Francesco Locane

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Dagli archivi: The Twilight Sad – Nobody Wants To Be Here and Nobody Wants To Leave

The Twilight Sad – Nobody Wants to Be Here and Nobody Wants to Leave (Fat Cat)
6

Il quarto LP dei Twilight Sad arriva dopo un anno in cui il cantante e autore dei testi James Graham si è trovato nel tipico momento di riflessione, con annesse domande esistenziali: il “fermarsi per ritrovarsi” si è concretizzato in questo “Nobody Wants to Be Here and Nobody Wants to Leave”, registrato negli studi dei Mogwai. L’idea era quella di rappresentare le anime musicali espresse in dieci anni di carriera su disco e dal vivo: ecco quindi le scelte di autoprodursi, di usare anche in studio il fonico live Andrew Bush e di affidare il missaggio a Peter Katis, come era accaduto per il debutto “Fourteen Autumns & Fifteen Winters”.

Meno metaforici del solito, in particolare nella chiusura Sometimes I Wished I Could Fall Asleep, i versi di Graham parlano di allontanamenti, dolori, amori più o meno strazianti: il tutto cantato con passione (e arrotamento) tutto glasvegiano. L’altro membro fondatore, Andy MacFarlane, mette troppo spesso le chitarre da parte (alla My Bloody Valentine, ma lontane nel mix nella title-track), per lasciare spazio a synth talvolta dozzinali. I richiami ai Cure più grigi e brumosi sono evidenti in It Was Never the Same e i primi estratti del disco (There’s a Girl in the Corner e Last January) sono interessanti; tuttavia la cupezza di brani come In Nowheres non toglie l’impressione che gli scozzesi, questa volta, siano meno efficaci e interessanti del solito.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di novembre 2014 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: The Experimental Tropic Blues Band – The Belgians

The Experimental Tropic Blues Band – The Belgians (Jauneorange)
6,5

I membri della band disegnati di tre quarti, nello stile iconografico sovietico; intorno, pugni chiusi, raggi di sol dell’avvenir e… l’Atomium, il Manneken-Pis, birra, galli, cozze e patatine fritte. La copertina di The Belgians riassume lo spirito del quarto album del trio di Liegi: Dirty Coq e Boogie Snake (chitarre e voci) e Devil D’Inferno (batteria) costruiscono un disco a tema sul loro popolo: si comincia, come da copione, con l’inno nazionale (“La Brabançonne”) stravolto da elettricità e distorsioni (ma non siamo dalle parti dell’illustre precedente hendrixiano), si finisce con la cupa ed elettronica “Belgians Don’t Cry”. In mezzo canzoni che, tra rock’n’roll, garage e surf, parlano (male) del Paese “grande quanto un coriandolo” (cito dal comunicato stampa) e dei suoi abitanti.

L’Experimental Tropic Blues Band non fa sconti: racconta di uomini soli che si vomitano addosso nel sonno (“Belgian Hero”), del senso di impotenza nazionale (“Belgian Frustration”) e di una diffusa (tossico)dipendenza (“Weird”), fino ad avventurarsi in territori pericolosissimi, come nella ballatona folk “She Could Be My Daughter”. Non sempre focalizzato nei testi e talvolta appesantito da qualche lungaggine, The Belgians rimane un disco per lo più piacevole, che promuoviamo senza dubbio, tant’è che verrebbe la voglia di trovare un volontario che adotti questo approccio per un fantomatico The Italians…

Recensione pubblicata originariamente sul numero di dicembre 2014 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: Run the Jewels – Run the Jewels 2

Run the Jewels – Run the Jewels 2 (Mass Appeal)
8

Altri ascolti raccomandati
Killer Mike – R.A.P. Music
El-P – Cancer for Cure
Run the Jewels – ST

Il punto non è il cosa, ma il come. Già, perché Killer Mike e El-P, giunti alla seconda collaborazione nel giro di poco più di un anno (o alla terza in un biennio, se si considera R.A.P. Music), parlano di droga, sesso, problemi con la polizia, miti musicali e politici di ieri e mondo d’oggi: i contenuti del novanta per cento dei dischi rap degli ultimi trent’anni. Ma il secondo capitolo firmato Run the Jewels ha un modo di raccontare che fa sembrare il suo già ottimo predecessore, self-titled uscito la scorsa estate, una prova generale di un disco che surclassa ogni uscita di genere recente. Il connubio tra i due è eccelso e paragonabile a sodalizi come quelli tra Jay-Z e Kanye West, o Dr Dre e Snoop Dogg: eppure, per molti versi, qua si va oltre.

