"Oggi mi scateno e racconterò questa storia"
Ho accennato, qualche giorno fa, alla gioia che mi ha invaso quando ho visto in libreria un volume con una fascetta che diceva “Raymond Carver inedito”. Il fatto è che sono abbastanza smaliziato da capire quanto le fascette intorno ai libri possano mentire, ma per il momento questo con Carver non avviene: c’è ancora una specie di onestà intorno alla sua scrittura, che pare derivi dalle sue stesse parole, che sia una loro diretta emanazione. E datemi pure dell’ingenuo.
Una recente uscita speciale di Storie contiene effettivamente tre poesie inedite di Carver e due atti unici scritti da lui e dalla sua compagna Tess Gallagher. Le poesie erano rimaste, come sempre, in un archivio di una delle prime case editrici che pubblicò qualcosa dello scrittore, e sono state scritte nel 1975, quando ancora Carver era vittima dell’alcolismo, da cui sarebbe uscito nel 1977, per iniziare la sua seconda vita. E sono poesie eccezionali, soprattutto “Uncle Bob and the Art of Fiction”, in cui Carver si concede di raccontare come si racconta, come farà in anche in “Sunday Night”, inclusa nella sua ultima raccolta, una poesia che fissa la sua estetica o, meno pomposamente, il suo modo di riportare il mondo (la Vita, come diceva) in versi.
Ma non è questa poesia che mi ha immediatamente colpito appena ho aperto il libro e mi ha colto l’odore di carta nuova. Né i vari saggi che lo completano. Mi sono soffermato su un racconto di Riccardo Duranti, il traduttore italiano di Carver, che si intitola “L’incontro”.
Credo fosse il marzo del 2001. Avevo scritto da poco per una rivista di cinema un articolo, che adesso è qua, sul rapporto tra l’ultimo libro di Carver e l’ultimo film di Moretti, e l’avevo mandato a Riccardo, appunto, che l’aveva apprezzato. Da lì ci siamo scambiati delle mail, fino a che, una volta che ero a Roma, abbiamo deciso di incontrarci. Ci siamo visti in un pub vicino a via Barberini. Io ero emozionatissimo, perché conoscere lui era conoscere da più vicino, in qualche modo, Raymond Carver. Lo dice anche Murakami, traduttore giapponese di Carver, in un saggio pubblicato su questo numero speciale di Storie, quando parla di cos’è per lui tradurre i racconti di Ray: “Certe volte, mentre traduco (…) mi sento proprio come se diventassi una cosa sola – corpo e anima – con l’autore. (…) Invece che traduzione, preferirei chiamarlo ‘fare esperienza di Raymond Carver'” (p. 112).
Riccardo mi raccontò, con un magnifico understatement britannico-romano, di quando incontrò Carver per la prima volta, senza sapere che fosse quello scrittore di cui allora si iniziava a parlare anche in Italia: si era solamente visto venire incontro una specie di orso enorme e timido, che lui sapeva essere il compagno della sua amica, la poetessa Tess Gallagher.
Ricordo tutto, di quel tardo pomeriggio, ogni parola che Riccardo mi ha detto, e se ci ripenso, sento ancora i brividi. In quel giorno di quattro anni fa, anche io avevo conosciuto Carver, attraverso le parole di Riccardo, come del resto avevo fatto fino ad allora. Mi lasciò regalandomi un libro, introvabile in Italia, che conservo gelosamente.
“L’incontro” è il racconto di un altro pomeriggio, proprio quello passato da Riccardo prima all’aeroporto di Syracuse, poi nella macchina con un Carver taciturno, poi con l’imbarazzo di un brindisi con l’aranciata (la seconda vita di Ray era già iniziata) e infine con una scoperta. Un racconto che già conoscevo sulla pelle, e che non immaginavo di rileggere su una carta che sapeva di nuovo.
Mi è venuta voglia di scrivere un racconto su quell’incontro, che inevitabilmente conterrà un altro racconto, su un altro incontro.
“Niente di complicato.
Raccontiamola com’è (…).
Oggi mi scateno e racconterò questa storia”
(R. Carver, “Zio Bob e l’arte del racconto”, in Tell It All, LeConte, 2005, p. 10. Trad. di Riccardo Duranti)