cinema statunitense

Dagli archivi: L’inventore di favole (Billy Ray, 2003)

Shattered Glass

Di Billy Ray (USA 2003)
Con Hayden Christensen, Peter Sarsgaard, Chloe Sevigny, Steve Zahn, Rosario Dawson
Durata 95’
Distribuzione Medusa

La storia: Nel 1998 un giornalista scopre che Stephen Glass, l’astro nascente dell’importante settimanale politico The New Republic, ha inventato del tutto o parzialmente gran parte degli articoli di successo che ha pubblicato.

Molta della forza di Shattered Glass, diciamolo subito, risiede nella storia che racconta, senza dubbio affascinante, ma che forse ha fatto rilassare su di essa Billy Ray, regista e sceneggiatore. Nonostante la buona prova di Sarsgaard, infatti, la caratterizzazione dei personaggi è un po’ tirata via, soprattutto quella del protagonista, che viene rappresentato soltanto come un giovane ambizioso che fa della modestia e di un understatement esibito i suoi tratti fondamentali. Ma l’interesse del film non credo stia in quanto ci sia in esso di cinematografico (o di televisivo), bensì nel tema che fa emergere. Tutto è focalizzato sulle questioni etiche del giornalismo, anche in prospettiva “didattica”: si veda, a questo proposito, l’inizio del film ambientato in una scuola e le esercitazioni per alunni e insegnanti scaricabili dal sito ufficiale del film.

Una delle parti centrali della “lezione” che Glass tiene agli studenti della sua vecchia scuola è tesa a illustrare il metodo di verifica di un articolo, una serie di passaggi da reiterare più e più volte. L’ultimo punto di questa routine riguarda gli appunti del giornalista: anche quelli devono essere controllati, sebbene alla fine sia il giornalista a fare da garante sulla loro veridicità. Proprio qui sta il centro di Shattered Glass: Peter sbandiera i suoi appunti e quindi la sua persona, forgiata a forza di gentilezze e premure nei confronti degli altri, come garanzie di verità di quello che scrive. Tuttavia gli appunti di Glass alla fine si rivelano essere falsi: in fondo sono solo le sue scritture private e personali, le sue favole, e in quanto tali non sono verificabili, esattamente come accade quando si scrive fiction. Lo spunto interessante del film, purtroppo solo appena accennato a mo’ di cornice narrativa, è che alla fine anche noi spettatori ci rendiamo conto di essere caduti nelle alchimie favolistiche e narrative dell’ingegnoso Glass, di avere creduto alle sue parole riportate, come il direttore del giornale e, soprattutto, come i lettori dei suoi articoli.

La conclusione di tutta la vicenda è perfetta nella sua “costruzione ad abisso”: Glass, adesso, fa lo scrittore, e il suo primo romanzo ha come tema quello di un giornalista che si inventa delle notizie per fare carriera.

Recensione originariamente apparsa su duellanti, gennaio 2005

Dagli archivi: Godsend (Nick Hamm, 2003)

Godsend

Di Nick Hamm (Usa/Canada 2003)
Con Greg Kinnear, Rebecca Romin-Stamos, Robert De Niro, Cameron Bright
Durata 102’
Distribuzione Eagle Pictures

La storia: Paul Duncan, insegnante di biologia, e Jessie, fotografa, perdono il loro unico figlio Adam in un incidente. Vengono immediatamente avvicinati dal dottor Richard Wells della clinica Godsend, che propone alla coppia di clonare il piccolo Adam, in modo tale che Jessie possa partorirlo di nuovo. I Duncan accettano, ma devono cambiare città e modo di vita per mantenere segreto l’esperimento, che alla fine riesce. Quando il bimbo compie otto anni, l’età in cui il “primo Adam” è morto, le cose iniziano a prendere una strana piega.

La domanda che mi sono posto durante la visione di Godsend è stata una sola: perché? Innanzitutto, perché scrivere una storia del genere? Immagino che Mark Bomback, lo sceneggiatore, si sia detto: “La clonazione è un argomento di moda, sfruttiamolo”. Ma un’idea del genere non basta a reggere una sceneggiatura. Passi pure il fatto che il primo bimbo clonato si chiami come il primo uomo di biblica memoria (avere un bimbo protagonista di nome “Dolly” sarebbe stato troppo); passi anche il personaggio di De Niro, dottore esperto di clonazione, ginecologia e anche ipnotista. Ma questo non è solo un film horror, è anche un thriller: quindi c’è un’indagine, se così vogliamo chiamarla, condotta dal povero papà Paul, che si chiede perché suo figlio sia ossessionato da questo tale Zachary, che nomina continuamente.

