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La bellezza di “Tookah”: intervista a Emiliana Torrini

emiliana

Ci sono delle interviste che sulla carta non sono più difficili di altre, ma che vengono rese ardue dalle condizioni in cui si svolgono. Da quando mi era stata ventilata la possibilità di intervistare la Torrini a quando la chiacchierata è avvenuta effettivamente è passato più di un mese, ma questo è normale. Meno consueto è che proprio nel momento dell’intervista tutti i telefoni della Rough Trade di New York (dove la musicista si trovava per provare il nuovo tour, che tocca Milano l’11 novembre, unica data italiana) abbiano deciso di andare in tilt e che quindi la chiacchierata sia avvenuta via cellulare. “In questi uffici c’è poco campo”, mi ha detto la Torrini prima che cominciassi a registrare. O almeno, credo abbia pronunciato quelle parole: intendere le sue risposte in certi frangenti è stato davvero difficile. Ecco quello che ci siamo detti.

L’ultimo disco si chiama Tookah. Che significa?
“Tookah” è una parola venuta fuori mentre improvvisavo una canzone: ogni volta che la cantavo mi rimandava a qualcosa di dolce, a qualcosa in me. Mi dà l’idea di essere qualcosa di bello, gentile, legato alla felicità, come se fosse un posto bello. Abbiamo avuto fortuna che sia spuntata così. Ormai è qualcosa legata alla mia essenza interiore: è stata una bella scoperta, e l’ho chiamata “tookah”.

Il disco ha un’atmosfera felice, ma talvolta i testi non lo sono, diventano quasi violenti, come nell’ultima traccia che chiude il disco in un modo piuttosto crudo. Quali erano i tuoi pensieri e sentimenti quando la registravi?
Il disco e la sua copertina parlano molto del dualismo: i due lati di noi, inscindibili. Non possiamo esistere solo con uno. L’album inizia con “Tookah” e finisce con “When Fever Breaks”; ci sono alcune canzoni, come “Blood Red”, in cui due voci si parlano, in cui una parte dialoga con l’altra. Il disco racconta dell’opposizione sì/no, di quella buono/cattivo, di questo tipo di conversazioni. L’argomento mi affascina, perché anni fa, quando ho subito un certo trauma, ho avuto un momento difficile, ho sfiorato la malattia mentale e ho dovuto riconsiderare queste due parti. Trovo il concetto molto interessante. È vero, il disco finisce in maniera violenta, ma si tratta di una violenza particolare: nessuno viene ucciso. Si parla più di passione, di perdita, di un dirottamento dell’amore che confonde.

In che periodo della tua vita esce questo disco? Non sei molto prolifica, quindi immagino che ti prenda i tuoi tempi: quando hai colto la prima scintilla e hai deciso di produrre il disco?
C’è stato davvero tanto tanto lavoro dietro all’ultimo disco. Con il disco precedente sono stata in tour per due anni e mezzo e mancavano tre settimane alla fine del tour quando ho scoperto di essere incinta di mio figlio. Ho quindi deciso che sarei rimasta a casa per un paio di anni, a fare la mamma. E mentre facevo la mamma dedicavo del tempo alla scrittura del disco, forse due volte alla settimana: era un’esperienza meravigliosa, ancora una volta c’erano due lati. C’era questa piccola creatura bisognosa di cure: pensavo che doveva mangiare, un giorno sarebbe andato all’università… Volavo con la mente. Ero molto confusa e ho dovuto prendere una pausa dai momenti creativi dedicati al disco perché non ero pronta. E quando ho deciso che non ero pronta… naturalmente è lì che è iniziato il vero lavoro. Ho fatto una sorta di viaggio del suono, ho sperimentato il comporre con altre persone, una sorta di sinfonia… Così venuto fuori un disco, Tookah.

Come hai lavorato con i produttori e coautori del disco, Dan Carey, Simon Byrt e Ian Kellet? Quali sono stati i loro ruoli e a cosa hanno contribuito davvero?
Con Dan abbiamo un metodo di lavoro per cui siamo completamente collegati in studio: lui suona alla chitarra e io sono al microfono con gli accordi. Se, quando inizia a suonare, io reagisco in qualche modo, registriamo e infine spuntano anche le parole. C’è improvvisazione: lui si occupa della parte di chitarra, io della melodia e delle parole.

