Things We Said Today

La visione della RAI da vicino

Dovevo andarci martedì, invece, causa sciopero dei treni, è stata la giornata di ieri a farmi vedere la Rai da dentro, per la prima volta.
Come un vero professionista, ho preso il mio bell’Eurostar da Bologna alle dieci meno un quarto, per arrivare a Roma alle dodici e trenta.
Come un vero professionista, l’Eurostar ha ritardato di dieci minuti.
Come nei film, c’era la coda per i taxi.
Come un vero professionista, ho varcato le soglie di via Asiago 10 alle tredici e ventinove esatte. Ho detto il mio nome, hanno fatto una scansione della mia carta d’identità, mi hanno dato un pass (che però si dice passi, congiuntivo ottativo?), ho provato a passarlo nel lettore perché si aprissero le porte, dopo qualche tentativo, finalmente, sono entrato in Rai. Detta così sembra che avessi in mano un contratto. In realtà avevo in mano solo il passi, che, non so per quale motivo, aveva scritto sopra “scadenza alle 1334”. Per un momento ho pensato che avrei finito il resto dei miei giorni nelle stanze dell’azienda, tipo The Terminal.
In Rai tutti ti guardano con interesse, forse perché pensano che tu sia qualcuno di famoso. No, lo dico perché anche a me sembrava di avere già visto da qualche parte le facce che ho incrociato: cosa assurda, visto che, con ogni probabilità, era tutta gente che lavora in radio.
Comunque, sono salito al quarto piano e lì ho incontrato Violetta e la redazione di Atlantis. Qualche chiacchiera, poi abbiamo registrato i miei pezzi, che andranno in onda la prossima settimana, credo.
Alle due del pomeriggio ero già con Violetta a mangiare un tramezzino.
Alle due e cinquanta ero già sul treno per Bologna, sì, come i veri professionisti.
Trenitalia, però, ha surclassato il professionismo dell’andata, e quindi l’Eurostar è arrivato con mezz’ora di ritardo. Non ventinove minuti, trenta: scatta il lauto rimborso, per una cifra, presumo, intorno ai nove euro.

La stessa, guarda un po’, che serve per portarvi a casa questo.
Io lunedì parto per la Slovenia, come annunciato. Ma spero, prima di regalarvi una puntata di Referrers. Non assicuro niente, anche perché se continua questo caldo mi fonderò con la tastiera, come in una versione aggiornata de Il pasto nudo.

Statemi bene.

Ricapitar, infine, nella Capitale

Dall’arguto titolo, lo avrete intuito, me ne vado a Roma. “Ma come”, dice, “te ne vai a Roma adesso? E la paura degli attentati?” Fatevi un giro dal mio fratello di parole, che, oltre ad ospitarmi, ha scritto un post proprio su quello che potrebbe succedere a dei terroristi a Roma.
Incontri previsti: sciampiste in via del Corso, Pulsatilla, che ha millantato di portarmi a mangiare il migliore tiramisù d’a Capitale, due miei cugini, di cui uno straordinariamente rassomigliante a Silvio Orlando, lei, e… chiunque altro voglia aggregarsi alla compagnia mi scriva.

Ah, importante. L’intervista a Tori Amos andrà in onda in tutto il territorio italico durante la puntata di lunedì 18 di “30° all’onda“, dalle 14.30 alle 15.30. Qui e qui le istruzioni per ascoltarla. Statemi bbuono.

Update. Se ve la siete persa ieri, potete sentire l’intervista qui, in streaming.

Ma l’intervista è anche qua!

Come il maiale: un post dove non si butta via niente

Del concerto di ieri dei Sonic Youth e Fantômas a Ferrara non vi dico molto, non ho voglia. Ma, lo ammetto, è stato un concerto strano. I Fantômas sono stati meno bravi della loro apparizione a Bologna. I Sonic Youth, beh, che dire: hanno iniziato nervosetti e hanno concluso alla grande, con un pubblico esaltato come non mai. Un concerto più sporco e meno precisino dell’ultimo che ho visto. Non so se più bello, difficile a dirsi.
Ma la città delle biciclette in questi giorni mi vede di continuo: anche domani, infatti, sarò a Ferrara, al Mel Book Store alle 1830 per presentare l’ultima fatica di quel bel guaglione di Gianluca Morozzi, L’era del porco. Poi andremo a cena, spero, e quindi ci godremo il concerto gratuito di The Faint e Bright Eyes.
Morozzi sarà anche ospite (telefonico) dell’ultima puntata di Monolocane, in onda come al solito giovedì dalle 2230 sui 96.3 e 94.7 MHz bolognesi e provinciali, o se no in streaming qui e qui.
Sulle stesse frequenze, invece, va in onda tra cinquanta minuti circa l’ultima puntata di Seconda visione, in attesa del Gran Galà di martedì prossimo.

