Savoy Truffle

La salama da sugo

Giovedì sera ho interrotto momentaneamente la vita di questi giorni, che si svolge in maniera ossessiva e ripetitiva tra qua e qua. Il tutto è iniziato in radio, giovedì mattina. Il mio amico S. mi viene vicino sorridente, con aria propositiva. Emette un verso e poi mi fa, triste: “Ah, niente, tanto stasera andrai a vedere qualcosa”. “Dimmi”. “No, è che stasera facevo la salama da sugo”.
Ora. Questa “salama da sugo” era diventata, nelle passate settimane, una sorta di animale (o mostro) mitico. Si narrano di persone il cui stomaco è esploso dopo avere mangiato la salama da sugo. Io non sapevo neanche che esistesse, ma, siccome ogni volta che qualcuno ne pronunciava il nome c’erano intorno reazioni che neanche a nominare Dracula in Transilvania, ho iniziato a temerla in maniera reverenziale anche io. D’altro canto, però, grazie al ritmo di vita di cui sopra, non riuscivo manco a mangiare. Salama = cibo (seppur pesante e pericoloso).
“Ma che scherzi? Io ci vengo da te a mangiare la salama da sugo”. E S. sorride contento.
“Chi viene? La tua ragazza…?” “Ah, no, è una serata di soli uomini, scherzi?”. Non capisco l’ovvietà, ma acconsento. E il tutto assume sempre di più le tinte di un rito di iniziazione.

Arrivo a casa di S. dopo l’ennesima proiezione verso le otto. Ci sono già F. e A., deve solo arrivare G. (scusate le lettere, ma sapete, la privacy). S. mi mostra con orgoglio una pentola, che bollicchia. La casa è invasa da un odore di cotechino, solo più forte, barocco, esagerato. “Ho fatto il purè”, dice S. (che, dovete saperlo, ormai è completamente rapito dal verbo di Allan Bay). “L’ho fatto io: ventisei patate”. “Eh”, dico io. Ma il suo orgoglio è la pentola che bollicchia. Dentro, ovviamente, c’è la salama da sugo. Ora, è evidente che molti di voi, come me, del resto, non sappiano che accidenti sia ‘sta cosa. Il punto è che la salama è tipica di Ferrara. Nel senso che qui a Bologna mica si trova facilmente. Quindi potete immaginare la tipicità.
Insomma, la salama deve cuocere “a bagnomaria” per sei o sette ore. Infatti era lì dalle due. A bollire, a farsi. Ora capite che ci mancava poco che indossassimo delle tuniche e iniziassimo a salmodiare in ferrarese. Ma come tutti i riti di iniziazione, anche questo ha le sue leggende.
“Me l’ha data la fidanzata di mio padre. Quando l’ho vista, le ho detto che era piccolissima, e lei ha replicato che era per otto persone. Ma vi rendete conto? Una salama da sugo grande così”, dice S., mostrando con le mani una sfera immaginaria del diametro di una quindicina di centimetri, “che basta per otto persone”. Cori di emozione. Intanto arriva G. e arrivano anche le ore ventuno, la salama è pronta. Rimane ancora il dubbio: ma perché si chiama “da sugo”?

Quando siamo a tavola, S. decide di abbassare le luci, ma noi commensali ci ribelliamo a gran voce (forse anche un po’ alticci): vogliamo vedere chiaramente la salama, che finalmente viene alla luce, così come la vedete nella foto. Viene aperta la pelle e presa con un cucchiaio, adagiata sul lettino di purè che ognuno ha sul piatto. S. ha messo a tavola anche del pane integrale, “così sembra che mangiamo sano”, dice. Ad un certo punto, F. ci fa notare che, se viene premuta, la salama, la sua “polpa”, produce un liquido sugoso. Iniziamo a congetturare sulla secrezione sugnica (mi si perdoni il neologismo) e concludiamo che, in realtà, ha senso dire “la salama sugo”: è bello, suona arcaico, come un detto popolare. E continuiamo a metterci pezzi di salama nel piatto.
Finisce in tempo brevissimo, ovviamente, nel silenzio interrotto soltanto dal rumore del vino versato e bevuto e dai mugolii di godimento. Ah, no, c’è anche qualcos’altro che spezza il silenzio, sempre di più mano a mano che la salama finisce: i commenti sprezzanti, del tipo “beh, ma io pensavo peggio”, “va giù che è un piacere, ma quale pesante” e cose del genere.

