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Dagli archivi: Damo Suzuki: “Faccio la musica dell’oggi”

Il 18 gennaio 2008 Damo Suzuki si esibiva, con il suo progetto Damo Suzuki Network, al Locomotiv Club di Bologna. Quel pomeriggio ho avuto la possibilità di ospitarlo in Maps, la trasmissione musicale pomeridiana di Radio Città del Capo. In occasione della recente scomparsa del musicista, ho trascritto e tradotto l’intervista.

Ti conoscono tutti come il cantante dei Can, ma ormai sono passati 35 anni da quell’esperienza, quindi parliamo del presente, del Damo Suzuki Network. Di che si tratta?
Per lavoro viaggio in tanti Paesi del mondo e cerco volta per volta, nello spazio e nel tempo in cui sono, di creare qualcosa con i “sound carrier locali”. Sono musicisti, ma io li chiamo “sound carrier” [“portatori di suono”, ndr] perché “musicista” è una parola vecchia, perché negli ultimi venti-trent’anni tutto è cambiato nel panorama musicale e noise. Suono ovunque, incontro persone senza fare prove, faccio la musica dell’oggi. Funziona, non è mai noioso perché ogni giorno posso fare cose diverse e incontro persone dalle mentalità molto diverse tra loro. Insomma, il menù del giorno cambia sempre.

Si tratta di improvvisazioni?
Non proprio, non mi piace tanto quella parola. Sì, è una specie di improvvisazione, ma il termine è utilizzato soprattutto dai musicisti jazz, e nel jazz, anche quando si improvvisa, non si fa davvero musica sul momento. Perché comunque nel jazz ci sono strutture definite, i solisti… Ognuno di noi, invece, fa nello stesso momento cose diverse.

Cosa succede quando, suonando, accade qualcosa di talmente bello e particolare che ti va di ripeterlo?
Di solito non ripeto nulla perché ogni volta ho a che fare con musicisti diversi. E poi ripetere significa copiare se stessi: non è proprio cosa per me.

In quanti Paesi diversi sei stato con il tuo progetto e che musicisti hai incontrato?
Non tanti, forse 27 Paesi diversi, e ho suonato con musicisti di ogni tipo: free jazz, hip hop, bande di ottoni…

Com’è stato suonare con gli Zu?
Gli Zu hanno un’energia incredibile ed è la cosa che davvero mi piace di loro. Anche nei miei concerti c’è molta energia, la condivido con il pubblico e me ne torno a casa con una bella sensazione.

Ci sono artisti o dischi interessanti che hai ascoltato di recente?
È una domanda difficile, perché per me ogni sound carrier che suona con me è interessante.

I sound carrier sono molto orgogliosi di suonare con te…
E io lo sono di suonare con loro, perché è davvero speciale. Prima di cominciare a suonare non ci conosciamo di persona e poi comunichiamo con la musica, è molto bello. Per comunicare non mi serve imparare l’italiano, una lingua per molto difficile: con la musica comunico ovunque. Ed è anche un motivo per cui porto avanti questo progetto: voglio usare la musica come arma contro ogni tipo di violenza. In questo mondo c’è molta violenza perché le persone non comunicano tra loro e la musica permette di farlo anche meglio [che con le parole].

Ci hai parlato della diversità dei Paesi che visiti e dei musicisti con cui suoni, ma che mi dici del pubblico?
Ti faccio un esempio: lo scorso aprile [2007, ndr] ho suonato a Londra con un quartetto d’archi, con musicisti classici, in un posto dove almeno l’80 per cento del pubblico era composto da appassionati di classica. Per me è stata un’esperienza interessantissima e la reazione del pubblico è stata magnifica: c’è stata una standing ovation e abbiamo fatto due parti, la prima da due pezzi, per un totale di 45 minuti e la seconda con un pezzo solo da 77 minuti.

Intervista andata in onda originariamente in diretta su Radio Città del Capo di Bologna il 18 gennaio 2008

Dagli archivi: BlackStarman: addio a David Bowie

Look up here, I’m in heaven
I’ve got scars that can’t be seen
I’ve got drama, can’t be stolen
Everybody knows me now

(da “Lazarus”)

Quando questa mattina la notizia è rimbalzata sui profili di amici (veri o fittizi) su Facebook, ho pensato: è una bufala. Poi ho sentito “Heroes” alla radio e la conferma della notizia: David Bowie è morto ieri, dopo diciotto mesi di battaglia con un cancro che l’ha avuta vinta su una delle figure che ritenevamo immortali. Bowie è morto davvero, pochi giorni dopo avere dato alle stampe Blackstar, l’ultimo di una lunga serie di album che hanno definito non solo la musica, ma – nell’accezione più ampia del termine – il mondo degli ultimi cinquant’anni. Mezzo secolo in cui Bowie ha scritto, composto, recitato, inciso, suonato dal vivo, è caduto e si è rialzato, ha dato vita e ucciso alter ego (da Ziggy al Thin White Duke), ma anche mezzo secolo in cui uno dei più grandi artisti che il pianeta abbia conosciuto ha ascoltato, nel senso più ampio, le pulsioni del mondo intorno a lui per ridarne una sua lettura e, spesso, anticipandone gli sviluppi.

Il beat e il pop dei primordi, l’ariosità degli anni ’60 e l’amarezza con cui quel sogno è finito, il senso di cupezza e speranza, fine e progresso insieme degli anni ’70, la (ri)scoperta e la visione algida e plastica della disco e del soul, le oscurità elettroniche e la jungle, la consapevolezza degli anni Zero: queste rapide tappe sono quelle percepite da chiunque abbia vissuto gli ultimi decenni, ma sono anche delle linee di lettura possibili del percorso artistico di Bowie e, allo stesso modo, una traiettoria nella cultura pop moderna e post-moderna. Questo perché il musicista è stato al nostro fianco per tutto questo tempo, ha commentato con le sue canzoni, i suoi film, i suoi concerti, i suoi vestiti il nostro mondo, per poi tornare a se stesso negli ultimi due splendidi dischi.

