Francesco Locane

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Dagli archivi: Sleaford Mods – Key Markets e intervista

Sleaford Mods – Key Markets (Harbinger Sound)

8

Altri ascolti raccomandati
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Suicide – Suicide (1977)

L’ottavo disco in studio del duo di Nottingham arriva dopo un anno d’oro in cui la notorietà di Jason Williamson e Andrew Fearn è cresciuta notevolmente. Ma Key Markets (si chiamava così un supermercato frequentato dal piccolo Jason nella natale Grantham) non si limita a ripetere le formule del recente e fortunatissimo Divide and Exit. Le basi di Fearn cercano altre soluzioni, per esempio: il basso-e-batteria pulsanti che si ritrovano in molte tracce diventano ancora più ipnotici e paranoici (Bronx in a Six), o quasi hardcore (No Ones Bothered), ma hanno anche modo di rallentare (Tarantula Deadly Cargo) e di tingersi di sfumature esotiche (Arabia). Musicalmente anche Williamson si espande, lanciandosi talvolta in minimali escursioni melodiche che ricordano il salmodiare crudele e ironico di Lydon.

Ma ogni riferimento è vano: gli Sleaford Mods sono unici, nella loro musica c’è tanto il post punk quanto la cultura rave, il minimalismo elettronico, l’hardcore e, chiaramente, l’hip hop. Tuttavia anche quest’ultimo genere è semplicemente strumentale alle narrazioni di Williamson, che affina ancora di più penna e lingua: l’uso di un lessico sempre più preciso, infuocato e caustico, gli permette di essere amaramente satirico e credibile pur prendendosela praticamente con tutti. Con i ricchi e i tories, principalmente, facendo spesso nomi e cognomi; ma anche con chi accetta passivamente, giorno dopo giorno, la subordinazione, lo schiacciamento sociale.

Il duo attacca chi la musica la fa e la diffonde (c’è una notevole frecciata alla popolare dj della BBC Lauren Laverne), ma anche chi si concia alla moda: “You live in Carlton, you twat, you’re not Snake fucking Plissken!” (“Vivi a Carlton, idiota, non sei un cazzo di Snake [in italiano “Iena”, ndr] Plissken”), urla in Cunt Make It Up. Una rabbia travolgente domina Key Markets, accompagnandosi alla consueta ironia che è ancora più scura e urticante del solito: ma qua e là affiorano altre sensazioni legate a un tempo ormai irrimediabilmente perso, quando, se non altro per disperazione, aveva ancora senso lottare.

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Sono in due: Andrew Fearn si occupa delle basi dal 2012, Jason Williamson dei testi dalla nascita degli Sleaford Mods, sancita nel 2007 con il primo self-titled arrivato quando Williamson (dopo svariati progetti musicali “tradizionali”) ha deciso di dedicarsi completamente al nuovo progetto. Sono quindi seguiti altri sette album, due ep e tre raccolte, una delle quali data alle stampe dalla Ipecac di Mike Patton nel 2014, l’anno che li ha visti esplodere. Negli ultimi mesi hanno incendiato i club e i festival di mezza Europa con live preceduti da soundcheck di cinque minuti scarsi, visto che sul palco hanno solo un portatile, un microfono e delle birre. Non fanno rap né davvero post punk, sebbene siano questi gli unici generi in cui si potrebbero provare a contenere gli Sleaford Mods, tanto minimali quanto abrasivi. Sono la quintessenza del Made in Britain, lontani dal posh e vicini ai pub, orgogliosi delle loro origini, ma fieramente e storicamente anti-establishment. Una voce unica nel panorama musicale odierno e in via di evoluzione: l’ultimo disco Key Markets (vedi recensione sopra) è il segno che i due quarantacinquenni (più o meno) di Nottingham non si siedono sugli allori. Non che l’avessimo mai pensato, eh. Abbiamo chiesto a Williamson come siano arrivati a questa diversificazione di ritmi, suoni e temi. “È successo spontaneamente”, ci ha scritto. “Avevamo in mente l’idea di provare nuovi approcci, ma non ci siamo troppo agitati al riguardo. Siamo semplicemente andati in studio e abbiamo registrato come sempre. Siamo una band molto essenziale e così dev’essere anche il processo di registrazione dei nuovi pezzi. Se complicassimo troppo le cose, si perderebbe la forza primaria”.

