Archivi mensili: Settembre 2011

Parliamo un po' su di noi – 5. La crisi e la Cina

Anche questa volta, amici, niente sesso: esaminiamo una mail che parla nuovamente di soldi, l’altro grande motore del mondo. Ma è una mail intrisa di Zeitgeist, lo spirito dei tempi. Eccola, per intero.

All’attenzione di:
Ti ho contattato in questo modo a causa di una operazione finanziaria che prevede un deposito di $ 17,3 a mia banca in Cina. In qualità di senior manager e l’ufficiale conto del depositante defunto, vi assicuro che questa transazione sarà fatto legalmente senza rischi per voi.
Informazioni dettagliate su questa transazione sarà inviata al tuo indirizzo quando ho ricevuto la tua risposta.

Cordiali saluti, Jan Yiun

Diciassette dollari e trenta cents. Pensate che un tempo tentavano di truffarti con mail-spam in cui si menzionavano cifre a sei zeri. “The times, they are a-changin'”.

Colpo di calore

Ieri, mentre andavo al lavoro-del-pomeriggio, sotto un sole cocente, lamentandomi per il caldo, mi sono detto, per consolarmi: “Ma quand’è, è vero, che vado in vacanza, al mare, per rinfrescarmi un po’? Quanti giorni mancano?”. Quando mi sono reso conto dell’orribile errore, mi sono pietrificato (e mi piace pensare che una goccia di sudore mi sia scivolata sulla tempia).
Freddo, vieni presto così da rendere tutto più coerente e normale.

Di |2011-09-15T08:00:00+02:0015 Settembre 2011|Categorie: I Me Mine|2 Commenti

Extreme Moviegoing

Andare al cinema: che attività pigra direte voi. E invece no: perché vedere Terraferma con accanto due anziani mezzi sordi con la mania del commento che credevano di essere nel loro salotto insonorizzato, con il quadro sfasato per i primi minuti di film e, nella sala accanto, il documentario su Vasco Rossi sparato a volumi indegni, be’, è stata dura.
Eppure sono riuscito a scriverne, sull’altro blog. Del film, eh.

Di |2011-09-14T08:00:00+02:0014 Settembre 2011|Categorie: I Me Mine|Tag: , , , , |0 Commenti

Cuori e cappellini di lana

Mi ricordo bene di quando vidi il video di “Disillusion”: più di dieci anni fa mi colpii questo bizzarro personaggio che portava la gente sulle spalle in giro per New York. Mai avrei pensato che, una decina di anni dopo, Badly Drawn Boy sarebbe arrivato nella mia trasmissione per suonare dei brani in acustico e fare due chiacchiere. È stato l’ultimo live della quarta stagione di Maps e, quella sera, Damon Gough ha suonato in Vicolo Bolognetti.
Quella che vedete là sopra è la mia recensione del concerto, pubblicata sul numero di “Jam” in edicola in questi giorni. Cliccate, leggetela, comprate il giornale. Nel frattempo, qua sotto, ecco una cover degli Smiths fatta in radio e filmata da LessTV: a momenti scoppiavamo in lacrime…

[vimeo http://www.vimeo.com/26779788 w=400&h=225]
Less tv | Badly Drawn Boy “Please, Please, Please, Let Me Get What I Want” from Less Tv on Vimeo.

Telefon

Telefon è un film con Charles Bronson che non ho mai visto, ma che vorrei vedere. Ecco a voi il trailer.

[youtube=http://youtu.be/WiLxRBSEiBY]

Come avrete capito, il film narra di una serie di cittadini statunitensi, “cellule dormienti” del KGB, che vengono “svegliati” e resi operativi da una telefonata in cui vengono pronunciate alcune parole-chiave.
Il titolo della versione on-line di Libero di ieri pomeriggio è un capolavoro di demenzialità. Però mi chiedo se l’espressione “abbassare-tasse” non sia altro che una parola-chiave tanto quanto “comunisti”, tanto sbraitata da Berlusconi.