Forse sarà il vino, forse la stanchezza, ma alle undici e mezza siamo completamente cotti. Morti di sonno e svaccati sul tavolo o sui divani.
Torno a casa e vado a letto. Alle quattro e trenta mi sveglia una sete mortale, e mi accorgo che piumino, lenzuola e copriletto sono annodati con una perizia da fare invidia ad un vecchio lupo di mare. Insomma, sonni decisamente agitati. Non ammetterò mai che è stata colpa della salama. Mi addormento e sogno di andare in bagno a bere. Mi specchio e, al posto della testa, ho una salama da sugo.
Se la sarà presa per i commenti sprezzanti, sicuro. E sono altrettanto sicuro che il silenzio, la prossima volta (speriamo sia presto, eh, S.?) verrà interrotto solo da qualche preghiera, nella lingua estense, ci mancherebbe.

Di |2004-01-17T00:42:00+01:0017 Gennaio 2004|Categorie: Savoy Truffle|Tag: , , , , |13 Commenti

Liste

A me le liste mettono angoscia. La stessa angoscia che mi mettevano i compiti di matematica al liceo, perché la matematica è “perfetta” ed “esatta”. La stessa angoscia che mi mette il contoallarovescia a capodanno. Non mi piacciono le liste di dischi, né quelle di film. Non mi diverte farle, non so perché. Mi capita spesso, date le mie presunte conoscenze cinematografiche, che qualcuno mi chieda, in maniera del tutto innocente, “Qual è il tuo film preferito?”. Non lo so. Non lo so, smettetela di chiedermelo. Posso dirvi, forse, qual è il mio film preferito di un regista X, ma, per esempio, se mi chiedete qual sia il mio film di Kubrick preferito, non lo so. Non ne ho idea. Forse, oggi, adesso, alle quattro del mattino, Arancia Meccanica, ma poi, magari, domani sarà 2001.
Non faccio liste di dischi del 2003. Intanto perché sono indietro con la musica di almeno cinque anni, ma forse anche di più. E poi per i motivi di cui sopra. Intendiamoci: non ce l’ho mica con quelli che fanno le liste (anche perché se no dovrei togliere almeno la metà dei link dal mio blog).
Ma non tutte le liste mi mettono angoscia. In questa fase della mia vita, in cui i pagamenti per i lavori che faccio e che ho fatto non arrivano, e quindi sono senza una lira (amici, scordatevi anche il pensiero di un regalo di Natale), c’è una lista che mi fa sognare. La lista della spesa. Eccola qui per voi.

pasta (de cecco): non dimenticare di prendere i bucatini, le linguine, oltre ai formati classici;
pane (magari di altamura, francese o pugliese);
polpa di pomodoro (la passata no, meglio la polpa);
acciughe (evitare di dimenticarsele al supermercato);
uova (ma una confezione da sei basta: non ne mangio tante);
carne macinata (il ragù!);
aglio, cipolla e altri aromi e aromini;
tonno in scatola (all’olio d’oliva, quello al vapore mi sa di malato: fissazioni);
olive nere con nocciolo (quelle senza sanno di plastica: vedi sopra);
pancetta (meglio se in pezzo unico, da tagliare, ma anche a dadini va bene: affumicata per la carbonara, normale per l’amatriciana);
formaggi vari (non dimenticare la mozzarella, il gorgonzola e il pecorino);
verdure varie: insalata, pomodori, radicchio e del finocchio da sgranocchiare, melanzane e peperoni (anche se non è stagione);
patate;
funghi porcini secchi;
pomodori secchi;
del pesce buono (se c’è);
carne, ma poca;
frutta in quantità;
latte;
caffé (magari non illy, ma insomma…);
biscotti di vari tipi, basta che in qualcuno ci sia del cioccolato;
fette biscottate (non integrali);
marmellata (pesca, albicocca, fragola, mirtillo, arancia);
succhi di frutta (gusti come sopra, più pompelmo e senza fragola, per carità);
nutella (se proprio siamo in fase perversa);
cacao solubile (ma non nesquik, niente roba della nestlé, anche se è difficilissimo trovare un cacao solubile anche nel latte freddo che non sia della nestlé);
varie ed eventuali…

… tanto in ogni lista, alla fine, si finisce per dimenticare qualcuno o qualcosa, no?

Regalo (per voi che leggete)

Se fossi giulio mozzi, vi racconterei per filo e per segno cosa sto andando a fare a Milano per il fine settimana. Anche perché un po’ giulio mozzi c’entra. Invece, siccome me ne sarò via fino a lunedì, vi lascio un dono culinario. No, nessun link da cliccare e poi vi viene fuori dal lettore cd una torta al cioccolato. Ma questo. Che, in parte, c’entra con uno dei motivi per cui sono a Milano.