Sono proprio The Next Day e Blackstar a darci tante importanti “lezioni” riguardo a questi tempi, in cui ognuno di noi è star e impresario di se stesso.
La prima è la discrezione: quando uscì la prima canzone dopo anni di silenzio, “Where Are We Now?”, uscì di sorpresa. Niente teaser, trailer, gif, nulla. Solo un brano e un video: le sorprese sono belle proprio perché in quanto tali arrivano dal nulla. La stessa che (non) ha circondato l’uscita di Blackstar e la malattia di Bowie. La stessa discrezione che pare sia impossibile da mantenere in questi giorni, in più di un contesto in cui sarebbe da ambire.
La seconda ha a che fare con il rapporto con la nostalgia e la memoria: tornando a The Next Day, è chiaro come Bowie, in quello che si rivelerà il suo penultimo disco, rilegga se stesso, riguardi la sua carriera, dalla copertina al testo del primo singolo: tutto lo indica. Ma lo fa creando qualcosa di nuovo, come ha fatto quasi sempre, non limitandosi – come si fa spesso in questi giorni di retromanie – a copiare-e-incollare il passato (e lui è uno dei pochi che se lo poteva permettere, di nuovo quasi sempre).
L’ultima riguarda il rapporto con il presente e il futuro: Blackstar è un disco che ha tanti riferimenti ai lati più difficili dell’oggi, senza avere la pretesa di raccontarli direttamente, ma usando parole e musica per evocare e suggerire, lasciando molto lavoro all’ascoltatore. Rivoluzionario, in un’epoca di pappe precotte di ogni gusto e per ogni occasione. E inoltre Bowie ha voluto realizzare il suo ultimo disco con dei giovani jazzisti: avrebbe potuto suonarlo con chiunque, ma davvero chiunque sulla faccia della Terra, e invece no. Le sette canzoni che compongono il testamento di Bowie sono lanciate verso il futuro: un futuro che ora, nell’immediato, vedrà miliardi di parole, incluse queste, spese per ricordare la stella, ma che poi sarà composto da tanti attimi in cui godremo della sua luce, perdendoci ancora una volta nelle meravigliose musiche che ci ha lasciato.

Originariamente pubblicato sul sito di Radio Città del Capo, gennaio 2016

Enzo Baldoni, dieci anni dopo

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Ero teso, nella sera del 26 agosto 2004. Era un estate difficile. Un editore con il quale stavo lavorando aveva rifiutato il mio romanzo, in maniera piuttosto inaspettata. Da pochi mesi avevo un lavoro “vero”, nel senso che era svolto e pagato con continuità: un impegno non da poco. Ma, soprattutto, da qualche giorno non c’erano notizie di Enzo Baldoni, partito per l’Iraq un mese prima.
Conoscevo Enzo come si conoscono ormai sempre di più le persone: attraverso la rete. Da fedele lettore di Linus ero incappato nella sua ZonkerList, mi ero registrato con il mio soprannome di allora. Nelle mail che ci scambiavamo, Enzo mi chiamava Il Malva: gli avevo mandato la mia prima raccolta di racconti e, anni dopo, gli avevo proposto una collaborazione con la Radio per la quale lavoro ancora. “Cartoline da Baghdad”: ecco come si chiamava la rubrica che registravo nello studio più piccolo della radio, con l’emozione del giornalista tesserato da poche settimane e con la gioia di un ventiseienne.

Mia madre mi svegliò quando arrivò la notizia del rapimento. Corsi a Bologna, feci una rassegna stampa in diretta, dal treno che mi portava nella mia città adottiva. Da quel momento iniziava un turbinio totale, troppo grande per me di certo, ma non feci in tempo ad accorgermene. Tenevo botta, non mi preoccupavo di parlare al telefono con giornalisti molto più blasonati di me, gente che sentivo alla radio o vedevo al TG e che, in quell’agosto di dieci anni fa, si riferivano a me, perché ero uno dei pochi con cui Enzo aveva dei contatti. Mi ricordo una sera, seduto per terra in piazza San Francesco. Il mio cellulare squillava spesso e spesso comparivano numeri che non conoscevo, e c’erano dei ronzii sulla linea. Dicevo quello che sapevo, prendevo appuntamenti e pensavo: “Ma io sono troppo piccolo per questo.” Su quello stesso telefono, poco dopo, quando ero in un’altra piazza di Bologna, mi arrivò un sms della mia amica A. Diceva solo “mi dispiace”.

Mi precipitai a casa e iniziai a navigare, per cercare di capire. Mandai un sms a Pino Scaccia: ci “conoscevamo” solo attraverso il blog di Enzo, ci sentimmo subito. Mi confermò che la notizia dell’avvenuta esecuzione era veritiera. Piansi molto, quella sera, e una risacca di lacrime affiorò anche la mattina dopo in radio, quando il direttore di allora, appena mi vide, mi portò fuori. Poco dopo ero là che cercavo di capire i molti lati oscuri di quei giorni, con l’istinto, la rabbia e la goffaggine di un giovanissimo giornalista che si occupava di cinema, di cultura e che ora si trovava a chiamare in Iraq, a filtrare scemenze, a dare notizie all’ANSA.

Domani sono dieci anni che Enzo è morto. Non è stato facile, in questi ultimi giorni, rimettere mano alla mole di documenti, registrazioni e trascrizioni accumulate in un periodo brevissimo, neanche un mese, e poi confluite in diversi speciali realizzati per Diario, Radio Popolare e Radio Città del Capo. Ma era ora che le “Cartoline da Baghdad” tornassero sul sito di Radio Città del Capo. Non solo per non dimenticare, ma anche per godere dell’acume e dell’intelligenza di Enzo Baldoni, del suo occhio su un Paese che, dieci anni dopo, non è minimamente pacificato.

Musica in cui immergersi: intervista ai Temples

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Di Sun Structures, uscito per la Heavenly Recordings a febbraio, mi ha colpito immediatamente la copertina: la band è ritratta in una radura in mezzo a un bosco, con alle spalle una costruzione che, pur “montata” nella fotografia, sembra quasi elevarsi, staccarsi da terra. Ho pensato, prima ancora di ascoltare l’album, all’esoterismo britannico e alle sue rappresentazioni, così diverse da quello mediterraneo. E mi è venuto in mente uno dei miei film preferiti, The Wicker Man, che mischia esoterismo, paganesimo e riti druidici. Capirete la mia sorpresa quando il bassista e cantante dei Temples, Thomas Warmsley, ha citato proprio la pellicola di Robin Hardy come “una delle preferite” della band britannica: eppure c’è un legame profondo che lega questi venticinquenni delle Midlands a qualcosa di ancestrale, attraverso la via del pop psichedelico a cui chiaramente il quartetto si rivolge. Molti hanno bollato l’album di debutto come una scopiazzatura: credo, invece, che certi suoni e certe strutture musicali il popolo britannico le abbia dentro, e che affiorino assumendo forma diversa a seconda del momento storico. Dopo avere parlato proprio di psichedelia anche con gli Horrors, ecco l’intervista con i Temples, che potrete ascoltare in onda a Maps oggi pomeriggio o in streaming sul sito della radio.

Vorrei innanzitutto parlare del vostro futuro e della pressione che immagino sentiate da parte della stampa musicale britannica e mondiale. Siete una band molto giovane, ma il vostro successo sta crescendo rapidamente. Qual è il vostro antidoto?
Credo che sia qualcosa che le band non possano controllare, è qualcosa che avviene esternamente rispetto a quello che succede all’interno di un gruppo: ma come Temples, da subito, abbiamo dovuto suonare molto dal vivo e siamo dovuti crescere come band di fronte a tutti. Credo che questo ti porti all’onestà, non puoi nascondere nulla, devi essere quello che sei sul palco, come gruppo nel suo complesso. Non abbiamo pensato molto a quello che stavamo facendo, ci siamo solamente concentrati su chi eravamo e sul suonare al meglio. È stato un lungo processo di apprendimento: non direi che siamo “arrivati” come band e questo rende ogni concerto molto divertente.

