Archivi mensili: Aprile 2025

Dagli archivi: Bill Fay – Who Is the Sender?

Bill Fay – Who Is the Sender? (Dead Oceans)

9

Altri ascolti raccomandati
Bill Fay – Bill Fay
Bill Fay – Time of the Last Persecution
Bill Fay – Life Is People

Niente preamboli: il quarto album del musicista britannico è splendido, come il precedente Life Is People, che aveva interrotto un silenzio di quattro decadi. La squadra è la stessa, a partire dal produttore Joshua Henry: ma se le registrazioni di allora durarono un mese, qui Fay e i suoi hanno occupato gli studi londinesi di Ray Davies per un paio di settimane scarse. Incredibile, data la qualità sopraffina delle canzoni e degli arrangiamenti: Who Is the Sender? è uno degli album meglio composti e suonati che possiate sentire, ma accorgetevene dopo qualche ascolto.

Lasciate prima che i suoni e le parole vi rapiscano, infondendovi il senso di meraviglia, mistero e speranza che era tutto racchiuso in “The Healing Day” di Life Is People: quella è la canzone “ponte” tra i due album, entrambi (come del resto anche gli altri lavori di Fay) intrisi di una spiritualità più vicina alla sacralità naturale che a dogmi e rituali. Si cita indirettamente la Prima Lettera ai Corinzi in “Something Else Ahead”, compare un riferimento cristologico in “Order of the Day” e anche il “sender” della struggente title-track potrebbe essere interpretato in senso religioso. Ma, oltre la Natura, per Fay è sacro l’Uomo, con tutte le sue debolezze (“A Frail and Broken One”), la sua violenza (“War Machine”), la sua irrequietezza (“Bring It On Lord”) e soprattutto la sua musica, dono e fonte di speranza.

L’affresco sonoro dipinto dal piano di Fay assieme agli archi, talvolta accompagnati da un organo, fiati, lampi di chitarra elettrica, bassi elettrici e non e accortissime percussioni è commovente. E c’è tempo, alla fine dell’album, per riprendere “I Hear You Calling”, da Time of the Last Persecution: ci piace pensare che la fabbrica sul cui pavimento giace il narratore sia la stessa che vedono le oche dall’alto nell’apertura di questo Who Is the Sender, “The Geese Are Flying Westward”: una vertigine dello sguardo che abbraccia il tempo e lo spazio e proietta ancora una volta Bill Fay tra i grandissimi della musica.


Recensione pubblicata originariamente sul numero di aprile 2015 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: A Place to Bury Strangers – Romare. Locomotiv Club, Bologna, 17 aprile 2015

La rassegna Murato, nel suo penultimo appuntamento stagionale, porta al Locomotiv due nomi molto diversi tra loro, in una serata che è nettamente divisa per suoni, pubblico di riferimento e atmosfera.

Si comincia con l’unica data italiana (sold out) degli A Place to Bury Strangers: la band “più rumorosa del mondo” raccoglie non solo il pubblico di Bologna e della Regione, ma anche di Veneto e Toscana. “We’ve Come So Far” è il brano di apertura: Oliver Ackerman inizia da solo, poco dopo raggiunto sul palco da Dion Lunadon al basso e Robi Gonzalez alla batteria. I tre sono perfettamente amalgamati nel riprodurre sul palco l’alchimia creativa di Transfixiation: gran parte della scaletta è costituita dai brani dell’ultimo album del gruppo, scritto da tutti e tre i musicisti proprio pensando alla resa dal vivo.

Entro poco il Locomotiv è invaso dal fumo e dalle luci stroboscopiche: il bilanciamento dei suoni si affina e il concerto diventa una sorta di vortice audiovisivo che coinvolge i partecipanti nonostante il terrorismo da decibel che precede la fama della band non si concretizzi mai davvero. Non sono i volumi (per quanto alti) a emozionare, ma la perizia che il trio dimostra sul palco… e in platea, visto che (come accade ormai di consueto) il finale del live è suonato dal mezzo del locale, con i musicisti attaccati a due amplificatori, una drum machine e un rack dal quale partono laser colorati. Come se il vortice di cui sopra si fosse ridotto e i tre l’avessero letteralmente portato in mezzo al pubblico, creando una fucina elettrica in platea.

