scrittura

Fuori pagina, il mio primo romanzo

copertina fuori pagina

La copertina, grafica di Caterina Moretti

Da oggi sul sito della casa editrice ed etichetta discografica Alter Erebus è possibile preordinare Fuori pagina, il mio primo romanzo. Sì, è un romanzo, non un saggio, né una raccolta di racconti come Tempi diversi (il mio esordio nella narrativa, pubblicato nel lontano 1999) o come La guerra in cucina (uscito – per modo di dire – nel 2009).

Fuori pagina parla di uno scrittore, Davide Lista, che campa facendo il ghostwriter per un’importante casa editrice. In particolare Lista è il vero autore dei romanzi di Regina Altieri, una ex diva televisiva, matronale e ingombrante, che ha trovato un nuovo successo nell’editoria firmando due romanzi rosa di scarsa qualità (Fuochi di passione e Prova d’amore), senza scriverne nemmeno una parola. Davide sta lavorando al terzo, Il sogno e il destino, ma è bloccato, annoiato, frustrato, in perenne lotta con l’arrogante editor della casa editrice, Alberto, e in crisi con la fidanzata Isabella, dentista. Come se non bastasse, il personaggio principale del romanzo, il bellissimo e stolido Rinaldo Bastiani, esce dalle bozze del libro e comincia a vivere una vita propria nel mondo reale, “fuori pagina”, appunto, creando problemi a non finire.

Il romanzo che ho scritto si chiamava, all’inizio, Il sogno e il destino, proprio come il libro su cui sta sudando Davide: un titolo perfetto per quel romanzo rosa, meno per il mio. A suggerire Fuori pagina – se non ricordo male – è stato Gianluca Morozzi, uno tra i primi a leggerlo e a fornirmi qualche utile suggerimento per migliorarlo, nel lontano 2010. Dopo essere passato al vaglio di Grazia Verasani, di un’importante agenzia letteraria (che ha risposto “non male”) e della Fernandel di Ravenna (per cui avevo già pubblicato qualche racconto in passato), l’ho affidato a Jadel Andreetto e Mariana Califano. Oltre che fornirmi ulteriori indicazioni sul testo, hanno provato per tre anni a farlo pubblicare: ci sono stati moltissimi silenzi, qualche “forse”, un paio di “possiamo parlarne”, ma nulla di concreto. Intanto il tempo intanto passava e il romanzo subiva nuove revisioni, aggiustamenti, migliorie.

Nel 2017, dopo qualche anno di silenzio, ho contattato un’altra agenzia letteraria, settepiani: è stata Elena Zuccaccia, stavolta, a riprendere in mano Fuori pagina e a mandarlo per case editrici. Tra le prime a rispondere, Alter Erebus: Nicholas Ciuferri e Matteo Madafferi hanno amato il libro e hanno deciso di pubblicarlo. La versione definitiva è stata rivista (per la decima volta in dieci anni) con la collaborazione dell’editor della casa editrice, David Ceccarelli, che ha anche avuto l’idea di usare come separatori del testo i segni utilizzati nelle revisioni di bozze. La grafica Caterina Moretti, dal canto suo, è riuscita a interpretare benissimo le mie fumose idee per realizzare la copertina e le altre grafiche promozionali del romanzo.

Ringrazio, oltre alle persone citate sopra, tutti coloro che hanno contribuito alla nascita di Fuori pagina, ma adesso il libro è vostro: in attesa di venirlo a presentare qua e là (seguitemi sui social per conoscere le date dei prossimi incontri) sarò felice se mi vorrete scrivere le vostre impressioni, ma soprattutto se vi intratterrà, risucchiandovi nel mondo che ho creato. Perché, in fondo, per uno scrittore non c’è soddisfazione più grande che prendere il lettore e farlo vivere anche solo per poche in un’altra realtà… sulla pagina.