Che mi racconti del tipo di musica che suonate? Sentite nell’aria il revival psichedelico di questi tempi? Hai scoperto questo genere per caso o sentendo un disco dei tuoi?
Per quanto riguarda il revival psichedelico, ci sono un sacco di gruppi che finalmente hanno un po’ di attenzione, band che sono in giro da diverso tempo, pensa ai Black Angels, per esempio: suonano da dieci anni, o quasi. Penso che la gente stia finalmente prestando più attenzione a questo tipo di musica, magari perché ci si rende più conto dell’importanza di andare ai concerti e sentire com’è davvero una band dal vivo. È un’esperienza unica, e in quanto tale semplicemente non si può sostituire o replicare. Ecco forse perché sta diventando più popolare, ma non ne sono sicuro. La cosa vale di certo per noi: siamo fan della musica psichedelica e specialmente della musica pop degli anni ’60 e ’70. Mi piacciono i dischi che puoi ascoltare dall’inizio alla fine, capaci di creare un’atmosfera: molti degli album che preferisco lo fanno, e portano l’ascoltatore altrove, in cinquanta minuti, dall’inizio alla fine di un disco, nel quale ti immergi completamente. Credo che questa sia una caratteristica molto importante della nostra musica.

Torniamo agli anni ’60 e non al lato pop: in quell’epoca la musica e la cultura psichedelica era un modo per evadere, per sfuggire alla realtà. Secondo te questo assunto vale ancora oggi, visto che fate musica psichedelica? Ha ancora questa funzione?
Penso che ogni tipo di musica abbia un suo immaginario e una sua ragion d’essere, ma penso che sfruttare un’idea e creare un’immagine vivida con la musica sia davvero ciò che ci interessa. Come ho detto prima, molte delle nostre band preferite e dei nostri dischi preferiti lo fanno. Penso che ci sia una qualche forma di escapismo, se non altro perché l’ascoltatore è immerso nella musica e nel mondo del disco, ma nel nostro caso creare questo non ha una ragione precisa, non è una reazione a qualcosa. Siamo più interessati agli effetti sull’ascoltatore.

Le reazioni al vostro album di debutto sono state piuttosto diverse, ma spesso estreme. Non mi interessano tanto le recensioni positive, perché sono d’accordo: il vostro è un buon disco. Cosa pensi, invece, che abbiano in comune le critiche negative, sempre che tu le abbia lette?
Penso che le persone tendano a essere molto critiche nei confronti di chi si ispira al passato, specialmente a un certo tipo di musica che attinge dagli anni ’60, quell’epoca lì. Di certo se suoni musica di quel tipo, devi aggiungerci qualcosa e portare qualcosa di nuovo a quello che fai. Penso che ci siano sicuramente citazioni nella nostra musica, ma cerchiamo di andare oltre a questo. Le nostre canzoni possono anche essere scritte in maniera tradizionale, ma mi piace pensare che il modo in cui lo facciamo e il nostro approccio alla musica sia qualcosa di nuovo, e che le cose forse non sono mai state mischiate prima. Forse la gente non si interessa davvero a noi e l’unica cosa che nota è questo pastiche con musica del passato, ma è solo una piccola parte di quello che facciamo.

Hai mai pensato che qualcuno potrebbe vedervi come “invasori” di un’epoca storica, di cui magari si è molto nostalgici, e che quindi qualcuno si possa “lamentare”?
Forse sì. Penso che quello che la gente va cercando sia il suono del disco e come lo usi per creare ciò che stai facendo. Anche se non ci abbiamo riflettuto più di tanto, volevamo essere certi che il mix fosse giusto, che il risultato suonasse autentico, ma che fosse anche fresco e diverso allo stesso tempo. Altre band hanno fatto lo stesso nel passato, si tratta di dare la tua impronta alla musica, di trovare la formula giusta, e noi abbiamo cercato di fare il meglio che potevamo. Ma alla fine credo si venga semplicemente influenzati dal tipo di musica che ti piace davvero, non c’è altra ragione per suonarla. Che alle persone piaccia o meno, penso sia irrilevante.

Cosa significa fare musica nel Regno Unito oggi e non venire da o vivere a Londra? A dire il vero non sono sicuro che voi non abitiate a Londra, ma non provenite da lì di certo.
Sì, a dire il vero ora sono a Londra, ma comunque penso che il maggiore vantaggio di non vivere nell’ambiente di una città sia la possibilità di concentrarsi in maniera diversa sulla musica, un vantaggio quando devi creare il tuo album. Si tratta di focalizzarsi in maniera diversa, a seconda che ti trovi in campagna o in città. Per noi però la cosa fondamentale è che veniamo tutti e quattro dalla stessa cittadina, dallo stesso luogo: e spero che questo si traduca anche nella nostra musica, che non sembri che veniamo da posti qualsiasi. Non penso che la band sarebbe la stessa altrimenti. Ci sono tante città nel mezzo dell’Inghilterra in cui si produce buona musica, e le band che ci sono si possono considerare più isolate o comunque con una cultura diversa di quelle di città. C’è un’ispirazione unica e diversa.

E il vostro modo di comporre? Come hai detto, vivere a Kettering e cominciare a suonare in camera, come molte band fanno, ha mantenuto e formato la vostra musica dagli inizi, ma ce n’è di distanza tra il suonare tra quattro pareti e di fronte al pubblico del Coachella.
I Temples sono essenzialmente nati in studio, come un esperimento di registrazione, direi. L’idea di suonare qualcosa dal vivo, un set intero o qualsiasi altra cosa di fronte a un pubblico ci era un po’ ostile, o almeno era una cosa che non avevamo considerato assolutamente all’inizio. Tradurre canzoni che erano nate per essere suonate in studio in una forma che potesse funzionare dal vivo è stato un processo strano. Molte band provano per mesi e poi registrano un disco: noi abbiamo fatto al contrario, abbiamo registrato molto velocemente e poi fatto più concerti che riuscivamo a fare, così suonavamo dal vivo, tutti e quattro insieme: abbiamo così sviluppato i brani dal vivo, registrando anche mentre eravamo in tour, tornavamo in studio a lavorare su canzoni che avevamo imparato a sviluppare suonando live. Questo test dal vivo è stato una parte enorme del lavoro fatto con la band. E sono certo che il disco suonerebbe in maniera molto diversa se non l’avessimo fatto, se non fossimo una live band, se non ci fossimo permessi di sperimentare con le canzoni dal vivo.