Scusate la scarsa fantasia, ma oggi toccherò le undici ore di lavoro. Per ora scrivo queste righe, perché sono a sei, circa.

Ecco l’intervista a Gianluca Morozzi!

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Questa sera tutti da Beck, è festa ye-ye* (Considerazioni sparse e frammentarie, come sempre dopo le feste ben riuscite)

La rassegna “Ferrara sotto le stelle” dà sempre gioie infinite, ma il concerto di ieri di Beck è stato qualcosa di più.
Hanno aperto i Raveonettes, ma non me li sono filati più di tanto: la mia attenzione è stata presa da tre cose, infatti. La prima è stata rendermi conto di quanto il batterista assomigliasse a Micheal Stipe. La seconda, capire se la cantante mi piacesse o meno (alla fine ho capito che non mi piaceva). La terza, capire a che animale assomigliasse un’americana che stava vicino a me: ancora non sono giunto a conclusione.

E poi è arrivato Beck.

Mancava solo il piffero che suonavo alle medie. Beck ha un approccio totale verso la musica: il palco è stracolmo di strumenti, almeno due set di percussioni attive, ma anche diamoniche, sintetizzatori e tastiere, bidoni di latta, ogni possibile variante delle maracas, bassi, chitarre, banjo (suonati per finta), rumori fatti con la bocca, na na nannannanna na na, tamburelli, tutto. E anche i generi toccati sono moltissimi, ma questo, di Beck, già si sa. Egli (adoro scrivere “egli”) rappa, canta, parla, salta, danza. Tutto. Si diverte e fa spettacolo, uno spettacolo totale.

Quanti Losers. Quando iniziano gli accordazzi slide, penso che, allora, la fa. La canzone che l’ha fatto conoscere nel mondo intiero è accompagnata da una foto dell’epoca di Mellow Gold (e non è che il signor Hansen sia cambiato molto, poi). Ovviamente tutto il pubblico canta a squarciagola il ritornello. O, sigh, qualcos’altro…

Intermezzo. Sono vittima di una persecuzione, da tempo: a qualsiasi concerto io vada, dietro di me ci sono sempre degli ubriachi, piuttosto imponenti fisicamente e di solito di origine veneta, che riescono in alcune imprese:
1. tenere a voce altissima un discorso che fondamentalmente prevede una persona A che dice “la conosci questa?” e una persona B che dice “no”: beh, riconosco loro una certa capacità dialettica e polmonare, visto che un dialogo del genere dura almeno venti minuti e riesce ad essere perfettamente udito nel raggio di cento metri, senza badare ai watt emessi dagli amplificatori;
2. usare le canzoni che sono suonate al momento per intonarci su cori da stadio o, più semplicemente, insulti di vario tipo, a caso o verso qualche particolare nemico del gruppo di alcolizzati: il tutto sempre ai toni indicati al punto uno;
3. nel momento in cui qualcuno fa notare loro che, insomma, vorrebbero sentire il concerto e non “daimoruzzifacciilgol, facciilgooooooool”, diventano educatissimi, chiedono scusa e stanno zitti: per un minuto esatto, per poi ricominciare esattamente come prima.

Heart. Beck ama la chitarra acustica, e tocca la vetta più alta del concerto quando riprende la sua cover di “Everybody’s gotta learn sometimes”, in maniera ancora più intima che nella colonna sonora di Eternal Sunshine. E io ho già gli occhi lucidi. Niente in confronto ad uno al mio fianco che, quando si passa al pezzo successivo, e poi a “The Golden Age”, scoppia in lacrime. Appena però gli altri componenti del gruppo, seduti ad una tavola apparecchiata, iniziano ad usare piatti, bicchieri e posate per accompagnare il brano, urla tra le lacrime “Stronzi” e si copre il viso con le mani. Mah. Secondo me è uno che è stato traumatizzato dal concerto del 1980 degli Skiantos**, e appena vede delle stoviglie su un palco impazzisce.

All Tomorrow’s Parties. Alla fine del concerto, salgono una ventina di persone del pubblico e, finalmente, mentre tutti ballano intorno a me, e sul palco, e tutti suonano qualcosa o percuotono qualcos’altro, capisco di essere ad una delle feste più divertenti della mia vita. Uscendo, effettivamente, nessuno usa la parola “concerto” e nessuno si preoccupa di avere fatto casino a casa Beck. Non vedo l’ora che mi inviti di nuovo. Magnifico.