Cosa mi racconti degli strumenti usati? Ho letto in rete che Dan ti ha portato dei synth e cose del genere: è stato un regalo, una sorpresa o è stata più una cosa di lavoro?
No, stavamo guardando dei video su YouTube di questi cugini che hanno fatto un nuovo strumento: si chiama Swarmatron e l’abbiamo ordinato. È arrivato dopo mesi, perché andava costruito ex novo. Nel frattempo ne abbiamo visto un altro per caso in cui un nerd del sintetizzatore ne suonava uno chiamato Oppenheim che mi ha veramente colpito. Sono diventata patita del mondo dei synth e abbiamo deciso di usarlo per un progetto collaterale a cui stiamo lavorando, di divertirci suonandolo. Insomma, sono io che ho portato questi synth e le idee a loro legate nel disco. È stato un viaggio bellissimo, perché è stata anche una sfida per Dan il fare musica così, il mischiare bene una musica diciamo folk con l’elettronica e i synth. Dev’essere fatta molto bene, o può venire uno schifo. È difficile tenere tenere un suono piacevole ma avere spazio nella musica, silenzi, le dinamiche giuste. Insomma, è stata una sfida su qualcosa di bello, interessante…

Hai registrato il disco pensando alla sua resa live oppure l’ambito di studio e quello dal vivo sono separati del tutto, per cui pensi all’arrangiamento live dopo che hai chiuso l’album?
Di solito accade dopo, sì. Mentre lavoravamo al disco non pensavamo assolutamente a nient’altro. Non si va oltre a “Che bella canzone, questa!”, quando scriviamo. Si tratta di qualcosa di molto chiuso e intimo, una bolla in cui viviamo. Solo dopo pensiamo ai live: talvolta è piacevole, altre è una specie di lotta, perché alcune canzoni non riescono così bene dal vivo, alcune sono migliori di altre. Ma certo, quando pensi al live entri in un mondo completamente diverso: pensi a come renderle sul palco, ma anche a come provarle. È del tutto differente.

Le nuove canzoni, dal punto di vista dei timbri e dei colori, influenzano la resa dal vivo dei brani più vecchi? Lo spirito di Tookah, insomma, le infonde dal vivo?
Sì, ma è una cosa che avviene col tempo, non subito. È qualcosa che ha a che fare con il suonare insieme. Più si suona insieme, più le cose si inquadrano in un disegno preciso, ma non è una cosa che stiamo facendo ora. Per ora sto ancora sudando con le prove con la band, perché sono in un Paese diverso [gli Stati Uniti, ndr], non posso andarmene troppo, ma le cose inizieranno a evolvere, penso. Lo spero! [ride] C’è una nuova band che deve imparare le canzoni nuove… Gli inizi sono sempre momenti interessanti.

Quali dischi ti sono piaciuti di più, tra quelli usciti quest’anno?
In quest’anno ho ascoltato molto il disco di Ásgeir Trausti, nella versione islandese, che adoro. Ho ascoltato anche John Grant. Faccio dei mix cd per mio figlio, perché non intendo sedermi in macchina e ascoltare le canzoni dell’asilo! Ho fatto questi cd, così li ascoltiamo insieme in macchina. Velvet Underground, Harry Nilsson, i Beach Boys, cose così.

A proposito della versione inglese dell’album di Ásgeir Trausti, quando sono stati pubblicati i primi video su YouTube ho visto alcuni commenti piuttosto critici da parte di utenti islandesi a proposito della traduzione. Tu che ne pensi? E, in genere, qual è la differenza tra cantare in inglese o islandese, una lingua peraltro molto musicale.
Non saprei: credo solo che sia bello che ci siano due versioni del disco per Ásgeir. Va bene, chi vuole l’ascolta in inglese, se no c’è quella in islandese. È bello avere la possibilità di scegliere. Adesso, perchè è Ásgeir, probabilmente potrebbe cavarsela anche cantando solo in islandese, ma credo sia fantastico che ci siano entrambe le versioni. Io sono cresciuta parlando anche molto inglese: ero in Germania, Italia (ma non parlo italiano) e ho cominciato a scrivere in inglese presto. In tutta la mia carriera sono stata molto criticata per non cantare in islandese, ma credo che sia una questione legata ai tempi. La musica su internet è in quantità soverchiante, ognuno ha migliaia di dischi sull’iPad, ma nessuno sa cosa possiede. La gente sta tornando alle proprie radici, davvero tanto. Torna al loro Paese e sta accadendo anche in Islanda. Ásgeir Trausti sta tornando a cantare in islandese, molto di più di quanto facesse prima. I fan a casa sono sempre di più, e questo penso che accada ovunque. Le persone stanno perdendo molti legami con la propria musica e con chi la fa. Comunque non so se farò mai un disco in islandese: dovrei cominciare a scrivere in quella lingua e non l’ho mai fatto!

