi (per quanto alti) a emozionare, ma la perizia che il trio dimostra sul palco… e in platea, visto che (come accade ormai di consueto) il finale del live è suonato dal mezzo del locale, con i musicisti attaccati a due amplificatori, una drum machine e un rack dal quale partono laser colorati. Come se il vortice di cui sopra si fosse ridotto e i tre l’avessero letteralmente portato in mezzo al pubblico, creando una fucina elettrica in platea.

Con la seconda parte della serata si volta pagina: un solista prende il posto del trio e il rock cede il passo all’elettronica. Romare è venuto in città a farci scoprire il suo album Projections, uno degli ultimi colpi messi a segno dalla Ninja Tune. Il giovane musicista britannico, alle prese con vari macchinari, sorride timido e riconoscente al pubblico (nettamente più sparuto rispetto alla prima parte della serata, ma del resto l’ora inizia a essere tarda), snocciola brani tratti dal disco e dal precedente ep accompagnato da proiezioni che hanno due soggetti che si ripetono spesso: Robert Johnson e Chet Baker, quest’ultimo raffigurato in varie fasi della sua vita e anche in scene dello pseudo-biopic All the Young Fine Cannibals.

Rispetto all’album il live è molto più orientato al ballo e al divertimento: dal vivo Romare è meno intimista che nei pezzi in studio, i brani vengono lustrati un po’ dove serve e opportunamente interrotti e ripresi a cavallo del climax di ognuno, con uno stratagemma tipico e consolidato, ma che alla lunga mostra un po’ la corda. Il talento c’è, lui deve solo cercare di non accontentarsi sul palco, esattamente come non lo fa su disco: per quanto il concerto sia stato coinvolgente, si sono notate delle piccole incertezze soprattutto nella scorrevolezza del set. In conclusione, ci permettiamo un consiglio: usare il campionamento di una trombetta da stadio è divertente la prima, la seconda e la terza volta, ma dalla quarta in poi diventa un inutile tormentone.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di maggio 2015 de Il Mucchio Selvaggio

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