La traccia di apertura del nuovo disco, Live Tonight, comincia con i vostri fan che urlano scandendo il vostro nome. Quanto la dimensione live influenza la vostra musica e viceversa?
La musica detta la performance live e la cambia di continuo. Andare in tour è tanto importante quanto per me non proprio piacevole, ma modella ciò che la band è davvero. Il processo di registrazione è comunque del tutto separato e non penso che migliori il live

Hai detto molte volte che gli Sleaford Mods sono nati perché non ne potevi più della forma canzone e che non volevi più cantare. Tuttavia nei vostri dischi, e nell’ultimo in particolare, ci sono accenni a strutture più convenzionali e ogni tanto canti pure! Cos’è che ti fa cambiare idea in questi casi e perché?
Credo di avere trovato un modo per incorporare tutto ciò in maniera interessante e che funzioni anche con ciò che sono gli Sleaford Mods. Key Markets rappresenta per noi un nuova fase.

Uno dei vostri bersagli è la scena musicale e fate nomi e cognomi. Avete ancora dei problemi con i passaggi radio delle vostre canzoni? Cosa pensi che, diciamo, non vada nei vostri pezzi, parolacce a parte? Ve ne importa qualcosa?
No, delle parolacce non mi importa: funzionano. Abbiamo un sacco di passaggi radio. Iggy Pop manda i nostri pezzi ogni settimana, insieme a grandi dj come Tom Robinson e Gideon Cole. Quest’ultimo, poi, scende molto nei dettagli dal punto di vista delle parole, spiega alcuni particolari dei testi recitandoli dalla raccolta Grammar Wanker [pubblicata alla fine dell’anno scorso e ampiamente esaurita, contiene tutti i testi degli Sleaford Mods dal 2007 al 2014 ndr].

Hai scritto una canzone senza parolacce, Tiswas, che comunque non ha avuto il successo che forse auspicavate. Ne è valsa la pena? Qual è il vostro rapporto con il compromesso?
Spingere un disco costa e solo le grandi compagnie possono permettersi di mantenere un pezzo in rotazione. E’ tutta una questione di soldi. Ma anche qualche passaggio può essere significativo: li abbiamo avuti, continuiamo ad averli e ne sono felice. Il compromesso non c’entra: semplicemente ci sono canzoni che funzionano meglio senza volgarità.

C’è qualche band o musicista che sentite vicino per spirito o senso della verità?
No.

E allora le ospitate che avete fatto nei dischi di Leftfield e Prodigy?
Pensavo che intendessi nuove band, roba contemporanea: i nomi che citi sono in giro da anni. Sono più di parte nei confronti di Prodigy e Leftfield perché sono grandi gruppi e icone della mia generazione. Non mi pare che ci siano tante band valide oggi, tra quelle nuove nel Regno Unito. Ascolto Wiley, finita lì.

L’inglese che usi spesso è difficile per gli stranieri che pur conoscono la lingua, ma anche per i madrelingua. In Rupert’s Trousers dici “We are dreadful ignored by the well spoken few” (“Siamo completamente ignorati dai pochi che parlano bene”). Come ti servi del linguaggio e fino a che punto è infuenzato dal flow del rap statunitense?
Quel verso dice, in pratica, che le masse sottosviluppate sono burattini nelle mani dei ricchi, ignorati dal lusso dell’elitismo. Ci sono due mondi sul pianeta Terra: il nostro e il loro. Non mi preoccupo se le persone afferrino o meno i testi: faccio ciò che mi sembra appropriato, canzone per canzone. E sì, in parte è influenzato dal rap: il ritmo della parola scorre all’interno del genere.