Piccoli nessi umani

Uno dei piccoli segnali che dimostrano il fatto che io mi stia poco dedicando a me stesso ultimamente è che sono venuto a sapere della pubblicazione di Principianti di Raymond Carver un paio di mesi fa, a libro uscito. Uno dei grandi segnali di quanto mi stia trascurando a vantaggio del lavoro è che ho finito di leggere il libro soltanto oggi.Innanzitutto: Principianti è la nuova versione di Di cosa parliamo quando parliamo d’amore, raccolta di racconti pubblicata nel 1981 considerata “manifesto del minimalismo letterario”. In realtà si tratta della versione originale del libro: l’editor di Carver, Gordon Lish, aveva pesantemente ripassato le bozze sotto la scure dell’editing, una prima volta in maniera più lieve, una seconda volta arrivando a tagliare il 30, 50, anche 70% di ogni racconto. Einaudi propone quindi la versione del volume “come l’avrebbe voluta Carver” (le virgolette sono d’obbligo), tradotta dal solito bravissimo Riccardo Duranti, con un bel apparato di note e con alcune lettere che Carver mandò in quel periodo al suo editor.
Sapevo da tempo di questa versione, e l’apprendere che esistesse mi ha fatto sorgere alcune riflessioni, diciamo, filologiche. Facciamo un esempio apparentemente distante, ma che riguarda un altro dei miei grandi amori. A settembre usciranno i dischi dei Beatles rimasterizzati: il processo che ha portato a questa riedizione è stato seguito dai membri vivi della band, dalla moglie di Lennon e dal figlio di Harrison. Quindi, diciamo, questo controllo dovrebbe essere garanzia di genuinità, se non altro dal punto di vista della sensibilità filologica (non ho intenzione qui di parlare di sfruttamento intensivo di marchi quale Carver e i Beatles – seppure molto diversamente – sono). Così come questa edizione è tradotta dal migliore conoscitore di Carver in Italia, approvata dalla compagna dello scrittore e dai più importanti studiosi americani della sua opera.
Ma il punto è: il concetto di originalità dell’opera è davvero così slegato dall’hic et nunc in cui l’opera è stata licenziata? O è invece puramente collegato alle questioni della fattibilità tecnica e a quella dell’intentio auctoris?
Una cosa alla volta. Paul McCartney ha detto, in un vecchio numero di “Mojo”, che l’album bianco non ha mai suonato così bene. Ma, d’altro canto, i Beatles, George Martin e i tecnici di Abbey Road non erano proprio gli ultimi in quanto a inventiva e capacità di innovazione. Altro esempio: le riedizioni con aggiunte della prima trilogia di Guerre stellari. Nel presentarle, Lucas ha detto che quei mostri, quella scena, quel fondale erano da sempre nella sua mente, solo che la tecnologia allora disponibile non gli permetteva di ottenerli. D’altro canto, però, i dischi dei Beatles e i film di Lucas sono stati pubblicati (nel senso più ampio del termine) in un certo modo, e proprio in quel modo lì (carente?) sono stati amati, memorizzati, storicizzati.Ovviamente quando si parla di scrittura, la questione tecnologica decade, ma rimane – ed è più pressante – l’intenzione dell’autore. D’altro canto, sempre quando si parla di scrittura, è un nonsense immaginare lo scrittore preso dal fuoco sacro dell’arte. L’editoria è un’industria, con i suoi processi e le sue figure professionali: tra queste, l’editor.
Ora: Gordon Lish non era un fesso qualunque, così come non lo era Carver. E la riconoscenza che lo scrittore dimostra nei confronti dell’editor è evidente e giustificata. Dietro ad ogni buono scrittore c’è un buon editor, per fare una parafrasi. Lish è stato più che utile a Carver, c’è poco da fare. L’ha indirizzato, corretto, lodato: tagliando, aggiungendo, discutendo con lui ha fatto l’editor, punto. Ma è bene distnguere anche il lavoro dell’editor, che si gioca tutto nella misura e nel contesto. Paradossalmente, tagliare un romanzo del 60% è meno grave, a mio parere, che tagliare un racconto del 40. Perché il racconto è un organismo più delicato, più piccolo e fragile di un romanzo: bisogna andarci, insomma, coi piedi di piombo. Se no, tanto vale riscrivere tutto.
Torniamo alla storia: Di cosa parliamo quando parliamo d’amore esce e spalanca a Carver le porte del successo. L’opera di Lish, per molti versi artificiale come ogni manufatto industriale seppur “alto”, ha funzionato, il minimalismo diventa nuovo canone (e permane come modello ancora oggi, il che ci dovrebbe fare riflettere). Qualche anno dopo esce Cattedrale, ed è un successo ancora maggiore: i critici notano che c’è maggior respiro nei racconti, e iniziano a “indagare” sulla figura di Lish. C’è anche un racconto che è ripreso pari pari dal libro precedente, ma Carver gli cambia il titolo e gli dà aria: per Cattedrale Carver agisce praticamente da solo.
Attenzione, però: Lish, su Di cosa parliamo fa due editing. Il primo, più leggero, è accettato da Carver. Il secondo, quello con le grosse cifre percentuali citate sopra, getta Carver in uno sconforto disumano, ben testimoniato dalle lettere in appendice al volume. Si parla di “paranoia”, per intenderci. Ho finito oggi Principianti, e, ancora una volta, Carver mi ha stretto l’anima e commosso fino alle lacrime. Ma l’ho sentito più vicino di quando ho letto per la prima volta Di cosa parliamo. I personaggi, sebbene risolti magistralmente in poche righe, sono ancora più veri., forse perché le righe invece di essere tre sono sette. I discorsi che fanno sono più reali, forse perché inframmezzati da digressioni e cambi d’argomento, sembra che palpitino sulle pagine le parole che vengono scambiate, e pare di sentire più di prima il vento che batte incessante sulle case dove sono ambientate le storie. Ma per capire di cosa si tratta, cos’è che rende Principianti un libro da leggere e rileggere, è necessario arrivare alle ultimissime pagine. In una lettera a Lish Carver scrive, a proposito della seconda revisione della sua raccolta, poco prima che sia pubblicata:

Lo voglio quel senso di bellezza e di mistero che [i racconti] hanno ora, ma non voglio perdere di vista, perdere il contatto con i piccoli nessi umani che avevo visto nella prima versione che mi hai mandato. In qualche modo sembravano essere più pieni, nel senso migliore, in quella prima revisione.
Raymond Carver,
Principianti, Einaudi, Torino 2009, p. 287. Traduzione di Riccardo Duranti.

Ecco, i piccoli nessi umani, che sicuramente lo stesso Lish aveva tirato fuori all’inizio del suo lavoro. Ecco cosa c’è in più in Principianti e Cattedrale rispetto a Di cosa parliamo. I nessi umani. Qualcosa che non è poco per nessuno, figuriamoci per Carver, che di questi nessi, tessuti in manciate di parole, ha fatto grande la sua scrittura.
Certo, il problema se mi ricomprerò o meno la discografia dei Beatles tra qualche mese permane.

Lo scrittore che ride

Stamattina, andando al lavoro, mi è capitata sotto gli occhi l’ennesima intervista allo scrittore ggiovane. E ho solo aspettato il momento in cui, puntualmente, si manifestasse una qualsiasi fobia, psicosi, mania dell’intervistato. È arrivata, nel caso in questione, la claustrofobia.
E allora mi sono detto “basta”.
Basta con questo maledettismo d’accatto con i “demoni dentro che libero grazie alla mia scrittura”, scrittura che è sempre dolorosa, difficile, straziante, basta. Basta con claustrofobia, zoofilia, complessi d’Edipo/Elettra non superati, anoressie, bulimie, dipendenze varie, basta. Voglio scrittori normali. Gente che racconta storie e fa un mestiere. Un bel mestiere, per carità, ma che mestiere sia.
Insomma, avete mai sentito di un chirurgo che dice “No, sa, io per operare bene mi rinchiudo in una stanza d’albergo, sì, solo io, il paziente e l’anestesista”, oppure di un macellaio che scoppia in lacrime perché non sente bene la vibrazione del manzo per tagliare un perfetto controfiletto (il che ricorda molto le “braciole postmoderne” di alleniana memoria). O, che ne so, di un impiegato che confessa: “Sa, questa pratica proprio non riuscivo a finirla. Allora sono andato in India. Poi, sì, e guardi che bella pratica mi è venuta fuori!”
Vi immaginate che bello, ad un bar del centro, in pausa pranzo, si incontrano scrittori e altri lavoratori, e c’è chi si lamenta del capo, chi dell’editore, chi delle nuove normative europee, chi di quel passaggio del terzo capitolo che proprio non ne vuole sapere di risolversi?
Vi immaginate che bello uno scrittore che sta bene con se stesso, che gli unici demoni che conosce sono quelli di Dostoevskij, che dentro, al massimo, ha il fegato un po’ ingrossato, ma solo perché è andato di recente al matrimonio di una cugina e ha esagerato con il brasato e l’ammazzacaffè?
Vi immaginate che bello uno scrittore che ride?

P.S. Di scrittori così ce ne sono, e ne conosco anche qualcuno, eh. È solo che la tendenza deve diffondersi ancora, soprattutto tra le nuove e nuovissime generazioni.

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