Ti piacciono ancora le canzoni di Sun Structures sentite su disco?
A dire il vero non lo ascoltiamo più molto. Molte delle canzoni sono state registrate nel corso dell’ultimo anno. Abbiamo raggiunto l’obiettivo di creare un’atmosfera su disco, ma non ci pensiamo molto, visto che ora siamo concentrati sui concerti: come ho detto prima, è qualcosa di completamente diverso, che ti obbliga a dimenticare ciò che hai definito in studio e imparare di nuovo le canzoni suonandole live. Credo che in questo modo il concerto diventi qualcosa di unico e speciale, perché non ci sono confini nel suonare un pezzo dal vivo, può prendere forme diverse…

Quindi avremo modo di sentire nuove versioni di brani che già conosciamo o i prossimi concerti in Italia potranno riservarci qualche sorpresa?
Ci saranno momenti di improvvisazione, non abbiamo paura… Voglio dire che se decidiamo di espandere una parte di una canzone dal vivo, lo facciamo, anche se prende una forma diversa dal disco. Una decisione importante da prendere è quello che si vuole mantenere e quello che si vuole cambiare dei pezzi, o quello che ti puoi permettere di sviluppare dal vivo. Quindi non posso dire molto, ma immagino di sì.

C’è un disco che ti ha cambiato la vita, come persona o musicista?
Tanti, mi sa… Ma citerei il primo disco dei Pink Floyd,
The Piper at the Gates of Dawn. La prima volta che l’ho ascoltato ho pensato che allo stesso tempo avesse un’incredibile energia punk e fosse in grado di creare un immaginario unico, con un’eloquenza notevole. Penso che sia proprio la combinazione di questi due elementi che fa di quel disco un grande album, con idee interessanti: penso che sia un modo interessante di vedere il pop, perché poi è di quello che si tratta. Ci sono suoni inusuali e incredibili, di certo è per noi Temples uno dei nostri dischi preferiti.

Di solito concludiamo le nostre interviste con la solita domanda dei dischi dell’isola deserta, ma questa volta la cambiamo un po’, e quindi: che libro, film e cibo ti porteresti sull’isola deserta, se dovessi partire ora?
Il libro sarebbe di certo
The Old Straight Track di Alfred Watkins: sarebbe una lettura interessante. Si tratta di un libro scritto negli anni ’20 che ha a che fare con antiche mitologie britanniche, con le linee temporanee [linee immaginarie che collegano monumenti o megaliti, alle quali sono attribuiti poteri magici o particolari, ndr.] che attraversano la Gran Bretagna. Sì, sarebbe una cosa interessante da portarsi dietro, così come tutto ciò che ha a che fare con le fiabe e con i tempi passati della Gran Bretagna, quando tutto era più semplice. Il film sarebbe The Wicker Man, uno dei preferiti della band, ci piace guardarlo. La regia è di Robin Hardy e ha una colonna sonora fantastica: un film tipicamente britannico che ci ricorda casa. E il cibo, be’, due fette di pane. Poi vediamo che metterci in mezzo.

The seventh year zip

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Buffo come il resto della vita sia sempre più difficile e invece Maps non soffra di crisi del settimo anno. Domani inizia l’ultima settimana della settima stagione della trasmissione pomeridiana di Radio Città del Capo e da oggi, come d’abitudine, c’è per voi la raccolta Live at Maps, che questa volta segna un record. Nello zip, appunto, ma anche in streaming, troverete (oltre alla copertina a colori della brava Giulia Sagramola, che ringrazio) quasi quattro ore e mezzo di musica, settantotto brani suonati da settantasette band o musicisti, italiani e stranieri, in acustico, elettrico e anche elettronico, registrati live da luglio 2012 alla settimana scorsa. Mai ne abbiamo avuti così tanti. Per ogni session, fosse composta da uno o da quattro pezzi (di più di solito non ci stanno in onda), ho scelto la traccia che mi sembrava più significativa: Saluti da Saturno, come l’anno scorso i Ronin, è passato due volte e quindi ha due brani nella scaletta. Ecco tutti gli autori.

L’Orso – Eildentroeilfuorieilbox84 – My Sister Grenadine – Dimartino – Conny Ochs – Moro & the Silent Revolution – The Lovecats – Blue Willa – Pete Bentham & the Dinner Ladies –  Sycamore Age – Scott Matthew – Tubax – Setti – Francesco Giampaoli – Kaki King – C+C=Maxigross – The Sleeping Tree – Town of Saints – Hobocombo – Fast Animals and Slow Kids – The Talking Bugs – Nevica su Quattropuntozero – Threelakes and the Flatland Eagles – Erin K. – Calibro 35 – Saluti da Saturno – Fabio Cinti – Egle Sommacal – A Toys Orchestra – John Lennon McCullagh – Pete MacLeod – The Zen Circus – BettiBarsantini – Collettivo Ginsberg – Majirelle – Father Murphy – Geoff Farina – Arrington de Dionyso – Giuradei – Il Pan del Diavolo – Brunori SAS – SinCos – Melampus – Circuit des Yeux – Fabrizio Tavernelli – La Tarma – Incident on South Street – Interiors – Cesare Malfatti – Lilies on Mars – Giacomo Toni – Non voglio che Clara – Junkfood – Maria Antonietta – Bologna Violenta – Cut – Ex-Otago – Vessel – Levante – Green Like July – SJ Esau – Barzin – Perturbazione – Cheatahs – Fragil Vida – Altre di B – Sit In Music – Musica per Bambini – Nicolò Carnesi – Andrea Lovato – Godblesscomputers – Giancarlo Frigieri – Carla Bozulich – Tying Tiffany – Portfolio – Movimento Artistico Pesante – Ethan Johns

Un elenco che tuttora mi fa impressione rileggere: per ogni voce (o live) ho un ricordo molto preciso, al punto da essere tentato dall’annotare le immagini, parole, sguardi che mi sovvengono ripercorrendo questi nomi, queste ore di musica e di onda. Esattamente come l’anno scorso e l’anno prima ancora, da domani a venerdì Maps, sabato riposo, domenica mattina Pigiama Party e da lunedì si passa al mattino con Aperto per ferie. Grazie anche da queste pagine a tutti coloro che hanno reso possibile un’altra stagione di Maps. Sapete chi siete.

Non si può scrivere altro che d’amore: intervista a Miles Kane

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Lo ammetto: pur amando molto la musica britannica, ci sono alcune band che vengono dalle isole lassù che mi lasciano indifferente o non mi piacciono proprio: gli Arctic Monkeys sono una di queste. A parte il primo disco (o meglio, il primo singolo) la band di Alex Turner mi ha sempre detto poco. Ciononostante, penso che Turner sia musicalmente davvero dotato e la dimostrazione di questo talento sta a mio avviso nel disco realizzato insieme all’amico Miles Kane qualche anno fa, firmato The Last Shadow Puppets. Quando mi hanno proposto l’intervista all’ex-voce dei Rascals, quindi, ho accettato subito e sono andato a riascoltarmi i due dischi pubblicati da solista, scoprendo delle cose interessanti nell’ultimo album, uscito a giugno.
Giovedì scorso ho incontrato Miles Kane per una breve intervista nel backstage di piazza Castello a Ferrara, poco più di un’ora prima che salisse sul palco. Se volete ascoltare il suo meraviglioso accento di Liverpool, andate ad ascoltare l’audio sul sito di Radio Città del Capo, che inoltre trasmette l’intervista oggi intorno alle 11 e, nel pomeriggio, verso le 15.