Con la seconda parte della serata si volta pagina: un solista prende il posto del trio e il rock cede il passo all’elettronica. Romare è venuto in città a farci scoprire il suo album Projections, uno degli ultimi colpi messi a segno dalla Ninja Tune. Il giovane musicista britannico, alle prese con vari macchinari, sorride timido e riconoscente al pubblico (nettamente più sparuto rispetto alla prima parte della serata, ma del resto l’ora inizia a essere tarda), snocciola brani tratti dal disco e dal precedente ep accompagnato da proiezioni che hanno due soggetti che si ripetono spesso: Robert Johnson e Chet Baker, quest’ultimo raffigurato in varie fasi della sua vita e anche in scene dello pseudo-biopic All the Young Fine Cannibals.

Rispetto all’album il live è molto più orientato al ballo e al divertimento: dal vivo Romare è meno intimista che nei pezzi in studio, i brani vengono lustrati un po’ dove serve e opportunamente interrotti e ripresi a cavallo del climax di ognuno, con uno stratagemma tipico e consolidato, ma che alla lunga mostra un po’ la corda. Il talento c’è, lui deve solo cercare di non accontentarsi sul palco, esattamente come non lo fa su disco: per quanto il concerto sia stato coinvolgente, si sono notate delle piccole incertezze soprattutto nella scorrevolezza del set. In conclusione, ci permettiamo un consiglio: usare il campionamento di una trombetta da stadio è divertente la prima, la seconda e la terza volta, ma dalla quarta in poi diventa un inutile tormentone.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di maggio 2015 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: Eels – Royal Albert Hall

Eels – Royal Albert Hall (E Works / PIAS)

7,5

Mr E e soci sono tornati alla Royal Albert Hall di Londra il 30 giugno 2014, quasi dieci anni dopo il tour “Eels with Strings”. In questo caso, però, la band ha usato – benissimo – solo le sue risorse per dare talvolta alle canzoni (per lo più tratte dall’ultimo disco) nuovi arrangiamenti, senza rimanere intimidita da quello che è uno dei templi della musica.

Everett bacia le assi del palco calcate da John Lennon, si fa amabili beffe del botta e risposta incomprensibile tra band e pubblico, si getta in abbracci senza fine con la gente in platea e si lamenta che per ben due volte gli è stato vietato di suonare l’imponente organo a canne della venue londinese. Sarà vero? La sorpresa finale è una delle chicche di questo settimo live degli Eels, fornito integralmente su due cd e un dvd.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di aprile 2015 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: Alessio Bondì – Sfardo

Alessio Bondì – Sfardo (Malintenti Dischi / 800A Records)

7,5

L’esordio di Alessio Bondì comincia con una giocosa filastrocca che pare venire da epoche antiche: però quando il musicista palermitano rassicura il bambino a cui “Di cu si” è rivolta cantando che se batte le mani “veni puru spaidermè”, il tempo fa una capriola in avanti, il vecchio diventa il nuovo e anche noi ascoltatori veniamo sorpresi da un risolino di pura gioia. Ecco, Sfardo è un disco che fa bene, anche nei momenti più lirici e dolenti che pure ci sono: del resto il titolo vuol dire “strappo” in palermitano, la lingua delle dodici tracce dell’album.

Sebbene il libretto riporti accuratamente la traduzione dei testi (con note!), non è indispensabile conoscere il dialetto per godere del disco: per Bondì la lingua dev’essere usata con la stessa accortezza riservata ai suoni che sono tanti, ma mai fini a se stessi. Sfardo rende struggenti sogni angoscianti (“In funn’o mare”) e dà credibilità e senso comico a una situazione da Fred Buscaglione in trasferta alla “Vucciria” usando intelligentemente i generi: la quasi psichedelia di “Un pisci rintr’a to panza”, i numerosi richiami alla musica brasiliana e portoghese, così come gli ovvi rimandi al folk, non sono mai semplici sostegni o imitazioni. Insieme alla lingua, sono i mezzi necessari, gli unici vestiti possibili per canzoni che vi sembrerà di conoscere da quando eravate piccoli.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di giugno 2015 de Il Mucchio Selvaggio

Torna in cima