Il modo che hai di comportarti sul palco e di raccontare storie deriva dai pub e dalla strada, dove ironia, riferimenti sessuali e aggressività sono ben miscelati. Esiste ancora un cultura della strada e dei pub nel Regno Unito?
Certo che sì, è ben radicata.

Ma il Paese di cui parli è molto lontano dalle luci della capitale: che relazione ha con Londra il Regno Unito che ci racconti?
È Londra anche quello, ma non Soho o Brick Lane: parlo delle aree più periferiche della città. È’ da qui che arrivano gli ingredienti principali, il tessuto del Paese.

Nelle tue parole emerge la rabbia quotidiana delle periferie. Nella traccia finale dici “Every house used to have one [a garden] in 1965 now look at us oh what a fucking life” (“Ogni casa un tempo aveva un giardino nel 1965, ora guarda che vita del cazzo”). Secondo te qual è stato l’ultimo periodo in cui la vita di tutti i giorni nel Regno Unito aveva ancora una parvenza di umanità?
Probabilmente fino ai primi anni ’80, ma direi con più certezza fino a tutti gli anni ’70.

Uno dei riferimenti del vostro suono è la musica che si poteva ascoltare nel Regno Unito alla fine di quel decennio: un periodo di profonda crisi sociale e politica da cui è nata tanta bella musica insieme ad alcuni problemi di cui il Paese soffre ancora oggi. Secondo te ha senso paragonare quel periodo al presente? In Giddy on the Ciggies dici “It’s no longer 1979, you…” (“Non è più il 1979, razza di…”) e poi parte una pernacchia, ma d’altro canto due fattori importanti come il revival Mods e il supermercato che dà il titolo al vostro disco appartengono a quel periodo.
Non c’è alcun tipo di revival nel nostro disco, e se quel periodo è citato nelle canzoni è perché quei ricordi mi sono molto cari. Oggi il clima è molto diverso: noi ci limitiamo a promuovere quelle immagini, mi sa. In fondo siamo più vecchi dei nostri colleghi sulla scena musicale.

Non so perché esattamente, ma ascoltando Silly Me, mi è tornata in mente una dichiarazione dei Black Sabbath: a proposito della nascita del loro suono, dicevano che, sebbene quelli fossero gli anni “giusti”, c’era ben poco di hippy a Birmingham. I vostri continui riferimenti alla morte e alla sua ineluttabilità e a un senso di depressione hanno a che fare nello specifico con Nottingham?
No, assolutamente: hanno a che fare in generale con l’esperienza del vivere, ovunque la si faccia. Si ritrovano le stesse sensazioni in molti altri posti.

Fino a che punto diresti che gli Sleaford Mods sono politici? C’è qualche movimento o pensiero nel quale vi riconoscete?
Ci riconosciamo solo nella rabbia della gente: siamo politici in quel senso, ma non in senso partitico.

Sembrate abbastanza disillusi sulla possibilità di un reale cambiamento. Cosa pensate del futuro e dell’eventuale potere delle masse?
Qualcosa sta accadendo, a dire il vero, ma non sono sicuro da che parte provenga. Arriva dal potere dei ricchi? O dalla rabbia di quelli che stanno sotto i ricchi? Non ne sono certo, ma una ribellione di qualche tipo è alle porte.

Recensione e intervista pubblicate sul numero di agosto 2015 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: Alessandro Cortini – Risveglio

Alessandro Cortini – Risveglio (Hospital Productions)

7,5

Dopo la trilogia di Forse, ecco il secondo capitolo del nuovo percorso del musicista noto per la sua militanza nei Nine Inch Nails, ma che ha un suo seguito, di nicchia e di culto, nell’ambiente elettronico più di ricerca (e valido) degli Stati Uniti, dove Cortini vive da anni. Non è un caso che Risveglio”, come il precedente Sonno, esca per l’etichetta di Prurient: dieci brani (più una drum version di “La sveglia”, uno dei picchi del disco) per un’ora di musica creata solamente con due synth/sequencer della Roland, l’MC-202 e il TB-303, e qualche effetto. Quest’economia di equipaggiamento porta a un oscuro e cupo minimalismo che però è dolce e straniante al tempo stesso e rende Risveglio un disco originale, ipnotico e pieno di fascino.