Il tuo ultimo disco si intitola Don’t Forget Who You Are, cioè “non dimenticarti chi sei”. Chi è Miles Kane e quanto è ancora quel ragazzino che ha avuto la sua prima chitarra in dono dalla madre, considerando il grande successo che hai?
Penso che in fondo non cambierò mai. Credo di essere lo stesso ragazzo che suonava quella chitarra, ma vedi, si cresce e si evolve allo stesso tempo. L’importante è non rimanere impigliato nelle cose. Gli Arctic Monkeys sono l’esempio perfetto di chi ha successo, ma non cambia. Sono sempre loro stessi e continuano a tenere alla musica. Ecco quello che voglio anche io.

C’è un fattore, qualcosa, qualcuno, o un pensiero che ti tiene con i piedi per terra?
Probabilmente mia madre: siamo molto vicini e lei è un esempio per me.

Paul Weller ha contribuito al tuo ultimo disco. Sembra che la vecchia generazione di musicisti britannici non riposi per nulla sulle glorie del passato, ma voglia invece aiutare i giovani. Che ne pensi?
Paul è davvero un buon amico, ora, e ho una grande stima per lui. Mi ha incoraggiato molto, anche se non era obbligato a farlo, ma sa che ho grinta, che volevo fare il disco e farlo bene. Ero intenzionato a lavorare duro per arrivare dove volevo. Penso che sappia che sono vero.

Come si è comportato con te? Era il fratello maggiore, il padre, una specie di amico, il collega…
(ride) Un po’ tutto! Lui è per me una fonte di ispirazione… Vorrei essere come lui a 55 anni, stare qui seduto con te a parlare del mio nuovo disco, capisci? Mi voglio giocare tutta la partita, anche se ci sono alti e bassi… Le cose non nascono all’improvviso, ma vorrei fare questo, scrivere buona musica, per sempre.

Secondo te in cosa è meglio il tuo ultimo disco, se confrontato con l’album di debutto?
Penso sia più diretto. Le canzoni sono più consistenti. È un disco più conciso e brillante. Questa era l’idea di partenza che volevamo seguire. È un disco da suonare dal vivo, per darti energia.

La tua esperienza live quindi è stata determinante quando hai scritto le canzoni nuove…
Sì, tantissimo.

E le hai registrate pensando poi a quando le avresti suonate dal vivo…
Sì, al cento per cento. Sì.

C’è qualcosa o qualcuno che ha ispirato questi nuovi brani? Una specie di riferimento, un posto, una persona…
Tante cose, sai. Cose che mi sono accadute nell’ultimo anno. Non si può scrivere d’altro… cioè, per me si è trattato dell’innamorarmi del tutto e del disinnamorarmi davvero per la prima volta. È stata davvero la prima volta che mi sono innamorato sul serio e non si può scrivere altro quando ti capita, no? Forse nel passato ci sono andato vicino, ma stavolta volevo davvero essere onesto con i testi e esprimere i miei sentimenti, che fossi arrabbiato o felice.

Si tratta di messaggi molto diretti o li hai un po’ “lustrati”?
Be’, sì: penso che siano abbastanza diretti.

Cosa provi quando canti queste parole e quando lo fai dal vivo?
Diciamo che si formano delle piccole immagini nella mia testa che mi ricordano alcuni periodi, quando le scrivevo. Sento queste cose… Molte di queste canzoni erano dei demo e li ho ascoltati tantissimo. Mi ricordano di questo momento dell’anno scorso, quando eravamo presi dal tour ma scrivevo comunque, preparavo questo nuovo disco, mi succedevano un sacco di cose… Ecco cosa provo; ma c’è una canzone sul disco, “Out of Control”, un brano piuttosto lento, che talvolta mi emoziona. Non la suoniamo, cioè, l’abbiamo suonata solo un paio di volte, perché mi commuove. Cazzo, è pazzesco…

Pensi che a ogni concerto le cose migliorino da questo punto di vista? Il fardello emotivo si assottiglia, ne lasci un po’ su ogni palco, per sentirti più leggero?
Sì, forse sì.

Ne lascerai quindi anche un po’ a Ferrara, speriamo…
Speriamo. Sono felicissimo di suonare qua, perché non sono mai stato in Italia prima. Non ci ho mai suonato, se non ieri sera. Sento che la mia musica può funzionare qua. Il concerto di ieri a Roma è stato bellissimo, la gente è stata fantastica. Voglio venire qua spesso in modo da potere organizzare poi il mio tour. Non capisco come mai non sia venuto prima in Italia, perché ho fatto tanti concerti in Europa, molte volte. Sono stato molto in Francia, ho dato tanto là. Mi piacerebbe venire qua come ho fatto in altri Paesi, passare del tempo per farmi conoscere. Mi piace! Sono stato a Milano un paio di settimane fa per quattro giorni e a Roma per tre. È stato bello. Insomma, viaggio ovunque, in Paesi diversi, ma non so: dev’essere l’aria, mi piacciono le persone di qua.

Apriamo una breve parentesi su The Last Shadow Puppets: innanzitutto ci sarà un altro disco?
Non è pianificato, ma di certo ci piacerebbe farlo, un giorno.

Visto che Scott Walker era uno dei riferimenti principali del disco, cosa pensi del suo ultimo album, Bisch Bosh? L’hai sentito?
No, è un disco strano. Ho The Drift, ma è troppo.

Troppo cupo?
Non mi rende felice, non mi dà niente. Non riesco ad ascoltarlo. È troppo strano.

Mi dici al volo tre cose che ti rendono felice? (Miles ride un po’ imbarazzato) Ok, puoi dire “il sesso”, senza bisogno di scendere in dettagli… Allora altre due, dai.
Cose che mi rendono felice… C’è un disco che amo. È di Charles Bradley, un sessantacinquenne che nella vita fa il sosia di James Brown. Hai presente quella band, Sharon Jones and the Dapkings? Be’, l’hanno voluto per la loro etichetta: l’hanno visto, gli è piaciuto e ha firmato. Sono usciti due dischi: ti consiglio No Time for Dreaming, di Charles Bradley. Mi rende felice e lo ascolto ogni giorno. Poi fare un bel concerto, sudare e andare fuori di testa, senza problemi sul palco: anche questo mi fa felice.

Una domanda un po’ più ampia delle altre: sei un giovane britannico e vorrei conoscere il tuo punto di vista sulle giovani generazioni del tuo Paese, sia in generale sia parlando di quelli che, come te, hanno a che fare con l’arte. Ci sono speranze, soldi, posti, gente, attenzione…
Be’, è dura, lo è sempre. Raccogli, nella vita, solo ciò che semini. Qualunque cosa tu voglia fare, che sia il giornalista, il cantante o il pittore, devi volerlo al cento per cento. Da ragazzini ci si distrae e io mi sono distratto molto, ma quando vuoi qualcosa davvero ci possono volere un sacco di anni per ottenerlo, ma devi crederci molto. Non perderti in cazzate.

