sleaford mods

Dagli archivi: Sleaford Mods – Key Markets e intervista

Sleaford Mods – Key Markets (Harbinger Sound)

8

Altri ascolti raccomandati
Sleaford Mods – Chubbed Up +
Public Image Ltd – Metal Box
Suicide – Suicide (1977)

L’ottavo disco in studio del duo di Nottingham arriva dopo un anno d’oro in cui la notorietà di Jason Williamson e Andrew Fearn è cresciuta notevolmente. Ma Key Markets (si chiamava così un supermercato frequentato dal piccolo Jason nella natale Grantham) non si limita a ripetere le formule del recente e fortunatissimo Divide and Exit. Le basi di Fearn cercano altre soluzioni, per esempio: il basso-e-batteria pulsanti che si ritrovano in molte tracce diventano ancora più ipnotici e paranoici (Bronx in a Six), o quasi hardcore (No Ones Bothered), ma hanno anche modo di rallentare (Tarantula Deadly Cargo) e di tingersi di sfumature esotiche (Arabia). Musicalmente anche Williamson si espande, lanciandosi talvolta in minimali escursioni melodiche che ricordano il salmodiare crudele e ironico di Lydon.

Ma ogni riferimento è vano: gli Sleaford Mods sono unici, nella loro musica c’è tanto il post punk quanto la cultura rave, il minimalismo elettronico, l’hardcore e, chiaramente, l’hip hop. Tuttavia anche quest’ultimo genere è semplicemente strumentale alle narrazioni di Williamson, che affina ancora di più penna e lingua: l’uso di un lessico sempre più preciso, infuocato e caustico, gli permette di essere amaramente satirico e credibile pur prendendosela praticamente con tutti. Con i ricchi e i tories, principalmente, facendo spesso nomi e cognomi; ma anche con chi accetta passivamente, giorno dopo giorno, la subordinazione, lo schiacciamento sociale.

Il duo attacca chi la musica la fa e la diffonde (c’è una notevole frecciata alla popolare dj della BBC Lauren Laverne), ma anche chi si concia alla moda: “You live in Carlton, you twat, you’re not Snake fucking Plissken!” (“Vivi a Carlton, idiota, non sei un cazzo di Snake [in italiano “Iena”, ndr] Plissken”), urla in Cunt Make It Up. Una rabbia travolgente domina Key Markets, accompagnandosi alla consueta ironia che è ancora più scura e urticante del solito: ma qua e là affiorano altre sensazioni legate a un tempo ormai irrimediabilmente perso, quando, se non altro per disperazione, aveva ancora senso lottare.

************************************************************************************************

Sono in due: Andrew Fearn si occupa delle basi dal 2012, Jason Williamson dei testi dalla nascita degli Sleaford Mods, sancita nel 2007 con il primo self-titled arrivato quando Williamson (dopo svariati progetti musicali “tradizionali”) ha deciso di dedicarsi completamente al nuovo progetto. Sono quindi seguiti altri sette album, due ep e tre raccolte, una delle quali data alle stampe dalla Ipecac di Mike Patton nel 2014, l’anno che li ha visti esplodere. Negli ultimi mesi hanno incendiato i club e i festival di mezza Europa con live preceduti da soundcheck di cinque minuti scarsi, visto che sul palco hanno solo un portatile, un microfono e delle birre. Non fanno rap né davvero post punk, sebbene siano questi gli unici generi in cui si potrebbero provare a contenere gli Sleaford Mods, tanto minimali quanto abrasivi. Sono la quintessenza del Made in Britain, lontani dal posh e vicini ai pub, orgogliosi delle loro origini, ma fieramente e storicamente anti-establishment. Una voce unica nel panorama musicale odierno e in via di evoluzione: l’ultimo disco Key Markets (vedi recensione sopra) è il segno che i due quarantacinquenni (più o meno) di Nottingham non si siedono sugli allori. Non che l’avessimo mai pensato, eh. Abbiamo chiesto a Williamson come siano arrivati a questa diversificazione di ritmi, suoni e temi. “È successo spontaneamente”, ci ha scritto. “Avevamo in mente l’idea di provare nuovi approcci, ma non ci siamo troppo agitati al riguardo. Siamo semplicemente andati in studio e abbiamo registrato come sempre. Siamo una band molto essenziale e così dev’essere anche il processo di registrazione dei nuovi pezzi. Se complicassimo troppo le cose, si perderebbe la forza primaria”.