* Il titolo è un omaggio ad una trasmissione radiofonica meravigliosa, che però non c’è più.
** Freak Antoni parlerà dei Beatles proprio stasera, dalle 2230, nella penultima puntata di Monolocane, una trasmissione radiofonica un po’ meno meravigliosa, che potrà essere ascoltata qui o qui. Perché dei Beatles? Perché esattamente quarant’anni fa facevano la loro prima e unica comparsa in Italia. Sì, ogni occasione è buona, ‘mbè?

Ecco l’intervista a Freak Antoni!

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Ani Difranco a Monolocane!

Stasera, a Monolocane, riproporrò l’intervista telefonica che ho fatto martedì a Ani Difranco, già andata in onda a Patchanka. Una chiacchierata di una decina di minuti, in cui si è parlato molto di Knuckle Down, l’ultimo disco di Ani, ma anche della difficoltà di rendere poetica l’espressione “corporazione multinazionale”.
Dalle 2230 alle 0030 sui 96.3 o 94.7 MHz di Città del Capo – Radio Metropolitana, se stasera siete nei regi confini bononiensi. Se no, potete sentire il tutto in streaming dal sito della radio o su RadioNation.
(Se stasera andate a sentirla a Milano, beati voi. Potrete recuperare l’intervista da venerdì sulla pagina del programma, come al solito.)

Ora qui!

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Nicoletti reloaded: waiting for the (blog) revolution

Stasera a Monolocane, intervista con Gianluca Nicoletti, l’uomo che fece incazzare i bloggers. Cioè, spero di intervistarlo. Nel senso che ho un appuntamento telefonico intorno alle undici, quindi tra meno di due ore. Se avete domande, suggerimenti di domande o risposte, fatevi sotto nei commenti.
A stasera, quindi. Dalle 2230 alle 0030 sui 96.3 o 94.7 MHz di Città del Capo – Radio Metropolitana, se vivete a Bologna. Se no, potete sentire il tutto in streaming dal sito della radio o su RadioNation.

Aggiornamento. Sulla pagina del mio programma potete sentire l’intervista completa, in Real Audio.

Ecco l’intervista!

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The Monolocane Sessions (John Peel, si fa per scherzare, eh)

Puntata decisamente speciale quella di Monolocane di stasera. Infatti, saranno miei graditi ospiti in studio Jonathan Clancy e Bruno Germano dei Settlefish, che presenteranno per la prima volta in radio alcune tracce del loro ultimo disco The Plural of the Choir, in uscita tra pochissimo per Unhip records, in versione acustica.
Roba grossa, amici. E delicata allo stesso tempo, come piace a noi.
Dalle 2230 alle 0030 sui 96.3 o 94.7 MHz di Città del Capo – Radio Metropolitana, se pasteggiate a lambrusco e tortellini. Se no, potete sentire il tutto in streaming dal sito della radio o su RadioNation.

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Tutta la Farina del suo sacco (sapevo che non avrei resistito)

Stasera a Monolocane, intervista esclusiva (sì? Mah, non so, mica sono il primo che lo intervista…) a Geoff Farina, il leader dei Karate. Una decina di minuti di chiacchierata, in cui abbiamo parlato, tra le altre cose, di Bob Dylan, Ernest Hemingway, Chris Brokaw, Leonard Cohen, Frank O’Hara, del concetto di “indie”, della soluzione al non saper cantare.
Dalle 2230 alle 0030 sui 96.3 o 94.7 MHz di Città del Capo – Radio Metropolitana, se per voi Sirio non è solo una stella. Se no, potete sentire il tutto in streaming dal sito della radio o su RadioNation.
Ah, per voi che non potete sentire la trasmissione in diretta, ma vi piacerebbe tanto sentire l’intervista: tranquilli. Entro un paio di giorni sarà pubblicata qua.

Ecco l’intervista!

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Bla bla bla zum zum zum

Mi rendo conto che, se prestassi sempre la dovuta attenzione alle cose che capitano intorno a questa radio, la maggioranza dei miei post avrebbe contenuti simili a questo.
Insomma, è capitato di nuovo. Suonano intorno all’ora di pranzo, in radio non c’è quasi nessuno. Vado ad aprire: è una ragazza di un corriere postale che deve consegnare un pacco. Dopo le solite formalità (“Dove devo firmare?” “Dove c’è scritto ‘firma’”), la ragazza mi fa la fatidica domanda, se possibile in forma ancora più astratta: “Ma voi siete una radio?” “Sì” “Ma proprio una radio?” “Eh, sì”
Dopo un momento di riflessione, aggiunge: “Quindi, diciamo, trasmettete bla bla bla…”
Io, dopo un momento di riflessione, concludo: “Sì, ma ci mettiamo della musica in mezzo.”

Bla bla bla e zum zum zum è il contenuto della puntata di stasera di Monolocane. Dalle 2230 alle 0030 sui 96.3 o 94.7 MHz di Città del Capo – Radio Metropolitana, se siete dalle parti della città felsinea. Se siete altrove, potete sentire il tutto in streaming dal sito della radio o su RadioNation.