C’è un pensiero o qualcosa che tieni a mente per evitare di distrarti, o che usi quando sei pigro, quando non dai il cento per cento e più?
Abbiamo tutti quei giorni o quei momenti in cui vorresti prendere in mano la chitarra e scrivere, ma non lo fai. L’importante è non perdere di vista l’obiettivo.

Grazie a Emily Clancy per la revisione della traduzione.

The End of the Season

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Oggi alle 1535 va in onda l’ultima puntata della sesta stagione di Maps, il programma che conduco su Radio Città del Capo dall’ottobre del 2007. Questa sesta stagione segna, probabilmente, un punto di incontro tra due estremi: la massima realizzazione per quanto riguarda la mia “carriera” fin qui e uno dei periodi più difficili della mia vita, finora in effetti assai facile. Tra le altre cose, per la prima volta ho dovuto fare tutto da solo, senza collaboratori diretti alla trasmissione, senza nessuno vicino che, una volta a casa, mi consolasse delle difficoltà e mi mandasse a quel paese per le troppe lamentele. Ho condiviso, sì, le tantissime gioie di questi mesi, ma in maniera diversa, trovandomi per lo più da solo con me stesso a ripensare agli errori fatti (spero non molti) e all’affetto ricevuto (sorprendente).

Come al solito, ecco il post che trovate sul sito della radio dove potrete ascoltare in streaming o scaricare anche il sesto volume dei live fatti a Maps (74 brani, più di quattro ore e mezzo di musica, con una splendida copertina realizzata appositamente da Giacomo Nanni). Riascoltare le session per comporre la raccolta è stato un modo per ripercorrere questi mesi che posso solo definire intensi. Questo post, originalmente, era una sorta di “guida all’ascolto” della raccolta, pezzo per pezzo, in cui annotavo alcuni ricordi personali legati al tempo passato con i musicisti, ma ho deciso di cancellare tutto. Anche perché una delle cose che questi mesi mi hanno insegnato è stato che forse esporsi non è sempre saggio, considerando quanto lo faccio normalmente (e forse con un po’ di incoscienza).

Rimane solo la fine di quel post originario e cioè un grazie enorme a tutti, ma proprio tutti quelli che se lo meritano. Per chi dovesse essere “preoccupato”, si consoli: oggi finisce Maps, sì, ma domenica sono in onda e da lunedì (come l’anno scorso) passo al mattino con Aperto per ferie. Qualcuno sarà felice, altri si rassegneranno: del resto blaterare in onda è la mia vita da tanti, tanti anni. Per come è andata questa stagione di Maps, posso dire che, evidentemente, se inondo l’etere un motivo c’è e quindi c’è anche un motivo per migliorare ancora. Di strada ce n’è, eccome, ma, se me lo permettete, per un po’ mi riposo, penso alla strada (stradina) fatta e mi godo il panorama, sorseggiando (che immagine estiva) la proverbiale bibbita.

You Speak My Language

Mi ricordo benissimo quando ho sentito per la prima volta i Morphine: era l’estate del 1995 e un amico mi passò Yes, uscito qualche mese prima. Avevo appena diciassette anni, eppure quei brani mi colpirono tantissimo: erano liberi, del tutto originali, unici nel loro genere. Poco alla volta recuperai la discografia dei Morphine, conclusa con il cd masterizzato di The Night, nel 2000, quando Mark Sandman era già morto da un anno abbondante. Diciassette anni dopo penso ancora che le canzoni dei Morphine siano una specie di unicum.
I Morphine sono ormai per me un metro di paragone inevitabile: non arrivo a dire “se ti piacciono sei mio amico, se no no”, però mi trovo in sintonia con chi li ama. Un po’ come faccio con i Monty Python. In fondo, per capire bene la band di Boston e il gruppo di matti per lo più britannici, bisogna comprendere il loro modo di comunicare e, cosa non da poco, la loro ironia.
I Morphine sono stati, con “Have a Lucky Day”, la sigla finale di Monolocane (la trasmissione notturna che ho condotto tanti anni fa), con “Honey White” (la traccia che apre Yes) il ritorno a quell’estate di metà anni Novanta, con “The Night” il suggello tremendo di qualcosa di meraviglioso che avrebbe potuto essere e che non sarà mai.

Quando, qualche mese fa, ho scoperto che la Gatling Pictures aveva prodotto un documentario sul leader della band, Cure for Pain – The Mark Sandman story, ho sentito che volevo e dovevo fare qualcosa su questo film che ancora neanche possedevo. E ho contattato subito la casa di produzione, il produttore Jeff Broadway e il sassofonista dei Morphine, Dana Colley. Non lo faccio mai: prima di parlarne per lavoro voglio ascoltare, vedere e leggere. Ho rischiato, perché sentivo che il documentario era qualcosa di buono: quando l’ho visto, nonostante tutti questi pregiudizi positivi, il mio stupore è stato grande. I registi di Cure for Pain sono riusciti a realizzare un bel film, da ogni punto di vista, adottando una prospettiva rischiosa (quella della tremenda storia dei Sandman) e portando lo spettatore ad appassionarsi a una storia unica e per lo più misconosciuta.

Finalmente lo speciale su Cure for Pain – The Mark Sandman story è pronto: va in onda questo pomeriggio in Maps e, da domani, potrete riascoltarlo andando qua. Come “regalino” per voi fedeli lettori, vi anticipo il contenuto delle interviste che hanno trovato posto nello speciale, trascritte in forma integrale. Se non volete rovinarvi la sorpresa perché preferite sintonizzarvi su RCdC intorno alle 16 di questo pomeriggio, vi basta non cliccare qua sotto. Per tutti gli altri, buona lettura. Per gli altri che amano alla follia i Morphine, spero che l’ascolto e la lettura siano emozionanti quanto per me preparare questo lavoro; in fondo, tutto questo è che anche per voi: “you speak my language”.

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Vivere d’ascolti: intervista a Joe Boyd

Quando Joe Boyd entra negli studi di Radio Città del Capo, venerdì 7 settembre 2012, indossa una camicia floreale, la stessa che porterà durante l’incontro con il pubblico alla Coop Ambasciatori, sul suo libro Biciclette bianche (Odoya). Qualche minuto prima dell’onda chiacchiero con lui per provare a conoscerlo a microfoni spenti: è disponibile, cordiale senza esagerare, distinto. “Fai tutte le domande che vuoi: al massimo non rispondo a quelle a cui non voglio rispondere”, mi dice prima di iniziare.

“L’ideale per il quale mi adoperavo era ascoltare qualcosa in equilibrio con la melodia suonata in modo chiaro”: questa è la definizione del mestiere di produttore che dà nel libro. Quanto questo “canone” deriva dalla sua formazione folk, blues e jazz?
Credo che ogni lavoro che ho fatto sia in relazione con la mia vita di ascolti. Ho iniziato ascoltando mia nonna che suonava musica classica al pianoforte, ho proseguito da adolescente sentendo in maniera ossessiva jazz, blues e rock and roll. Per diventare uno scrittore è necessario leggere tanto. Se si desidera lavorare in ambito musicale, allo stesso modo, bisogna ascoltare molto.