I suoni di El-P, pur non disdegnando qualche ammorbidimento, rimangono scurissimi, apocalittici, minacciosi: del resto lui è “a dirty boy who come down on the side dissonance / I can’t even relax without sirens off in the distances”, come dice in “Close Your Eyes and Count to Fuck”. Il pezzo, che incita alla rivolta nelle carceri, vede un featuring di Zack de la Rocha: uno dei nomi sulla guestlist di RTJ2, insieme a Boots, Travis Barker, Diane Coffee e Gangsta Boo. Quest’ultima è autrice di un contributo chiave dell’album: in “Love Again (Akinyele Back)”, la rapper ex-Three 6 Mafia dice che il suo amante vuole il suo clitoride in bocca tutto il tempo, fornendo un controcanto alle lodi della fellatio cantate da El-P poco prima.

Ecco il senso politico di RTJ2: il bersaglio è il politically correct, che però non viene seppellito da una mitragliata di volgarità fini a loro stesse. Il nuovo modo del duo è condannare la polizia raccontando in maniera realistica di un (vero) arresto (“Early”), mostrare la disperazione nel passaggio di cocaina tra uno spacciatore e una donna incinta (“Crown”), unire i lati migliori di due autori non in senso agonistico, ma puramente e pienamente collaborativo. Et voilà: i due sfornano, alle soglie dei quarant’anni, uno dei dischi migliori della loro carriera, nonché uno degli album rap più sorprendenti degli ultimi tempi.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di dicembre 2014 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: Scott Walker and Sunn O))) – Soused

Scott Walker and Sunn O)))  – Soused (4AD)
8,5

Tonight my assistant will pass among you. His cap will be empty. The most intimate, personal choices and requests central to your personal autonomy will be sung”: Soused si chiude con queste parole, contenute in “Lullaby”, già scritta per Ute Lemper. Siamo spettatori paralizzati da uno spettacolo di magia, spesso nerissima, che rapisce i sensi fino a scuoterci nel profondo; sul palco il gran mago Walker e i suoi due assistenti incappucciati. Il trio si sarebbe dovuto già incontrare per Monoliths and Dimensions, ultimo album firmato da Stephen O’Malley e Greg Anderson, che volevano la voce inconfondibile dell’ex pop star per “Alice”. Qualche anno dopo Walker li ha chiamati per arrangiare e suonare questi cinque lunghissimi pezzi che seguono quel gioiello di Bish Bosch.

Il risultato è sorprendente perché Soused contiene la musica più accessibile prodotta negli ultimi anni dai tre. Evitiamo fraintendimenti: questo è un disco minaccioso, oscuro, pesante, violento, difficile, che unisce il lirismo straziante di Scott Walker ai muri di suono e ai rumori dei Sunn O))); come se non bastasse aggiunge alla tavolozza sonora moog, fruste, sveglie digitali, altri suoni indecifrabili ma “reali” e strati di effetti. Tutto è finalizzato a una perfetta costruzione spaziale del suono per un album che unisce la fisicità di un live del duo statunitense all’incredibile perizia che Walker dimostra da anni nello stravolgere e superare il concetto di canzone, dal punto di vista lirico, melodico e armonico. Il contributo dei Sunn O))) è in questo senso perfetto: riveriscono Walker e si adattano alla sua visione artistica, innalzandola e senza compromettersi. Un miracolo? No, semplicemente uno dei dischi più stupefacenti di questo 2014.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di dicembre 2014 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: Francobeat – Radici

Francobeat – Radici (Brutture Moderne)