Recensione originariamente pubblicata sul numero di agosto 2015 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: Jeanne Added – Be Sensational

Jeanne Added – Be Sensational (naïve)

7

Dopo studi avanzati di canto e violoncello a Parigi e Londra e un’intensa attività nel circuito jazz francese, Jeanne Added ha spostato il suo interesse su altre forme musicali. Dopo un ep d’esordio nel 2011, all’inizio di quest’anno ne è arrivato un altro: le tre tracce, che sanciscono il sodalizio con la naïve, sono incluse in questo primo LP della 35enne di Reims. Mischiando i generi all’insegna di un minimalismo che appare più sentito che studiato, la polistrumentista confeziona un buon album, che nella prima metà gioca le sue carte migliori.

Si parte con un bel singolo, la marziale (ovviamente) “A War Is Coming”, si prosegue con la filastrocca-electro “It” per continuare con “Look at Them”, una ballata (più o meno) che prova come la nostra abbia notevoli doti canore, oltre che interessanti idee di scrittura. Qua e là appaiono derive black (“Miss It All”) e momenti pop, che però portano agli episodi meno riusciti del disco, come “Back to Summer” e la traccia di chiusura “Suddenly”. Jeanne canta di sentimenti oscuri e notti apocalittiche, collocandosi in maniera equidistante tra Fever Ray, Soap and Skin, Sinead O’Connor e FKA Twigs, pur non citandole esplicitamente. Sebbene ogni tanto il già sentito faccia capolino, si capisce che la Added ci sa fare: la strada che ha preso, salvo qualche passo falso, ci pare buona. Vediamo dove la condurrà.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di settembre 2015 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: Django Django – Born Under Saturn

Django Django – Born Under Saturn (Because Music)

7,5

Nei tre anni passati dall’acclamatissimo esordio, Vinnie Neff, Jim Dixon, Tommy Grace e Dave Maclean non sono stati fermi: oltre a una massiccia serie di concerti, gli scozzesi hanno lavorato a colonne sonore e installazioni. Una volta tornati in studio, si sono da subito resi conto che il nuovo Born Under Saturn, avrebbe avuto un suono ancora più imponente del precedente: l’apertura “Giant” è perfetta per questo disco, con una intro che ricorda i Depeche Mode meno oscuri (ripresi anche nel primo singolo “Found You”) e uno sviluppo che fonde elementi pop con le sfumature psichedeliche che paiono siano obbligatorie in ogni produzione recente.

Ma i Django Django non attingono solo a queste tavolozze; ritroviamo sia le cavalcate ritmiche (talvolta africaneggianti, come in “Vibrations”) accoppiate alle chitarre surf del primo album, sia momenti vicini a stilemi house: è lì, per esempio, che va a parare il break di tastiere del secondo singolo “Reflections”. C’è spazio anche per derive West Coast (“High Moon”) e per accenni più solenni, come nella versione del mito di Faust raccontata in “Found You”, in cui si usano suoni d’organo e si nota una certa (ironica?) sacralità nel ritornello. Quello che traspare, in generale, è la voglia di divertirsi e fare divertire: possiamo assicurarvi che i quattro, nonostante la lunghezza dell’album, ci riescono.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di aprile 2015 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: Sleaford Mods. Covo Club, Bologna, 2 maggio 2015

La chiusura della stagione 2014-15 del club bolognese è affidata al duo di Nottingham: un live scarno, essenziale e violento come una scazzottata in strada, con anticipazioni del nuovo disco.