Qui l’intervista audio, che va in onda nella puntata di Maps di oggi.
Grazie a Emily Clancy per l’aiuto nella traduzione.

Ritorno alle radici


Se qualcuno mi avesse detto “Tori Amos è tornata alle sue radici”, musicalmente parlando, mi sarebbe preso un colpo: già è un po’ che la mia beniamina non tira fuori un album convincente, ma addirittura arrivare ai “fasti” cotonatissimi di Y Kan’t Tori Read mi sarebbe parso esagerato, persino come suicidio pubblico. Sebbene l’ultimo Night of Hunters sia quanto di più lontano possibile dall’esordio della musicista, è un disco che va a pescare ancora prima: le notizie che sarebbe uscito per Deutsche Grammophon erano un chiaro indizio, ma che l’album avesse un’impronta così classica è stata una sorpresa.
Curioso, poi, il fatto che il titolo del primo disco si riferisse alle lamentele degli insegnanti dell’istituto di musica prestigioso che Tori frequentò da bambina-prodigio sul fatto che non volesse leggere la musica (classica, ovviamente). E invece la pianista la riprende in mano, aiutata da un illuminato produttore dell’etichetta tedesca (ce lo raccontano nel dvd allegato al disco), e prende secoli di musica per creare un ciclo di canzoni… be’, un po’ troppo alla Tori Amos, tematicamente parlando, ma interessanti. Il tutto con voce, piano, fiati e quartetto d’archi.
Quest’ultimo è anche in tour con la musicista: qua sopra potete leggere la recensione che ho scritto sul concerto milanese di più di un mese fa per il numero di Jam in edicola questo mese. Tre su cinque, che è anche il voto che darei al disco. Non sappiamo se Tori ora sappia leggere la musica classica o meno, ma la suona bene. Che sia la strada buona?

L'antipastino

Entri in un ristorante: è presto perché quella sia considerata ora di cena nel fine settimana della metropoli. Ti accoglie un cameriere che accompagna te e lei a un tavolo. Non fai in tempo a sederti che lo stesso cameriere, sulla quarantina, con una certa rassomiglianza con Massimiliano Bruno, ti offre di portarti “un antipastino”. E, nel descriverlo riempie di prelibatezze con movimenti della dita un piatto immaginario tenuto con la mano sinistra. Dice “Un po’ di formaggio, salu…” e tu lo interrompi, ringraziandolo, per chiedere il menù. Lui si ferma e ti guarda offeso. “Gliel’avrei portato, eh”, replica, prendendo due liste in mano.
Scopri che l’antipastino è per minimo due persone, e costa 15 euro al piatto.
L’antipastino.
Da quando il cameriere prende l’ordinazione (due pizze, una birra media e una bottiglia d’acqua) a quando queste giungono al tuo tavolo, sono arrivate altre persone.
“Intanto vi porto qualcosa, un antipastino?”
Non è neanche bello a vedersi, ma, nel giro di quindici minuti l’antipastino è su ogni tavola del ristorante.

