arroganza

Words disobey me

Intorno alla metà del 2010 siamo venuti a conoscenza che il Pop Group era tornato e che avrebbe suonato una delle pochissime date di un mini-tour a Bologna. Con la redazione di Maps ci siamo, ovviamente, messi a caccia di Mark Stewart, uno dei personaggi più bizzarri e potenzialmente controversi della musica degli ultimi trent’anni.
Eravamo davvero emozionati dalla possibiità di vedere la band dal vivo e di realizzare una delle prime interviste con Stewart di nuovo alle prese con il Pop Group, una band che ha realmente avuto un effetto devastante sulla musica cosiddetta “post punk” relativamente ai due soli album prodotti, nel 1979 e 1980.

Settembre 2010: è il giorno prima del concerto e abbiamo appuntamento al Locomotiv, il club che ospiterà il live. L’appuntamento per l’intervista (richiesta e ottenuta come intervista video) salta. Panico. Arriva la telefonata da uno degli organizzatori: “Tra dieci minuti va bene?”. No, non ce la possiamo fare fisicamente. Chiediamo un posticipo e lo otteniamo. Ma l’incontro è da tenersi in una lavanderia a gettone. “Eh?”, dico io. “Eh”, dicono dall’altra parte e mi danno l’indirizzo del posto.
Arriva il fido P. e saltiamo in macchina, diretti al Locomotiv, quando arriva un’altra telefonata: Mark Stewart è ancora nel locale che fa le prove. Lo intervistiamo là. Il Pop Group è sul palco, ma mi costringo a non prestare troppa attenzione a quel che sento, perché non voglio rovinarmi la sorpresa della sera.
Mark Stewart è enorme: non come statura artistica, ma fisica. Sapevo che fosse imponente, ma non credevo lo fosse a tal punto. Un omone, che scende dal palco, non saluta nessuno, vede P. che fa prove di esposizione con la macchina digitale e gli dice molto bruscamente che non vuole scatti. P. dice che non sta facendo una foto, ma Stewart lo interrompe ancora e se ne va.
Arriva il fonico del concerto, un amico: “Simpatico, eh? Lo stavo mandando a quel paese, prima, per come mi ha risposto.”
Benissimo: questo primo approccio non è buono, per usare un eufemismo.
Gi organizzatori ci dicono che l’intervista si svolgerà fuori dal locale. Noi ci sediamo a un tavolino, aspettando Mark Stewart, che non si sa dove sia. Finalmente arriva, ordina un tè, sempre senza degnare nessuno di uno sguardo, capisce che l’intervista è video e dice di non poterla fare, perché non ha magliette pulite. Noi cerchiamo di ribattere, ma lui dice che lo possiamo portare in una lavanderia (quella del primo appuntamento, ecco perché!) e fare l’intervista là. Ci alziamo quando il povero organizzatore esce dal bar vicino al club con un vassoio e un tè. Stewart riesce a dire al tour manager “Pagalo” e poi ci guarda, come per ordinarci di affrettare il passo.
In macchina Stewart mi chiede di anticipargli delle domande. Sono domande normali, a mio avviso: mi sentivo preparato, poi, che c’entra, sono il giornalista che sono. Comunque: l’omone, seduto sul sedile posteriore, mi costringe a torsioni del collo per comunicargli le domande. Dopo la prima, mi dice “Rubbish”. Monnezza. Non risponde neanche. “Passa alla seconda”, dice, con aria di sufficienza.
Ma anche quella non gli va bene. Al terzo rifiuto, mi altero io. “Scusi”, gli chiedo, “ha intenzione di essere collaborativo o no? Perché quest’intervista non è obbligatoria.” Per la prima volta Stewart si ammorbidisce un po’, e, in pratica, mi spiega perché secondo lui le mie domande erano monnezza.
Il mio errore era stato usare termini a sproposito che identificavano la mia visione del mondo (sbagliata) come assai lontana dalla sua (giusta). In quel momento, sentendolo mentre esponeva le sue visioni, ho pensato ad alcuni articoli di “Lotta Comunista”: in confronto alle parole di Stewart mi sembravano pericolosamente riformisti. Mentre ci fa il bignami del pensiero leninista, Marx Stewart ci dice anche che percorso (stradale, oltre che politico) fare, scocciato perché secondo lui avevamo sbagliato strada. Io vivo a Bologna da quasi quindici anni e P., alla guida, la conosce in lungo e in largo, perché è nato poco fuori. Ma con noi c’era Maps Stewart: lui sapeva dove andare.
Arrivati nei pressi della lavanderia, ci ha chiesto di farlo scendere e di portargli un caffè, una volta che avessimo trovato parcheggio.
Quando è uscito dalla macchina, abbiamo pensato sinceramente di andarcene, di piantarlo lì. Tanto sarebbe tornato facilmente, no? E inoltre la voglia di assistere al concerto si era molto affievolita.
Invece abbiamo deciso di raggiungerlo in lavanderia (senza portagli il caffè) e, una volta accesa la camera digitale l’omone è diventato un altro: uno showman capace, tosto di carattere, a suo modo quasi affascinante. E il concerto è stato bellissimo.
Pubblichiamo oggi su Maps e SentireAscoltare la prima intervista mondiale sul nuovo corso del Pop Group. Lo dice lui alla fine del filmato, non io, che è la prima. Fatemi sapere se ne è valsa la pena. E soprattutto se sono irrimediabilmente diventato un lurido borghese conservatore anch’io.