“Bunch of Cunts”: con la canzone del recente Tiswas ep Jason Williamson saluta (o appella?) il pubblico di un Covo sold out, nell’ultimo live della stagione per il club bolognese. In questo incipit sta tutto il concerto degli Sleaford Mods, una delle espressioni più tipicamente “contemporary British” a cui possiate assistere oggi. Un’ora abbondante di ironia, rabbia, strafottenza, essenzialità e rigore che proviene dal Regno Unito dei pub squallidi e delle file all’ufficio di collocamento, lontanissimo da qualsiasi laccatura e compromesso.

sleaford modsTutto comincia quando un serafico Andrew Fearn fende il pubblico (il Covo non ha un vero e proprio backstage) e sale sul palco con sei bottiglie di birra e un portatile: la scenografia è tutta là, insieme a un microfono e uno sgabello su cui il laptop trova posto. L’uomo dedito ai beat del duo hip hop, punk, post punk, chi se ne frega, sta là fermo, come se stesse aspettando l’autobus. Non interagisce o quasi col pubblico, pur non sembrando altezzoso: un atteggiamento che manterrà per tutto il live, tanto da farci percepire una grottesca sovrapposizione con il ruolo live di Mauro Repetto negli 883 (ma Fearn balla di meno). Solo dopo diversi minuti la platea, ormai fittissima, accoglie Williamson, che attraversa la folla, si posiziona di tre quarti davanti al microfono e inizia a sputare rime violentissime, praticamente senza sosta. Si concede talvolta di ammiccare in maniera grottesca al pubblico, sculettando e fingendo di tenersi e offrirci i seni (sic).

I bassi profondi delle basi fanno tremare i muri del Covo, che presto paiono imbrattati dalle rabbiose storie di strada pubblicate in sette album, due ep e tre raccolte: ma nella scaletta c’è spazio anche per tre brani nuovi, “Live Tonight”, “Bronx In a Six” e “Tarantula Deadly Cargo”, anticipazioni dell’imminente nuovo LP Key Markets. Gli Sleaford Mods sembrano avere ripreso in pieno il “We Don’t Care” dei Sex Pistols, ma fregandosene davvero di tutto, compresa quell’eredità, quella pre e quella post. Ogni frammento di live comunica urgenza e necessità, ogni pezzo è una spinta interiore che sta tra un ruggito, una risata sarcastica e un conato di vomito. Un miracolo, considerando la reale povertà di mezzi, ma agli Sleaford Mods basta questo (e un po’ d’erba, chiesta dal palco a fine live). In quanto a noi, be’… in confronto a loro non siamo altro che un bunch of cunts, appunto.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di giugno 2015 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: Bill Fay – Who Is the Sender?

Bill Fay – Who Is the Sender? (Dead Oceans)

9

Altri ascolti raccomandati
Bill Fay – Bill Fay
Bill Fay – Time of the Last Persecution
Bill Fay – Life Is People

Niente preamboli: il quarto album del musicista britannico è splendido, come il precedente Life Is People, che aveva interrotto un silenzio di quattro decadi. La squadra è la stessa, a partire dal produttore Joshua Henry: ma se le registrazioni di allora durarono un mese, qui Fay e i suoi hanno occupato gli studi londinesi di Ray Davies per un paio di settimane scarse. Incredibile, data la qualità sopraffina delle canzoni e degli arrangiamenti: Who Is the Sender? è uno degli album meglio composti e suonati che possiate sentire, ma accorgetevene dopo qualche ascolto.

Lasciate prima che i suoni e le parole vi rapiscano, infondendovi il senso di meraviglia, mistero e speranza che era tutto racchiuso in “The Healing Day” di Life Is People: quella è la canzone “ponte” tra i due album, entrambi (come del resto anche gli altri lavori di Fay) intrisi di una spiritualità più vicina alla sacralità naturale che a dogmi e rituali. Si cita indirettamente la Prima Lettera ai Corinzi in “Something Else Ahead”, compare un riferimento cristologico in “Order of the Day” e anche il “sender” della struggente title-track potrebbe essere interpretato in senso religioso. Ma, oltre la Natura, per Fay è sacro l’Uomo, con tutte le sue debolezze (“A Frail and Broken One”), la sua violenza (“War Machine”), la sua irrequietezza (“Bring It On Lord”) e soprattutto la sua musica, dono e fonte di speranza.