Pasta col cavolfiore al forno

Dosi per quattro persone: 400 grammi di pasta corta (dipende da quanto mangiate, ovviamente) tipo tortiglioni, penne rigate, sedani; 900 grammi circa di cavolfiore molto fresco; due spicchi d’aglio; sei filetti d’acciuga sott’olio; una manciata di capperi sotto sale; olio e parmigiano quanto basta.

Pulire il cavolfiore togliendo le foglie esterne e il torsolo più duro, tagliarlo a cimette, sbucciare la parte tenera del torsolo e tagliarla a fettine. Mettere tutto a lavare in acqua fredda. In un tegame basso e largo mettere l’olio, i capperi ben lavati le acciughe e l’aglio (non tritato), quindi aggiungere il cavolfiore senza scolarlo troppo. Porre il tegame sul fornello a fiamma media e mescolare per distribuire bene gli ingredienti. Quando l’olio si è ben scaldato, abbassare la fiamma e mettere sul tegame un coperchio. Lasciare cuocere lentamente mescolando di tanto in tanto, badando che non si asciughi troppo. Le acciughe, l’aglio e parte del cavolfiore si devono disfare, ma senza che si spappolino. Assaggiare per regolare di sale (che va messo dopo).
Cuocere la pasta al dente, scolarla e mescolarla al cavolfiore. Ungere una teglia con un po’ di olio, versare la pasta condita, livellare e cospargere di parmigiano grattato. Mettere nel forno caldo e fare gratinare.

Fatemi sapere. Buon appetito e a lunedì.

Francesco prepara il suo famoso piatto, i testicoli di porco flambè, ad una simpatica coppia di clienti nel suo ristorante di Pasadena. O di Seattle. Non ricorda.

Di |2003-11-07T02:15:00+01:007 Novembre 2003|Categorie: I Me Mine, Savoy Truffle|Tag: , , , |7 Commenti

Evitate i grassi

E non solo, anche le bevande alcoliche, bevete molta frutta e mangiate molta verdura. Questo è quello che dicono sempre i dietologi, o meglio, coloro i quali hanno una cattedra in Scienze dell’Alimentazione, qua e là, in qualche università del nostro bel paese. Lo dicono quando vengono intervistati, almeno una volta alla settimana durante l’estate, da quel supplemento geniale e utilissimo che è “TG2 Costume e Società”. E io prendevo sempre in giro queste persone dicendo “Ma chi vuoi che si mangi la trippa al sugo a Ferragosto?”. E invece…
5 agosto 2003, Corsica orientale. Ristorante “Chez Felix”. Siamo in quattro e prendiamo da mangiare due menù. A coppie.

  • Antipasti: salumi tipici corsi/patè
  • Piatto principale: spezzatino con polenta/arrosto di maiale con salsicce e fagioli
  • Formaggi (una specie di piatto/totem grande quanto una pista delle macchinine)
  • Dolce (i miei amici ci hanno dato dentro, io, lo ammetto, ho preso una macedonia. Avevo paura di morire)
  • Vino rosso della casa: incazzatissimo
  • Liquore alle castagne: quando l’abbiamo odorato abbiamo pensato di fare testamento. Poi, invece, si è rivelato meno violento di quello che si pensava.

Ieri, 19 agosto 2003, un ristorante in corso Regina Margherita a Roma. Siamo in due. E abbiamo fame. E, evidentemente, è troppo tempo che non guardiamo “Costume e società”.

  • Antipasti: crostini vari/fritto misto
  • Pizza: due. La mia amica aveva ordinato una pizza di cui non ricordo il nome. Il cameriere l’ha guardata in maniera strana per dissuaderla. Lei ha cambiato ordinazione. Da quel momento (e nei momenti successivi) la scena di riferimento è quella del ristorante in Monty Python – Il senso della vita
  • Birra: due, medie. Io chiara, lei rossa. Così, tanto per essere precisi.

Sorpresa finale: il cameriere ci ha presi in simpatia e ha deciso di offrirci qualcosa dopo cena. E voi direte: il classico limoncello? Ma no, banali che siete! Vin santo e cantucci.
Secondo me hanno tentato di ucciderci. Ma non ce l’hanno fatta.
P.S. Ehm, non date molta importanza al fatto che ieri non ho postato niente. Ero… stanco. Fra un po’ me ne vado all’Aquila. A domani sera.

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