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Di |2005-02-17T10:35:00+01:0017 Febbraio 2005|Categorie: Things We Said Today|Tag: , , , |3 Commenti

Radio Days

La percezione che ha la gente di te che lavori in una radio, tutto sommato non enorme, è strana. Qualsiasi cosa tu faccia, vieni immediatamente identificato con la musica. E fin qua, niente di male. Il problema è che la gente pensa che tu, nei confronti della musica abbia infinite risorse, potere e onniscenza.

Qualche giorno fa suona all’ora di pranzo l’omino che ci porta le pizze, i panini o quello che è. Io e la mia collega E. andiamo a pagare. E lui inizia con la frase d’apertura magica e rituale: “Voi che lavorate in radio”.
“Voi che lavorate in radio,” ci dice, “sapete, io ho una sorella che canta. Canta piuttosto benino. Magari, ho pensato, potrebbe…” Sguardo interrogativo mio e di E.
“No”, continua l’omino, “magari potreste avere bisogno di qualcuno che vi canti dei jingle, non so.”
Non diciamo niente.
“Brava è brava, eh, pensate che è voce solista in un coro.”
E. rompe il silenzio: “Ah, però. Ma sai, noi i jingle, di solito, ce li facciamo da soli…” Questo non basta a farlo desistere.
“Sì, però, magari lei…”
“Non abbiamo molte risorse”, dice €., tentando di fargli capire. Capisce. Ed esige immediatamente che gli paghiamo il conto, pensando che le nostre risorse siano veramente poche.

Stamattina, invece, mi ferma uno spazzino, piuttosto giovane.
“Tu lavori in radio?”, mi chiede mentre sto sulla soglia della radio, appunto.
“Sì”, rispondo io.
“Senti, io ho una cassetta con delle canzoni da discoteca degli anni ’90, diciamo dal 1990 al 1994. Non è che potresti darmi una mano a capire quali siano? No, perché qualcuna è veramente bella, vorrei scaricarmela, ma non so come si chiama.”
Io rimango di sasso, pensando al corrispondente concreto del concetto di “bellezza di una canzone da discoteca dei primi anni novanta”: il vuoto, il nulla. Ma lui viene in mio aiuto.
“Ce n’è una bella degli Hocus Pocus, li conosci?”
“Sì”, dico io con sicumera.
“Eh, ma attento: non ce n’è mica solo uno di gruppo che si chiama Hocus Pocus. A me piace quella che inizia con un elicottero, e poi fa bau – ci bau – bau
“Non la conosco”, dico.
Lui pare deluso e sta per andarsene, ma ha un guizzo. “Senti, non è che avreste un paio di piatti usati da vendermi?”

Come epilogo, l’episodio a cui ho accennato qui.
Dunque, Howe Gelb è ospite della trasmissione dell’amico FedeMC e della suddetta amica E. Fa il suo bel minilive per promuovere il concerto che terrà quella sera al Covo. Esco dall’ufficio dove lavoro e lo vedo parlare con E., e canticchiare.
“Vuole suonare ‘Nel blu dipinto di blu’, stasera”, mi dice E. Mi accorgo che quello che ha davanti è il testo delle prime due strofe della canzone, trascritte a memoria da E. Guardo Howe Gelb, e gli chiedo: “Why?” “Beautiful song”, risponde lui. E mi chiede se ho gli accordi. “Forse in rete si trovano”, dico, e poco dopo torno con la bella stampata degli accordi dell’immortale canzone di Modugno. Io ed E. continuiamo a chiedergli se è sicuro di volerla cantare, gli diciamo che forse è meglio di no.
“Ma perché?”, dice lui. “E’ una canzone splendida!” E allora noi a spiegargli che, sì, è bella, ma l’hanno cantata tutti, è molto tradizionale…
“Forse è un po’ simile ad ‘American Pie'”, dico io, cercando un brillante parallelo, ma lui non pare convinto.
“Ho capito che tipo di canzone è: non come ‘American Pie’, ma…”, dice lui.
Momenti di silenzio.
“Ho trovato!”, esulta Howe. “Secondo me è un po’ come ‘New York New York'”, e ride, mentre mima gli accordi della canzone di Modugno su un’immaginaria tastiera di chitarra.

Appendice. Ho capito di che canzone parlava l’appassionato di musica dance dei primi anni novanta: la trovate qua sotto, se proprio dovete. E poi: non sono stato al concerto dei Giant Sand al Covo, ma mi hanno detto che, alla fine, Howe Gelb non ha cantato “Nel blu dipinto di blu”. Pare che vi abbia solo accennato, prima che partissero i fiati di “New York New York”.

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