L’affresco sonoro dipinto dal piano di Fay assieme agli archi, talvolta accompagnati da un organo, fiati, lampi di chitarra elettrica, bassi elettrici e non e accortissime percussioni è commovente. E c’è tempo, alla fine dell’album, per riprendere “I Hear You Calling”, da Time of the Last Persecution: ci piace pensare che la fabbrica sul cui pavimento giace il narratore sia la stessa che vedono le oche dall’alto nell’apertura di questo Who Is the Sender, “The Geese Are Flying Westward”: una vertigine dello sguardo che abbraccia il tempo e lo spazio e proietta ancora una volta Bill Fay tra i grandissimi della musica.


Recensione pubblicata originariamente sul numero di aprile 2015 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: A Place to Bury Strangers – Romare. Locomotiv Club, Bologna, 17 aprile 2015

La rassegna Murato, nel suo penultimo appuntamento stagionale, porta al Locomotiv due nomi molto diversi tra loro, in una serata che è nettamente divisa per suoni, pubblico di riferimento e atmosfera.

Si comincia con l’unica data italiana (sold out) degli A Place to Bury Strangers: la band “più rumorosa del mondo” raccoglie non solo il pubblico di Bologna e della Regione, ma anche di Veneto e Toscana. “We’ve Come So Far” è il brano di apertura: Oliver Ackerman inizia da solo, poco dopo raggiunto sul palco da Dion Lunadon al basso e Robi Gonzalez alla batteria. I tre sono perfettamente amalgamati nel riprodurre sul palco l’alchimia creativa di Transfixiation: gran parte della scaletta è costituita dai brani dell’ultimo album del gruppo, scritto da tutti e tre i musicisti proprio pensando alla resa dal vivo.

Entro poco il Locomotiv è invaso dal fumo e dalle luci stroboscopiche: il bilanciamento dei suoni si affina e il concerto diventa una sorta di vortice audiovisivo che coinvolge i partecipanti nonostante il terrorismo da decibel che precede la fama della band non si concretizzi mai davvero. Non sono i volumi (per quanto alti) a emozionare, ma la perizia che il trio dimostra sul palco… e in platea, visto che (come accade ormai di consueto) il finale del live è suonato dal mezzo del locale, con i musicisti attaccati a due amplificatori, una drum machine e un rack dal quale partono laser colorati. Come se il vortice di cui sopra si fosse ridotto e i tre l’avessero letteralmente portato in mezzo al pubblico, creando una fucina elettrica in platea.

Con la seconda parte della serata si volta pagina: un solista prende il posto del trio e il rock cede il passo all’elettronica. Romare è venuto in città a farci scoprire il suo album Projections, uno degli ultimi colpi messi a segno dalla Ninja Tune. Il giovane musicista britannico, alle prese con vari macchinari, sorride timido e riconoscente al pubblico (nettamente più sparuto rispetto alla prima parte della serata, ma del resto l’ora inizia a essere tarda), snocciola brani tratti dal disco e dal precedente ep accompagnato da proiezioni che hanno due soggetti che si ripetono spesso: Robert Johnson e Chet Baker, quest’ultimo raffigurato in varie fasi della sua vita e anche in scene dello pseudo-biopic All the Young Fine Cannibals.

Rispetto all’album il live è molto più orientato al ballo e al divertimento: dal vivo Romare è meno intimista che nei pezzi in studio, i brani vengono lustrati un po’ dove serve e opportunamente interrotti e ripresi a cavallo del climax di ognuno, con uno stratagemma tipico e consolidato, ma che alla lunga mostra un po’ la corda. Il talento c’è, lui deve solo cercare di non accontentarsi sul palco, esattamente come non lo fa su disco: per quanto il concerto sia stato coinvolgente, si sono notate delle piccole incertezze soprattutto nella scorrevolezza del set. In conclusione, ci permettiamo un consiglio: usare il campionamento di una trombetta da stadio è divertente la prima, la seconda e la terza volta, ma dalla quarta in poi diventa un inutile tormentone.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di maggio 2015 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: Eels – Royal Albert Hall

Eels – Royal Albert Hall (E Works / PIAS)

7,5

Mr E e soci sono tornati alla Royal Albert Hall di Londra il 30 giugno 2014, quasi dieci anni dopo il tour “Eels with Strings”. In questo caso, però, la band ha usato – benissimo – solo le sue risorse per dare talvolta alle canzoni (per lo più tratte dall’ultimo disco) nuovi arrangiamenti, senza rimanere intimidita da quello che è uno dei templi della musica.

