L'inossidabile classe del 1935

Mentre leggevo, con gusto e passione, l’ultimo libro di David Lodge, Il prof è sordo, non ho potuto fare a meno di pensare al mio rapporto con i film di Woody Allen. Qualsiasi cosa faccia l’attore, regista, sceneggiatore e, ma sì, dai, musicista americano, io lo vado a vedere. E certo, posso uscire dal cinema più o meno contento, ma anche nelle sue prove peggiori, riconosco il mondo, il pensiero, il punto di vista di Allen.

Lo stesso vale per Lodge, del quale lessi Scambi una quindicina di anni fa e che, da allora, non ho più abbandonato. Certo, c’è da dire che Lodge è meno produttivo del suo quasi coetaneo e quindi si dà meno occasione di fallire, del tutto o in parte. Rimane però comune ai due il gusto e la maestria del racconto, inteso proprio come “arte della narrazione” (un’espressione che è molto simile al titolo di un bellissimo saggio dell’inglese).

Come in Allen, inoltre, è sempre facile riconoscere nei romanzi di David Lodge l’autore stesso, che viene nascosto con un garbo quasi vezzoso, molto britannico: non sta bene (ed è anche privo di senso) chiedersi “Ma il Desmond di Deaf Sentence (questo il geniale titolo originale del romanzo di cui vi parlo) sarà veramente lui?”. Con elegante savoir faire, Lodge ci dice nella postfazione che sì, la sordità di cui è afflitto il protagonista è effettivamente un’esperienza provata in prima persona, così come la figura del padre, solo e malato, ha a che fare con la vita reale dello scrittore. Ed è proprio il personaggio del padre ad essere importante nel libro: l’accademico in pensione ha una moglie più giovane di lui, figli, nipoti e una studentessa tanto fascinosa quanto pazza che tenta di invischiarlo in un progetto di ricerca sulle lettere dei suicidi, con tanto di risvolti sadomasochisti; Lodge si diverte un mondo a mostrarci quanto ne sa di linguistica, oltre che di narratologia; ma sono i momenti con il padre a dare un interesse maggiore al libro. Un padre sordo, ma per motivi geriatrici, più che altro, con la prostata mal funzionante, tirchio e cocciuto, nostalgico del suo passato di musicista per orchestre da sale da ballo (Radio Days, come fa a non venire in mente?), che il figlio si costringe a visitare di tanto in tanto, affrontando un viaggio dall’immaginaria cittadina del nord dove Desmond risiede, fino ad un sobborgo del sud-est londinese da cui il padre non vuole andarsene.

Non aspettatevi pietismi: Lodge sa fare divertire, e spesso riduce il lettore a sonore risate. Ma è come, esattamente come nei film di Allen degli ultimi dieci anni, che in questo Il prof è sordo, il brillante scrittore inglese, toccati i 75 anni, si renda conto che, per quanto ci si possa scherzare su, la morte è qualcosa di concreto, vicino, seppure non immediato. È pervaso da uno strano senso funereo, questo libro: o forse sarebbe meglio dire che tra le righe si sente la paura del rendersi conto che le cose non funzionano come prima. Le orecchie, l’apparato riproduttivo, la memoria. Ci si scherza sopra, certo, ma in un momento topico del libro, al quale non accennerò per preservarvi il piacere della lettura, l’inconfondibile humour di Lodge scompare, per dare vita a pagine inaspettatamente dense di sacra umanità, resa in maniera tangibile quanto, per sua stessa natura, sfuggente e fuggitiva.
Anything works, dice Woody Allen nel suo ultimo film: “basta che funzioni”. E nelle ultime prove dei due grandi del ’35, a mio avviso, tutto funziona, e bene. Speriamo solo che, fino all’ultimo, abbiano voglia di raccontarci le loro storie, a modo loro: io sarò là a bearmi delle loro parole.