7

Si chiama “Radici” la comunità per disabili mentali nei pressi di Riccione i cui ospiti hanno scritto i testi del terzo album di Francobeat, nome d’arte di Franco Naddei. Un lavoro di due anni, insieme a John De Le, Sacri Cuori, Giacomo Toni, Santobarbaro e Moro (solo per citare alcuni degli ospiti del disco) per un album che tocca ogni genere e forma musicale, che racconta storie dalla forza rivoluzionaria di quelle narrate da Rodari (intorno a cui era centrato il progetto precedente di Naddei). Il poeta, in una filastrocca, diceva che “il più matto della terra vuole fare la guerra”: ci sembra l’unica definizione di “matto” accettabile, che ben poco si applica agli autori delle liriche di questo album unico, coloratissimo e fantasioso.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di dicembre 2014 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: A Winged Victory for the Sullen – Atomos

A Winged Victory for the Sullen – Atomos (Erased Tapes)

7,5

Dustin O’Halloran e Adam Witzie hanno scritto la musica, poi diventata il secondo LP a nome A Winged Victory for the Sullen, per una coreografia del Royal Ballet di Londra, andata in scena un anno fa. Tuttavia Atomos è godibilissimo anche di per sé: undici tracce (da “Atomos I” a “Atomos XII”: sì, manca un numero e nell’interno del cd, ironicamente, si scrive “Whatever Happened to IV”) costruite per lo più su violini, viola, violoncelli, pianoforte e synth modulare, suonato da Francesco Donadello, responsabile anche dell’efficace mixing del disco e di parte delle registrazioni.

I territori sono quelli dell’ambient e della neoclassica, non mancano inserti rumoristici, di elettronica e field recording; le percussioni compaiono (poco) solo in “VII”, già nell’ep omonimo uscito a aprile: una caratteristica rilevante, considerando la finalità performativa dell’opera. La musica è sospesa, per quanto ci siano meno vuoti e ripetizioni rispetto all’esordio del duo; si gioca su crescendo trascinanti, su quinte ripetute dagli archi combinate con solenni ribattute al piano, come in “VI”: il brano è uno dei vertici del disco, insieme a “X”, dove le linee dei violini ricordano Arvo Pärt. Capita che il dialogo tra piano e archi sia un po’ meccanico, ma ci sono delle eccezioni notevoli: la penultima traccia, ad esempio, porta a fusione perfetta le due anime di questo album più che interessante.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di ottobre 2014 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: Peter Selway – Weatherhouse

Philip Selway – Weatherhouse (Bella Union)

6,5

Weatherhouse, a differenza di Familial, è stato concepito con una band, per quanto ridotta: Adem (Ilhan) e Katherine Mann (meglio nota come Quinta) sono i due polistrumentisti che hanno suonato dal vivo con Selway e che hanno contribuito molto alla produzione e agli arrangiamenti della seconda prova solista del batterista dei Radiohead.

Proprio il lavoro di scrittura e produzione stacca il disco dal suo predecessore, praticamente tutto voce e chitarra: qui archi e piano sono preminenti e usati bene, insieme a una miriade di altri strumenti. Buon esempio è l’apertura “Coming Up for Air”, il pezzo migliore del disco: la giusta combinazione di elettrico, elettronico e acustico e un ritmo massiccio e quasi marziale, cadenzato, che ritorna in molti brani.

La voce di Selway ricorda nella strofa Brendan Perry dei Dead Can Dance, mentre nel ritornello si sentono echi delle sperimentazioni britanniche di fine ’80. Il fantasma dei Radiohead fa capolino in “Ghosts” (ehm) e “Around Again”, ma è comprensibile. Sorprende, in questi pezzi, il lavoro fatto sulla batteria, quasi assente in Familial, come se Selway si fosse riconciliato con il suo lavoro full-time. Purtroppo, però, la seconda parte dell’album cade nei difetti di qualche anno fa: linee melodiche piatte e testi scontati fanno tornare il disco su livelli banali, lo sviluppo delle tracce diventa prevedibile e l’entusiasmo iniziale tende a evaporare. Peccato.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di ottobre 2014 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: alt-J – This Is All Yours

alt-J – This Is All Yours (Infectious)

7

Il secondo disco è sempre difficile: se il primo vince premi ovunque e i suoi brani vengono usati nei promo della BBC; se arriva (dopo l’acclamazione) l’ovvio boomerang critico mentre supera il milione di copie vendute, e se (poco prima dell’inizio del lavoro sulle nuove canzoni) uno dei membri fondatori esce dalla band, ecco che il secondo disco può diventare più che difficile. Eppure gli alt-J rimangono quasi all’altezza del debutto, apertamente richiamato da This Is All Yours.