Neighbours 10

Immaginatevi una calda e silenziosa mattina d’estate. Una stradina piccola piccola, con dei palazzi vecchi vecchi, e della musica che si diffonde nell’aere. Oh, ma chi sarà che accarezza sì soavemente questo violino alle 10 del mattino? E le note rimbalzano allegre e garrule tra i muri delle case, e si infilano (con un filotto perfetto) nelle orecchie dormienti di chi scrive queste righe, trapassandole, e riducendo il malcapitato (me) alla nevrosi.
Mi piace dormire quando sono in vacanza, in ferie, quando non devo alzarmi presto, cosa che accade cinque e a volte anche sei giorni su sette. Mi piace anche la musica, che discorsi, ma a comando.
Il violinista, invece, sa che deve provare i fortissimo delle varie composizioni di Bach, Vivaldi, Corelli e altri, esattamente nelle mattine in cui posso dormire.
In particolare, sa che deve darci dentro quando sono distrutto. Per esempio quando torno alle 4 del mattino dalle vacanze dopo un viaggio durato tredici ore.
Alle 10 del mattino del 19 agosto (come ha fatto del resto per tutta l’estate), il violinista attacca il suo studio, e io mi sveglio. Tachicardico, perfettamente a tempo con lui.
Il violinista a volte è intonato, a volte meno (non lo biasimo: io ho suonato quello stesso strumento per otto anni, prima di capitolare). Indovinate quando lo è meno?
Insomma, mi metto i tappi, niente. Decido di alzarmi e, finalmente, di dirgli qualcosa. Con gli occhi iniettati di sangue, esco di casa, vado al numero civico a fianco, mi pongo come un cavaliere medievale sotto la sua finestra e lo chiamo. Niente. Guardo i nomi sui citofoni del palazzo: sono tre. Nessuno di loro è “Violinista”, quindi li suono tutti e tre. Fanculo.
Di colpo, silenzio. Sento solo il suo metronomo. Si affaccia alla finestra un ragazzo belloccio: occhi azzurri, moro. Non mi dice neanche “Sì”, o “Prego”. Mi guarda. E vedo subito la sua gran faccia da culo, nascosta dai ricci.
– No, scusa – dico io. – Potresti gentilmente chiudere le finestre, quando suoni? (Evito di dirgli che stavo dormendo, il discorso non cambia.)
Lui mi guarda come se gli avessi chiesto la madre in prestito per una porno crociera e gli avessi anche estorto dei soldi.
– E come?
Io, pronto a tutto, mimo il gesto di uno che chiude le finestre.
– Ma questo è un orario consentito – fa lui, e aggiunge con uno sguardo “Cazzo vuoi?”
Quello che vorrei, in quel momento, è fargli ingoiare il violino, pezzo per pezzo.
– Sì, lo so, ma…
– Fa caldo! Come faccio a studiare! Chiuditi tu le tue finestre!
A quel punto, desisto. Perché vorrei strangolarlo con le corde. Tutte e quattro.
Torna dentro e ricomincia.
Raramente ho provato tanto odio per una persona. Cioè, io ho sempre suonato in casa, e lo faccio tuttora. Non si è mai lamentato nessuno, ma se succedesse, chiuderei le finestre.
E adesso, la maledizione dovuta alla maleducazione.

Che tu possa, durante il concerto più importante della tua vita, arrivare al momento della cadenza. E siccome per preparare questo concerto hai perso affetti, affitto, e sei ormai affatto solo (nell’assolo), tu abbia – in cuor tuo – riposto tutto nel concerto e in quel momento che attendono tutti. Che tu possa iniziare la cadenza. Prime note, tutto bene. Anche le seconde. Ma poi, nell’unica pausa della tua barocchissima interpretazione, ti possa scappare un peto, fragoroso. E immediatamente dopo, che il mi cantino del tuo violino si spezzi, schiaffeggiandoti una guancia e impigliandosi ai ricci e ti costringa a rimanere là, impalato sul palco, a metà cadenza, da solo, senza assolo. Che tu la notte possa andare a casa, distrutto, prendere finalmente sonno alle cinque del mattino, pensando alla tua vita affettivamente ed effettivamente finita. E che tu possa essere svegliato, pochissime ore dopo, dal tuo nuovo vicino. Un violinista che suona quello stesso concerto molto meglio di te. Perché lui studia sempre.

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