La traccia di apertura del nuovo disco, Live Tonight, comincia con i vostri fan che urlano scandendo il vostro nome. Quanto la dimensione live influenza la vostra musica e viceversa?
La musica detta la performance live e la cambia di continuo. Andare in tour è tanto importante quanto per me non proprio piacevole, ma modella ciò che la band è davvero. Il processo di registrazione è comunque del tutto separato e non penso che migliori il live

Hai detto molte volte che gli Sleaford Mods sono nati perché non ne potevi più della forma canzone e che non volevi più cantare. Tuttavia nei vostri dischi, e nell’ultimo in particolare, ci sono accenni a strutture più convenzionali e ogni tanto canti pure! Cos’è che ti fa cambiare idea in questi casi e perché?
Credo di avere trovato un modo per incorporare tutto ciò in maniera interessante e che funzioni anche con ciò che sono gli Sleaford Mods. Key Markets rappresenta per noi un nuova fase.

Uno dei vostri bersagli è la scena musicale e fate nomi e cognomi. Avete ancora dei problemi con i passaggi radio delle vostre canzoni? Cosa pensi che, diciamo, non vada nei vostri pezzi, parolacce a parte? Ve ne importa qualcosa?
No, delle parolacce non mi importa: funzionano. Abbiamo un sacco di passaggi radio. Iggy Pop manda i nostri pezzi ogni settimana, insieme a grandi dj come Tom Robinson e Gideon Cole. Quest’ultimo, poi, scende molto nei dettagli dal punto di vista delle parole, spiega alcuni particolari dei testi recitandoli dalla raccolta Grammar Wanker [pubblicata alla fine dell’anno scorso e ampiamente esaurita, contiene tutti i testi degli Sleaford Mods dal 2007 al 2014 ndr].

Hai scritto una canzone senza parolacce, Tiswas, che comunque non ha avuto il successo che forse auspicavate. Ne è valsa la pena? Qual è il vostro rapporto con il compromesso?
Spingere un disco costa e solo le grandi compagnie possono permettersi di mantenere un pezzo in rotazione. E’ tutta una questione di soldi. Ma anche qualche passaggio può essere significativo: li abbiamo avuti, continuiamo ad averli e ne sono felice. Il compromesso non c’entra: semplicemente ci sono canzoni che funzionano meglio senza volgarità.

C’è qualche band o musicista che sentite vicino per spirito o senso della verità?
No.

E allora le ospitate che avete fatto nei dischi di Leftfield e Prodigy?
Pensavo che intendessi nuove band, roba contemporanea: i nomi che citi sono in giro da anni. Sono più di parte nei confronti di Prodigy e Leftfield perché sono grandi gruppi e icone della mia generazione. Non mi pare che ci siano tante band valide oggi, tra quelle nuove nel Regno Unito. Ascolto Wiley, finita lì.

L’inglese che usi spesso è difficile per gli stranieri che pur conoscono la lingua, ma anche per i madrelingua. In Rupert’s Trousers dici “We are dreadful ignored by the well spoken few” (“Siamo completamente ignorati dai pochi che parlano bene”). Come ti servi del linguaggio e fino a che punto è infuenzato dal flow del rap statunitense?
Quel verso dice, in pratica, che le masse sottosviluppate sono burattini nelle mani dei ricchi, ignorati dal lusso dell’elitismo. Ci sono due mondi sul pianeta Terra: il nostro e il loro. Non mi preoccupo se le persone afferrino o meno i testi: faccio ciò che mi sembra appropriato, canzone per canzone. E sì, in parte è influenzato dal rap: il ritmo della parola scorre all’interno del genere.

Il modo che hai di comportarti sul palco e di raccontare storie deriva dai pub e dalla strada, dove ironia, riferimenti sessuali e aggressività sono ben miscelati. Esiste ancora un cultura della strada e dei pub nel Regno Unito?
Certo che sì, è ben radicata.

Ma il Paese di cui parli è molto lontano dalle luci della capitale: che relazione ha con Londra il Regno Unito che ci racconti?
È Londra anche quello, ma non Soho o Brick Lane: parlo delle aree più periferiche della città. È’ da qui che arrivano gli ingredienti principali, il tessuto del Paese.

Nelle tue parole emerge la rabbia quotidiana delle periferie. Nella traccia finale dici “Every house used to have one [a garden] in 1965 now look at us oh what a fucking life” (“Ogni casa un tempo aveva un giardino nel 1965, ora guarda che vita del cazzo”). Secondo te qual è stato l’ultimo periodo in cui la vita di tutti i giorni nel Regno Unito aveva ancora una parvenza di umanità?
Probabilmente fino ai primi anni ’80, ma direi con più certezza fino a tutti gli anni ’70.