Di |2011-10-11T08:00:00+02:0011 Ottobre 2011|Categorie: I've Just Seen A Face, Savoy Truffle|Tag: , , , , , |3 Commenti

Imponi un posto a tavola – 3

Arriviamo alla cena dell’ultimo giorno pronti a tutto. O almeno, così credevamo. Alle otto e un minuto sono già tutti a tavola: abbiamo perso l’ultima occasione per capirci qualcosa delle dinamiche temporali di assalto alla mensa serale. Troviamo posto accanto a un gruppo di quattro persone: le sedie accanto alle nostre non saranno mai occupate durante tutta la cena, a differenza dei nostri padiglioni auricolari, invasi per due ore dalle chiacchiere delle due coppie al tavolo con noi.
La coppia A è formata da due persone più che sovrappeso di 35 e 33 anni, di vicino Milano, che stanno insieme da 11 e sono sposati da cinque; lui ha un nipote che fa 10 anni a luglio, ama lavorare e mangiare. Anche lei ama mangiare (ma dai), ma quella sera è a dieta, ha una predilezione per il viola (colore che domina le pareti del loro appartamento) e, in quel momento, male ai polpacci e pochissimo appetito, poiché ha mangiato un biscotto (in parte: è rimasto sul comodino per dopo), che consiste in cioccolato ripieno di nutella.
Capirete che questi dati non sono inventati.
Nella coppia B lui può avere una quarantina d’anni e vive a Milano. Lei di anni ne ha 35 e fa l’educatrice in una scuola materna.
Oh, la coppia B parlava decisamente di meno, che ci posso fare?
Dall’antipasto (a buffet) al dolce è stato un susseguirsi ininterrotto di conversazioni piatte e banali: dal colore delle pareti a come si vive a Milano, da quanti quintali di carne il maschio-A ha arrostito per la tal sagra, al tentativo di battere il record di persone che formano una catena umana intorno a un lago. La coppia A ha invitato la coppia B a unirsi alla prova: lei-B quasi quasi ci stava. Si è poi parlato di traffico, di stile “rusticato” (di cui Maschio-A sapeva tutto), di orari di lavoro, di souvenir (seriamente), di educazione dei figli con annesse prove che alla fine si può anche stare senza cellulare. A quel punto il maschio-B ha detto che “Non si può tornare indietro” e ho avuto l’impressione che si riferisse alla scelta dei posti per la sera.
Il tono della conversazione si è mantenuto così per un po’: era tale che se qualcuno avesse parlato di uova fritte, si sarebbe impennato l’interesse in maniera vertiginosa. Io, dentro di me, pensavo da un lato che gli argomenti erano di una noia letale, ma che sarebbe stato peggio se avessero tirato fuori…
E dal nulla Maschio-A ha detto che Pisapia se ne sarebbe prese, di critiche. Così. Sua moglie ha detto che non sapeva chi fosse. Lui l’ha subito informata della carica recentemente conquistata, aggiungendo con poca sicurezza: “È un avvocato”. Da lì all’argomento extracomunitari il passo è breve, dire che danno tutte le case a loro è una logica conseguenza. Mentre mi infilavo della cotenna di porco nelle orecchie, ho percepito le parole “rubare”, “gli danno trenta euro al giorno e stanno in albergo” e “Lampedusa”. Poi la sugna ha fatto il suo dovere, ottundendomi dolcemente dentro e fuori.

“Siete sopravvissuti?” ci ha chiesto il cuoco campano fuori dalla sala da pranzo.
Abbiamo annuito col capo e siamo corsi in camera: da lì a qualche ora i nostri vicini e i loro bambini ci avrebbero avvisato, a modo loro, che era tempo di partire. Il ponte era ormai agli sgoccioli.

fine

L'infantile malattia

La schermata che vedete qua sopra (cliccate se la volete più grande) era quella che campeggiava sul sito del quotidiano Libero nel tardo pomeriggio di ieri, con la sconfitta del centrodestra nelle amministrative che ormai era certa. L’errore che ho sottolineato in rosso non è stato corretto per molto tempo, ma il refuso freudiano, la serrata delle sala stampa del PdL di ieri pomeriggio e la nenia ormai continua sui comunisti, indicano davvero un grado di infantilisimo preoccupante tra le fila di una serie di organizzazioni politiche che rappresentano (diciamo così) una buona metà degli italiani. La destra pare essere un bambino che non accetta rimproveri, castighi e giudizi negativi, che sputazza e scalcia fino all’esaurimento delle forze e che vuole avere sempre l’ultima (brutta) parola.
Non se ne andrà nessuno, dal PdL: prova di questo è che Bondi abbia dato le dimissioni. Oh, così come non se n’è mai andato nessuno dal Pd, che pure perde confronti elettorali a grappolo.
La classe politica più vecchia d’Europa dovrebbe fare tutta un passo indietro: e lo dico a costo di rovinare la festa meritata a due delle più importanti città d’Italia.