Ci sono canzoni più acustiche e semplici (alcune gradevoli, come “Choices Kingdom”, altre meno, come “Garden of England”) e pezzi più corposi (un singolo riuscitissimo, “Every Other Freckle”, e uno evitabile come “Left Hand Free”; il terzo, “Hunger of the Pine”, sta nel mezzo). A una “Intro” davvero notevole, giocata su strati di voci, segue un dittico legato a Nara, città sacra del Giappone nota anche per i cervi che liberamente vi pascolano: “To Be a Deer in Nara”, cantano gli alt-J, suggerendoci un’immagine interessante.

La visione di un cervo a Nara, infatti, è una stupefacente normalità come la loro musica. Tra indie, folk ed elettronica, i brani della band di Leeds sembrano “normali” eppure non lo sono del tutto. L’uso intelligente delle parole (spesso sensuali, corporee, terrene) e certi arrangiamenti e suoni spostano la forma pop in un altrove ancora in via di definizione. Noi abbiamo fiducia: nel frattempo godiamo di quello che ci offrono.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di ottobre 2014 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: Allah-Las – Worship the Sun

Allah-Las – Worship the Sun (Innovative Leisure)

7

Diciamolo subito: se vi siete crogiolati sull’esordio self-titled di Matthew Correia (batteria), Spencer Dunham (basso), Miles Michaud (voce e chitarra) e Pedrum Siadatian (chitarra), godrete anche dei quaranta minuti di Worship the Sun. Altrimenti, passate oltre: perché la formula è sempre composta da psichedelia 60’s, surf e garage, mischiati a quel suono indolente e rilassato tipico delle band che provengono dalle lande soleggiate della West Coast.

In questo secondo album troverete riverberi di chitarra che paiono vibrare insieme a quelli del sole all’orizzonte, un pizzico di malinconia, ricordi di tour, qualche tocco esotico (“Yemeni Jade”), cori che inneggiano all’amore e a ciò che ci piace pensare gli Allah-Las vedano ogni giorno: il cielo blu, i canyon (come il leggendario Topanga, dove la band ha registrato le quattordici tracce del disco), l’oceano, le ragazze-della-California.

Ci sono tre buoni strumentali che permettono ai losangelini di sperimentare con slide, percussioni e vibrafoni, una title-track semplice e efficace giocata su quattro accordi quattro, ma anche una deriva quasi-country inaspettata (“Better than Mine”). Una riproposizione di suoni del passato da parte di musicisti (ex impiegati di Amoeba) appassionati di musica dei decenni passati: operazione forse non originalissima, ma sincera e ben suonata.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di settembre 2014 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: This Will Destroy You – Another Language

This Will Destroy You – Another Language (Suicide Squeeze Records)

7,5

Chissà qual è l’“altro linguaggio” che dà il titolo al terzo album in studio del quartetto texano: ad ascoltare le otto tracce di Another Language si potrebbe immaginare che quell’“another” non indichi un’alternativa, ma piuttosto un’aggiunta. I This Will Destroy You, infatti, arricchiscono sonorità e ritmiche dell’ultimo Tunnel Blanket pur rimanendo nell’ambito di un post-rock d’atmosfera che gioca moltissimo con le dinamiche (per descrivere certi passaggi si dovrebbero usare i ppp e i fff della musica classica) e accentuano ancora di più le componenti malinconiche e inquietanti dei lavori precedenti.

Ascoltando l’album si viene travolti dall’aumento degli strati di suono e dal crescere della potenza della band, che pare non accontentarsi mai, all’insegna di un’innalzamento continuo del pathos e del volume: ad esempio nel singolo “Dustism” quello che credevamo fosse il picco (a metà pezzo) viene poi ampiamente superato nel finale. Tuttavia ci sono anche momenti più calmi, vedi il “dittico” “The Puritan” / “Mother Opiate”, tutto giocato su una linea di pianoforte che si rincorre da un brano all’altro, e sperimentazioni interessanti, come il silenzio a cui arriva “Serpent Mound” (presagio della successiva esplosione), o il gioco di eco sui piatti in “Memory Loss”. Nel suo genere un disco interessante, vario, coinvolgente e sincero.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di settembre 2014 de Il Mucchio Selvaggio

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