Lei ha incontrato e, soprattutto, lavorato con tantissimi musicisti che hanno fatto la storia della cultura musicale del XX secolo: che cosa l’ha guidata nell’individuare così spesso dei talenti come quelli che ha scoperto, prodotto e portato in tour?
La risposta è la stessa della domanda precedente: ascoltando. Mi sono sempre chiesto: ascolterò questa musica tra cinquant’anni con lo stesso rispetto che ho per Louis Armstrong, Billie Holiday o Muddy Waters?

Quanto eravate consapevoli di fare la storia del costume, della società? Penso ad esempio all’UFO di Londra…
Quando sei nel mezzo di qualcosa e sei giovane, non pensi a quello che stai facendo, non ti fermi per guardarti indietro e per capire quale sia il tuo ruolo “storico” in una prospettiva più ampia. Credo che fossi conscio della rivoluzione in atto e di esserne una piccola parte, insieme a John Hopkins, Barry Miles, i Pink Floyd e altri. Ma se da giovane sei troppo cosciente di te stesso non fai cose davvero interessanti.

A molti musicisti, dell’epoca e non solo, è stato spesso chiesto (quando ancora non erano famosissimi) quanto pensavano di durare: si è mai chiesto, per esempio, quanto sarebbe durata la faccenda dell’UFO club, per quanto tempo la gente sarebbe continuata a entrare nel locale?
L’UFO ebbe vita breve, si bruciò presto: in tutto fu un’esperienza di nove mesi. Ma se parliamo di fare dei dischi, be’, forse questa è stata una ragione per cui non ho avuto un grande successo commerciale. Pensavo sempre: avrò voglia di ascoltare questo disco tra cinquant’anni? Ero molto consapevole delle registrazioni, della produzione, della loro capacità di durare nel tempo. Si trattava comunque di un pensiero molto intimo, privato: una cosa tutta nella mia testa. Ma questo, forse, è uno dei motivi per cui non ho avuto molte hit.

Tornando all’UFO e parlando del pubblico che lo frequentava, lei lo descrive come “attento a tutto”: come percepisce l’attenzione del pubblico oggi?
Oggi il pubblico è frammentato: grazie a internet e ai tanti tipi di musica pubblicati, c’è un pubblico per ogni genere musicale. Credo che comunque la gente sia ricettiva: ci sono tanti festival in Inghilterra, per esempio, dove c’è classica, etnica e folk mischiate insieme. In qualche modo il pubblico sta tornando a essere aperto com’era negli anni ’60.

Quindi la frammentazione di cui parla non è da considerarsi come un elemento negativo?
Ci sono dei lati negativi e positivi. Nel giugno del 1967 tutto il mondo ascoltava Sgt. Pepper’s: non c’era nessuno che non lo conoscesse, bastava iniziare a canticchiarne una canzone. Cose del genere non accadono più, il che è un peccato. Ma ci sono altri vantaggi.

Qual era il clima culturale che spingeva i giovani londinesi ad assistere a delle maratone psichedeliche come il 14 hour Technicolor Dream
Quello fu un evento unico: era l’aprile del 1967, un momento che rappresenta perfettamente l’esplosione di quella piccola scena underground verso tutto la coscienza del Paese. L’uscita di “Arnold Layne”, che fu un successo, fu d’aiuto nel cambiare profondamente il pubblico inglese: prima c’erano piccoli gruppi dalla mentalità quasi sperimentale, ma dal marzo al maggio 1967 cambiò tutto. Il pubblico diventò grande e curioso: non sapeva molto della scena di cui stiamo parlando, ma era desideroso di farlo.

Cambiamo per un momento anno, luogo e scena: raccontando del famoso festival di Newport, mette in evidenza una resistenza “purista” folk a quello che stava succedendo. Non è accaduto qualcosa di simile con l’ampliamento della scena psichedelica?
Sì, certo, ma i sentimenti erano diversi. A Newport ci fu una specie di rivoluzione, che rovesciò le certezze della vecchia guardia. Due anni dopo a Londra, nella scena psichedelica, volevamo diffondere il più possibile le nostre idee rivoluzionarie, dal punto di vista estetico, filosofico e politico. Solo quando abbiamo avuto successo ci siamo detti: “Oh, abbiamo sbagliato”.

Lei è molto preciso nel ricordare gli eventi: c’è forse un momento individuabile che segna questo “errore”?
Sì: era il settembre del 1967 quando mi resi conto che il pubblico dello UFO club non era più lo stesso. Non c’erano più in giro persone sveglie, curiose, aperte alle esperienze. La mia e la nostra reazione potrebbe essere bollata come elitaria, ma ormai la gente non pensava all’LSD come a un’esperienza sacrale: era diventato solo un modo per stonarsi, per andare fuori di testa: era solo un’esperienza, divertimento. Due anni dopo ci fu la tragedia di Altamont: capimmo allora che avere un mucchio di Hell’s Angels fatti della nostra roba non era una buona cosa.

Leggendo il libro incontriamo veramente una quantità di grandissimi musicisti, che lei descrive spesso con affetto, ma senza sconti. Tra tutti, però, spicca il modo in cui racconta di Nick Drake: ne parla di più di altri , con i quali pure ha lavorato più a lungo. E, leggendo le pagine a lui dedicate, sembra che il tono del libro (spesso divertente e irriverente), si acquieti rispettosamente, come le ultime parole che si dicono prima dell’inizio di un discorso o un concerto che si vuole ascoltare con attenzione. E la musica di Drake sembra risuonare nelle pagine più di quella di altri.
Magari è la traduzione italiana… No, è vero: ciò che racconto di Richard Thompson, Mike Herron, Sandy Denny e Syd Barrett ha a che fare con momenti di svolta nella loro vita o nei loro caratteri, ma non parlo tanto di musica. Anche quando racconto di Nick Drake sono critico: il fatto che non riuscisse a parlare al pubblico e che non fosse così sicuro di sé sul palco sono cose che mi hanno frustrato. Insieme a queste critiche c’è però il rimpianto di avere fallito, di non essere riuscito a renderlo famoso mentre era in vita.

Eppure si percepisce una distanza, come se fosse in fondo impossibile cogliere davvero i tratti del carattere e della sua persona, come se provenisse da un altro pianeta. Pensa ancora a lui, ha ancora degli interrogativi su Nick Drake?
Penso molto a Nick Drake, anche perché ora, che scrivo più di quanto mi occupi di musica, se torno a organizzare concerti si tratta di live con la musica di Nick Drake. Ne ho anche portati un paio in Italia, qualche anno fa. Penso alla sua musica, anche perché stiamo preparando un cd dal vivo, su cui sto lavorando. Penso alla grandezza della sua scrittura, delle sue capacità musicali e quando sento altri cantanti alle prese con le sue canzoni, queste diventano ancora più forti.