La cigielle e la commedia dell'arte

Quando ero piccolo, la CGIL era cigielle: che ne sapevo io che quella era una sigla? Per me era un posto dove mio padre andava quando tornava dal lavoro, talvolta. Cigielle: con quella “i” dopo la “g” pronunciata senza indugi, come per dire “Tranquillo, qua la ‘i’ ci va, ma in ciliegie? Eh?”. Ho tuttora dei dubbi, con ciliegie. Per un periodo pensai anche che “cigielle”, con quella musicalità così accentuata, fosse una parola in dialetto, finché, un giorno, chiesi a mio padre che cosa faceva là, in quei tardi pomeriggi. E lui mi spiegò cos’era la CGIL. Finita la sua breve e, per forza di cose, semplice risposta, pensai che era un vantaggio avere una cosa del genere. Mi immaginavo che la cigielle mi avrebbe difeso, quando avrei lavorato. Era una cosa giusta.
Lavoro da dodici anni e ho sentito molto più vicino alla mia condizione di lavoratore “Il Club del Libro”, rispetto al maggior sindacato italiano. Perché anche quello, come gran parte della sinistra, è piuttosto miope sulla condizione reale del lavoro. Sì, esiste il NIDIL, è vero, e so che spesso ci lavorano ragazzi volenterosi, che però hanno davvero pochi mezzi.
Se la domanda è: oggi scioperi? La mia prima risposta è “No, grazie, non ho bisogno di altri libri” e la seconda è che uno sciopero generale serve se ferma il Paese per giorni. Questo sciopero il Paese lo sentirà poco. Perché? Be’, per fare un esempio a livello nazionale, le scuole non sono ancora iniziate. O anche: qui a Bologna i dipendenti ATC (azienda dalla quale io dipendo per muovermi in città) scioperano dalle 1930 a fine servizio. Quanti disagi per chi abita in periferia e non potrà raggiungere i locali del centro per un’allegra serata!
Questo modo di fare, insieme a mille altri, è però strettamente in relazione con un grande modello culturale archetipico condiviso, trasversale a ogni tipo di distinzione e schieramento: Pulcinella, la simpatica maschera della tradizione napoletana.
Un’immagine mi investe, come una visione: una moltitudine in marcia che indossa la tipica maschera nasuta; un popolo dalla casacca bianca e larga che invade le strade, riempiendole di allegria e canzoni, ma finché a ognuno va, quanto conviene, un po’ qua e un po’ là, fermando il corteo per chiacchierare, mangiare, bere un buon bicchiere di vino e, perché no, fare una pennichella. “L’allegro collasso di un Paese”, titola, per l’ultima volta, il solito giornale straniero: la foto che accompagna l’articolo ha un effetto optical notevole. Usano quella pagina per incartarmi una fetta fumante: la addento e la mozzarella ha l’effetto del loto, procura un tiepido oblio. “Cigielle, cigielle”, sento cantare in lontananza, prima di perdere i sensi e pensare: finché c’è pizza c’è speranza.

Misurare il tempo in traumi e mattoncini

Ci sono stati dei momenti della mia vita che mi hanno realmente traumatizzato: uno di questi è stato quando mia madre ha dato via tutti i miei Lego. Da questo capite che la mia vita, tutto sommato, non è stata così terribile, per fortuna. Comunque quel giorno mia madre mi disse che c’erano dei bambini poveri a cui i miei Lego (che effettivamente non usavo più) avrebbero fatto piacere: la mia inclinazione al socialismo si incrinò, quel pomeriggio.
Oggi ho finalmente di nuovo dei Lego: per ritrovare il piacere dell’inventarsi delle costruzioni, però, la mia scelta (che ha vaghissimamente indirizzato un regalo) è caduta su una delle scatole basic: quelle, cioè, che hanno solo pezzi colorati. Già, perché da quello che vedo, giocare con le confezioni di Lego più evolute, oggi, stimola la fantasia tanto quanto montare un mobile dell’Ikea (e non sono sicuro che non ci voglia pure la brugola).
L’ho visto curiosando sull’internet, dove ho trovato un sito stupendo, chiamato Brickfactory: questi pazzi hanno scansionato tutto il materiale cartaceo che ha prodotto la Lego nelle decine di anni della sua vita.
E, curiosando tra le pagine, ho trovato una delle prime confezioni davvero “evolute” che abbia mai posseduto: fu un’amica dei miei a regalarmi la Stazione dei Vigili del Fuoco. Come avere l’iPad adesso, in termini di mattoncini colorati. Andò così: quel pomeriggio io facevo i capricci e non volevo assolutamente andare in sala, dove i miei avevano ricevuto la loro ospite. Per convincermi ad “andare a salutare” mia madre mi disse: “Guarda che c’è un regalo grosso per te: la Stazione dei Vigili del Fuoco”. Che fosse di Lego non c’era bisogno di specificarlo: per quanto piccolo, immaginavo che l’amica dei miei non mi avrebbe fatto compiere il primo passo nell’investimento di immobili.
Comunque: andai di là pensando “Seh, la Stazione… Figurati se mi ha portato… Oh cazzo.” Ovviamente non pensai “cazzo”, o almeno lo spero.
Be’, rivedere le istruzioni per montare la Stazione è stato realmente emozionante: leggo sul sito che era il 1986 quando l’ebbi in mano per la prima volta, con tanto di garruli vigili (2) e segretaria solerte (1), i pupazzielli che abitavano l’edificio. E ricordo ancora l’emozione di montare le saracinesche, fatte di listelli di plastica colorata: all’epoca quello era un pezzo sofisticato, quasi di design, da maneggiare con cura. “Ho la saracinesca trasparente che si apre davvero!”
Insomma: ho aperto la scatola e i sacchetti e ho sparso sul tavolo i mattoncini.
Con i miei Lego, venticinque anni dopo la Stazione, ho costruito una specie di muretto quadrato, usando tutti e 450 i pezzi della scatola. Qualcosa che avrebbe potuto progettare, sempre nel 1986, un architetto rumeno depresso in una giornata particolarmente triste per un bando di un parco giochi (ecco spiegati i colori sgargianti) a Timisoara.
Cosa imparare da questa parabola, fratelli? Che al socialismo incrinato dalla donazione di mia madre si dev’essere misteriosamente sostituito un senso estetico da socialismo reale.

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