Uno dei riferimenti del vostro suono è la musica che si poteva ascoltare nel Regno Unito alla fine di quel decennio: un periodo di profonda crisi sociale e politica da cui è nata tanta bella musica insieme ad alcuni problemi di cui il Paese soffre ancora oggi. Secondo te ha senso paragonare quel periodo al presente? In Giddy on the Ciggies dici “It’s no longer 1979, you…” (“Non è più il 1979, razza di…”) e poi parte una pernacchia, ma d’altro canto due fattori importanti come il revival Mods e il supermercato che dà il titolo al vostro disco appartengono a quel periodo.
Non c’è alcun tipo di revival nel nostro disco, e se quel periodo è citato nelle canzoni è perché quei ricordi mi sono molto cari. Oggi il clima è molto diverso: noi ci limitiamo a promuovere quelle immagini, mi sa. In fondo siamo più vecchi dei nostri colleghi sulla scena musicale.

Non so perché esattamente, ma ascoltando Silly Me, mi è tornata in mente una dichiarazione dei Black Sabbath: a proposito della nascita del loro suono, dicevano che, sebbene quelli fossero gli anni “giusti”, c’era ben poco di hippy a Birmingham. I vostri continui riferimenti alla morte e alla sua ineluttabilità e a un senso di depressione hanno a che fare nello specifico con Nottingham?
No, assolutamente: hanno a che fare in generale con l’esperienza del vivere, ovunque la si faccia. Si ritrovano le stesse sensazioni in molti altri posti.

Fino a che punto diresti che gli Sleaford Mods sono politici? C’è qualche movimento o pensiero nel quale vi riconoscete?
Ci riconosciamo solo nella rabbia della gente: siamo politici in quel senso, ma non in senso partitico.

Sembrate abbastanza disillusi sulla possibilità di un reale cambiamento. Cosa pensate del futuro e dell’eventuale potere delle masse?
Qualcosa sta accadendo, a dire il vero, ma non sono sicuro da che parte provenga. Arriva dal potere dei ricchi? O dalla rabbia di quelli che stanno sotto i ricchi? Non ne sono certo, ma una ribellione di qualche tipo è alle porte.

Recensione e intervista pubblicate sul numero di agosto 2015 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: Sleaford Mods. Covo Club, Bologna, 2 maggio 2015

La chiusura della stagione 2014-15 del club bolognese è affidata al duo di Nottingham: un live scarno, essenziale e violento come una scazzottata in strada, con anticipazioni del nuovo disco.

“Bunch of Cunts”: con la canzone del recente Tiswas ep Jason Williamson saluta (o appella?) il pubblico di un Covo sold out, nell’ultimo live della stagione per il club bolognese. In questo incipit sta tutto il concerto degli Sleaford Mods, una delle espressioni più tipicamente “contemporary British” a cui possiate assistere oggi. Un’ora abbondante di ironia, rabbia, strafottenza, essenzialità e rigore che proviene dal Regno Unito dei pub squallidi e delle file all’ufficio di collocamento, lontanissimo da qualsiasi laccatura e compromesso.

sleaford modsTutto comincia quando un serafico Andrew Fearn fende il pubblico (il Covo non ha un vero e proprio backstage) e sale sul palco con sei bottiglie di birra e un portatile: la scenografia è tutta là, insieme a un microfono e uno sgabello su cui il laptop trova posto. L’uomo dedito ai beat del duo hip hop, punk, post punk, chi se ne frega, sta là fermo, come se stesse aspettando l’autobus. Non interagisce o quasi col pubblico, pur non sembrando altezzoso: un atteggiamento che manterrà per tutto il live, tanto da farci percepire una grottesca sovrapposizione con il ruolo live di Mauro Repetto negli 883 (ma Fearn balla di meno). Solo dopo diversi minuti la platea, ormai fittissima, accoglie Williamson, che attraversa la folla, si posiziona di tre quarti davanti al microfono e inizia a sputare rime violentissime, praticamente senza sosta. Si concede talvolta di ammiccare in maniera grottesca al pubblico, sculettando e fingendo di tenersi e offrirci i seni (sic).

I bassi profondi delle basi fanno tremare i muri del Covo, che presto paiono imbrattati dalle rabbiose storie di strada pubblicate in sette album, due ep e tre raccolte: ma nella scaletta c’è spazio anche per tre brani nuovi, “Live Tonight”, “Bronx In a Six” e “Tarantula Deadly Cargo”, anticipazioni dell’imminente nuovo LP Key Markets. Gli Sleaford Mods sembrano avere ripreso in pieno il “We Don’t Care” dei Sex Pistols, ma fregandosene davvero di tutto, compresa quell’eredità, quella pre e quella post. Ogni frammento di live comunica urgenza e necessità, ogni pezzo è una spinta interiore che sta tra un ruggito, una risata sarcastica e un conato di vomito. Un miracolo, considerando la reale povertà di mezzi, ma agli Sleaford Mods basta questo (e un po’ d’erba, chiesta dal palco a fine live). In quanto a noi, be’… in confronto a loro non siamo altro che un bunch of cunts, appunto.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di giugno 2015 de Il Mucchio Selvaggio

Torna in cima