Quale fu la prima cosa che pensò quando sentì le canzoni e quale fu la prima quando lo vide suonare?
Rimasi meravigliato dai primi quindici secondi del primo nastro demo di Drake. Ero stupefatto. C’erano tanti cantautori in quegli anni, ma non mi è mai piaciuta la forma che avevano questi borghesi bianchi che cantavano in inglese. Era proprio una categoria che non mi interessava. Quando sentii Nick, però, era diverso, al di sopra di chiunque avessi mai sentito. Passò molto tempo prima di vederlo esibirsi dal vivo davanti a un pubblico, ma suonò per me delle canzoni in una stanza più piccola di quella in cui mi trovo ora, nella quale ogni nota risuonava moltissimo. Suonava la chitarra così bene e così forte, con quelle dita robuste, che nonostante fosse una chitarra acustica, dovetti coprirmi un po’ le orecchie da quanto alto era il volume prodotto.

Ha mai trovato delle similarità tra la fragilità di Syd Barrett e quella di Nick Drake?
Sì, certo, anche se reagivano molto diversamente: Syd era più aperto, ma erano entrambi molto delicati e fragili. Entrambi furono sconfitti da questa fragilità, in maniera diversa ma con gli stessi effetti.
Erano entrambi brillanti e originali.

Qual è stata la più grossa emozione (musicalmente parlando) della sua vita?
Ce ne sono state tante! Nel libro però parlo dell’ultima serata del Blues and Gospel Tour nel 1964: Muddy Waters, Rosetta Tharpe, il Reverendo Gary Davis, Brownie McGhee e Sonny Terry che suonavano tutti insieme al Brighton Dome. Furono fantastici, c’era un clima stupendo e ricordo di essermi detto che se avessi mai ascoltato nuovamente una musica così bella sarei stato fortunato. Lo sono stato perché poi ho ascoltato spesso musica bella quasi come quella, ma mai sempre a quel livello.

Il libro parla degli anni ‘60, ma vorremmo che ci raccontasse qualcosa della produzione di Fables of Reconstruction dei REM, nel 1985.
Fu complesso: mi piacevano i ragazzi, andavamo d’accordo, ma tutto fu fatto di fretta. Erano infelici di stare nella piovosa fredda Londra e non seguirono il mio consiglio di alloggiare in un albergo vicino allo studio. Affittarono invece un appartamento a Mayfare, nel centro della città, e si facevano un’ora di taxi per raggiungere gli studi, ogni giorno. Questo era sufficiente per deprimerli. Anche il missaggio è stata una sfida, perché mi è capitata una cosa più unica che rara. Quando sei al mixer di solito arriva il chitarrista solista che ti sussurra “Puoi alzare un po’ la chitarra?” e il cantante che dice di non riuscire ad ascoltare bene le parole. Con i REM, invece, Michael Stipe diceva “Abbassa la voce” e Peter Buck “Abbassa la chitarra”. Tutti volevano che abbassassi la loro traccia: quando si fa un missaggio, gli elementi sono in relazione tra loro, in una sorta di prospettiva, cosa che sono riuscito ad ottenere a fatica, poiché ogni cosa doveva essere più bassa delle altre. Ho lottato molto ed ero realmente preoccupato che, all’uscita, i fan dei REM lo odiassero. Alla fine il disco ha venduto bene, sebbene il gruppo non ne era così contento. Di recente, però, ho visto la band che mi ha detto di avere cambiato idea: ora lo considerano un bel disco.

Riuscirebbe a descrivere con una pennellata, con due parole, alcuni dei musicisti con i quali ha lavorato? Iniziamo da Muddy Waters.
Pieno di dignità, potente e profondo.

Richard Thompson.
Una sorta di genio della chitarra, curioso di ogni tipo di musica e in grado di suonarle tutte.

Eric Clapton.
Quando lo conobbi era un ragazzo normalissimo, ordinario, che sapeva anche suonare la chitarra. Sembrava un impiegato delle assicurazioni che, al tempo stesso, era un grande della chitarra blues.

Nick Drake.
Molto silenzioso, diffidente, ma completamente dedicato e devoto alla creazione di musiche complesse.

Bob Dylan.
Non ho avuto modo di conoscerlo benissimo. Comunque era antipatico, cinico, ma brillante.

Nel suo libro dice che Bryter Layter di Nick Drake è un disco che tuttora non si stanca di ascoltare. C’è una canzone particolare per lei in questo album?
Sì. Oltre a Nick Drake c’è un altro musicista sul quale non dico nulla di negativo, ma anzi spendo parole di riverenza, sebbene per poche pagine: è il pianista sudafricano Chris McGregor. Uno dei momenti più belli tra quelli passati in studio fu il loro incontro. Le sessioni di registrazione dei due si sovrapposero e quindi Chris McGregor suonò in una canzone di Nick Drake, “Poor Boy”.

Qui l’intervista in formato audio.

So long, Berretta Rossa

Some Rights Reserved to Alessio Bragadini (http://www.flickr.com/photos/abragad)Mi piacerebbe ricordarmi quando ho messo piede per la prima volta negli studi che la radio abbandona in questi giorni: avrei potuto farlo, se tenessi un diario. Non avrei mai potuto, invece, sapere quante ore ho passato in quegli studi e uffici, dal 2001 a oggi, nello studio di regia, davanti a un computer, sui gradini dell’entrata, nelle altre stanze della sede di Radio Città del Capo. Ma se dovessi calcolare quanto tempo abbia passato in quella “casa” rispetto alle case che ho vissuto in trentatrè anni (e passa) di vita, sono certo che “Berretta Rossa” si posizionerebbe ai primi posti di quest’inutile e immaginaria classifica.

Mi ricordo di quando hanno sbagliato grossolanamente il nome della via, delle notti passate a trasmettere Monolocane e delle maratone dei “morti viventi”, quando stare là era davvero come stare a casa. Mi ricordo di avere pianto, brevemente e violentemente, in un giorno tremendo di agosto e di avere riso a crepapelle (talvolta anche a microfoni accesi) innumerevoli volte. In via Berretta Rossa, quella che è quasi a forma di H, quella che è erronamente segnalata su alcune mappe e navigatori da far perdere nella periferia bolognese più di una band attesa per un live a Maps, ho litigato un paio di volte e mi sono formato dal punto di vista lavorativo. Ho conosciuto amori e amici, là, e ho bevuto centinaia di caffè della macchinetta.

Oggi pomeriggio trasmetto per l’ultima volta dagli studi di via Berretta Rossa: Radio Città del Capo si trasferisce altrove, in un posto che è in tutto e per tutto assai migliore di quello dov’è stata finora; ma, per oggi e oggi solamente, mi permetterò un briciolo di malinconia. Non preoccupatevi, non trasparirà dall’onda, sarebbe poco professionale: quelle mura che, in fin dei conti, mi hanno visto crescere, si meritano per l’ultima volta il meglio di me.

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