Everett bacia le assi del palco calcate da John Lennon, si fa amabili beffe del botta e risposta incomprensibile tra band e pubblico, si getta in abbracci senza fine con la gente in platea e si lamenta che per ben due volte gli è stato vietato di suonare l’imponente organo a canne della venue londinese. Sarà vero? La sorpresa finale è una delle chicche di questo settimo live degli Eels, fornito integralmente su due cd e un dvd.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di aprile 2015 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: Alessio Bondì – Sfardo

Alessio Bondì – Sfardo (Malintenti Dischi / 800A Records)

7,5

L’esordio di Alessio Bondì comincia con una giocosa filastrocca che pare venire da epoche antiche: però quando il musicista palermitano rassicura il bambino a cui “Di cu si” è rivolta cantando che se batte le mani “veni puru spaidermè”, il tempo fa una capriola in avanti, il vecchio diventa il nuovo e anche noi ascoltatori veniamo sorpresi da un risolino di pura gioia. Ecco, Sfardo è un disco che fa bene, anche nei momenti più lirici e dolenti che pure ci sono: del resto il titolo vuol dire “strappo” in palermitano, la lingua delle dodici tracce dell’album.

Sebbene il libretto riporti accuratamente la traduzione dei testi (con note!), non è indispensabile conoscere il dialetto per godere del disco: per Bondì la lingua dev’essere usata con la stessa accortezza riservata ai suoni che sono tanti, ma mai fini a se stessi. Sfardo rende struggenti sogni angoscianti (“In funn’o mare”) e dà credibilità e senso comico a una situazione da Fred Buscaglione in trasferta alla “Vucciria” usando intelligentemente i generi: la quasi psichedelia di “Un pisci rintr’a to panza”, i numerosi richiami alla musica brasiliana e portoghese, così come gli ovvi rimandi al folk, non sono mai semplici sostegni o imitazioni. Insieme alla lingua, sono i mezzi necessari, gli unici vestiti possibili per canzoni che vi sembrerà di conoscere da quando eravate piccoli.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di giugno 2015 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: Nils Frahm – Solo

Nils Frahm – Solo (Erased Tapes)

7,5

Il primo Piano Day della storia è un’idea del musicista berlinese che ha deciso di festeggiare “fino a che il sole esploderà” l’ottantottesimo giorno dell’anno (il numero non è casuale, tanti sono i tasti del pianoforte), regalando il 29 marzo via Twitter un nuovo disco solista, l’undicesimo in dieci anni. I tre quarti d’ora dell’album sono l’estratto di nove ore di improvvisazione registrate nel gennaio 2014 su un M370, prototipo di pianoforte verticale alto più di tre metri e mezzo. E i ricavi della vendita delle copie fisiche di Solo servono a finanziare un’altra impresa del costruttore David Klavins, l’M450, che raggiunge i quattro metri e mezzo di altezza.

Frahm rimane insomma un sognatore e uno sperimentatore che tuttavia non perde mai di vista la musica: gli otto brani del disco (più placidi i primi, più incalzanti gli ultimi) proseguono la ricerca sul suono (stavolta senza elettronica) e sulla forma. Richiami impressionisti si intrecciano a momenti percussivi, la melodia talvolta si sposta dalla ribalta, lasciando lo spazio ad accordi distesi e all’ambiente. La peculiarità del pianoforte gigante è sfruttata al massimo, i microfoni ci fanno sentire scricchiolii, armonici e ogni minima variazione dinamica. E Nils Frahm, seguitando a non sbagliare un colpo, si conferma uno dei musicisti migliori dell’ultimo decennio.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di luglio 2015 de Il Mucchio Selvaggio

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