Di |2011-05-31T08:00:00+02:0031 Maggio 2011|Categorie: Taxman, Tomorrow Never Knows|Tag: , , , , , , |2 Commenti

Rincorro anch'io

È appena uscito nelle librerie italiche l’ultimo libro di Gianluca Morozzi: si intitola Nato per rincorrere ed è edito da Castelvecchi. Questa volta Morozzi rischia di brutto: nel volume sono raccontati, con stili e modi diversi, i cinquanta concerti di Bruce Springsteen che l’autore ha visto finora.
Pazzesco. Non sapevo che Morozzi fosse un fan del Boss.

L’autore mi ha concesso l’onore di raccontare con le mie parole il mio primo (e finora unico, ahimè) concerto di Springsteen, quello di Milano di due anni fa. Sì, è un messaggio pubblicitario, che credevate? Qua, se volete, trovate una scheda del libro e un estratto.

Craxi, via

Il flusso delle notizie viene creato in modo tale che sia rutilante. La tecnica è quella della prestidigitazione: una mano ti mostra qualcosa, velocemente, poi l’altra ti fa vedere qualcosa di diverso, e poi l’attenzione viene spostata di nuovo. In questo modo, non ci si capisce una mazza, e le palline scompaiono dai bussolotti, e i conigli escono dai cappelli.
Tutto questo viene fatto, però, non in un teatro o un oratorio che ospita un concorso per maghi di provincia, ma su quasi tutti i media nazionali. Per fortuna, ancora una volta, c’è Stefano Disegni, che “mi” scrive:

Via Craxi docet… una strip dedicata in particolare agli amici milanesi (ma anche a Roma non siamo messi troppo bene) cui va la mia solidarietà, sperando che rimanga un’esagerazione satirica…

E continuiamo a sperare… Come al solito, cliccate sulle vignette se volete mantenere la vista, almeno fisiologicamente parlando.

La guerra a Milano

Ebbene sì, lettori milanesi del blog (ma ce n’è qualcuno?). Vabbè, comunque: io e il mio libercolo La guerra in cucina sbarchiamo venerdì 15 gennaio alla Libreria Centofioridi piazzale Dateo. Là alle 19 Gianluca Morozzi e Matteo B. Bianchi presenteranno me e i miei racconti, e io li ringrazierò. Accorrete numerosi: ringrazierò anche voi, firmerò le copie, stringerò mani e bacerò bambini e statuette-ricordo.

Peraltro Matteo ha anche recensito il mio libro sul numero di Linus in edicola in questi giorni: se cliccate sull’immagine la vedete grande e potete leggere le belle cose che ha scritto sui miei scritti (ops). Fatevi vivi!

Present-azioni

Capita, per diversi motivi, che questo blog si tramuti certe volte in una sorta di agenda dei cavoli miei. Abbiate pazienza e prendete nota, se vi va.
Martedì 10 novembre alle 19 al Circolo ARCI Macondo in via del Pratello a Bologna inizia YouPost, una rassegna organizzata dall’Officina Letteraria Bartleby, in cui scrittori sono affiancati da musicisti per serate di chiacchiere, letture, sbevazzamenti e mangiarini, come si dice. Io sarò accompagnato alla chitarra da Gianluca Morozzi, e andrò a leggere racconti tratti da La guerra in cucina e, udite udite, post scelti dai ragazzi di Bartleby negli archivi di questo blog. Senti l’autore che legge delle Pornovicine! Come suonerà Neighbours dal vivo? Scoprivatelo.
Mercoledì 11 novembre intorno alle 18 e 30 alla libreria Feltrinelli sotto le torri felsinee, invece, ci sarà la presentazione della collana “I libri di Belasco”, diretta da Morozzi (sempre lui), dentro la quale c’è anche La guerra in cucina (sempre lei). Insieme a me, tutti gli autori della collana, il curatore e il misterioso editore.
Bene, mi preparo per andare a Milano a vedere i Massive Attack e per prendere accordi per una presentazione della raccolta a gennaio, nella metropoli meneghina. Un’ultima cosa: è uscita la prima recensione della raccolta. La trovate qua.

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