Chi è Zachary? Scoprirlo è facile. Si sfrutta una crisi del bambino, grazie ai poteri ipnotici di De Niro viene fuori il nome di una scuola, andata in fiamme. Tra i resti della scuola si trova un disegno di Zachary, perfettamente integro, sul cui retro è leggibile l’indirizzo dove abitava l’autore. Ci si reca alla casa segnata, ma, accidenti!, non ci sono più i proprietari originari, perché la casa è andata in fiamme: sì, come la scuola. Ma tanto i nuovi coinquilini, mentre cercavano una nuova governante, hanno chiamato anche la vecchia e, guarda caso, hanno conservato il suo numero di telefono. Il prode Paul va dalla precedente governante che gli spiega tutto, confessando anche un tentativo di omicidio, come fosse nulla.

Ovviamente al tema della clonazione è legato anche quello della paternità. Chi è il vero padre di Adam? Conflitto risolto in due battute e una scena, altamente simbolica, in cui è Richard a fare volare l’aquilone del bimbo, parlandogli di Dio, mentre il padre biologico li guarda. Nick Hamm, quello di Martha da legare, si è limitato a riproporre senza alcuna fantasia stilemi horror: case buie, fotografia fredda, soggettive a casaccio. Un altro “perché”. Perché hanno recitato (male) in questo film attori del calibro di Robert De Niro e Greg Kinnear? Non mi sono dato una risposta definitiva. Forse avevano tempo libero, o c’è stato un improvviso aumento del costo della vita negli Stati Uniti.

Recensione originariamente apparsa su duellanti, ottobre 2004

Dagli archivi: La perfezione degli oggetti – Osservazioni a latere di Terra di confine

Open Range - Terra di confine

La visione dell’ultimo bellissimo film di Kevin Costner porta con sé alcune riflessioni. Si può partire, volendo, dalle considerazioni sul genere, ovverosia su come Costner si rapporti al western. Terra di confine è un film classico, prima che un western classico. Nessuna rivisitazione postmodern(ist)a: cavalli, campi lunghi, pistole. Ma il film, allo stesso tempo, ci dà una visione quotidiana della vita che manca nella gran parte dei film del genere. Tutta la prima parte, giustamente lenta, non è altro che un diario minuzioso di ciò che veramente è e fa un cowboy: portare le mandrie al pascolo, pulire i piatti dopo aver mangiato, ripararsi dalla pioggia aspettando che passi, rintracciare la mandria dispersa dopo il temporale. Una routine che i protagonisti Boss e Charley conoscono bene, e che per gli altri due del gruppo è ancora, tutto sommato, qualcosa di nuovo ed eccitante, fonte di scherzi e allegria.

Ma il film di Costner si distanzia da altri western anche per la concezione dello spazio, non dal punto di vista filmico, ma storico. Partiamo dal titolo: Open Range vuol dire letteralmente “campo aperto”. E si usa in inglese l’espressione “range cattle” per indicare il bestiame che pascola liberamente, quello degli allevatori nomadi, come vengono chiamati nel film. Il punto è che i campi non sono più liberi, ormai gli Stati Uniti iniziano a pensare alla proprietà privata; il problema non sono più i nativi ai quali rubare le terre, ma il possesso delle terre stesse e la loro spartizione. Due inquadrature sono fondamentali a questo proposito. La prima ci mostra un campo lungo con in primo piano un filo spinato, a fuoco. La seconda ci dà l’unica indicazione temporale del film: è il 1882 inciso sulla “lapide” di Mose. Questi elementi non sono affatto marginali. Il campo inizia a non essere più aperto, ma recintato: per questo motivo ci saranno molti problemi tra gli allevatori nomadi e i primi “rancheros”. E poi l’anno di ambientazione del film: il ‘900 è ormai vicino, l’anno dopo verrà inaugurato il ponte di Brooklyn e il prezzo di un francobollo verrà ridotto a due centesimi di dollaro. Sono le comunicazioni interne che interessano agli Stati Uniti, tant’è che nell’anno successivo ci sarà un’importante accordo con il Canada per la standardizzazione degli orari ferroviari. La frontiera non ha più alcun senso come limite da superare, ma inizia ad essere considerata come limite da non far valicare: non è rimasto nulla da scoprire.

C’è un ultimo punto da considerare: l’importanza degli oggetti, non tanto quelli dei cowboy (c’è solo un brevissimo scambio di battute sul tipo di pistola che i protagonisti usano), ma quelli domestici, dell’ambiente che funge da sogno (proibito) dei personaggi principali. La casa del dottore e di sua sorella, non per niente, rimane un luogo estraneo a tutto il resto, una specie di bolla spazio temporale o di parentesi, invasa e corrotta da ciò che vi sta fuori solo alla fine del film. Quando i cowboy si informano sullo stato di salute del loro giovane amico “ricoverato” nella casa, non entrano per non sporcare per terra. E poi: Charley rimane affascinato dal servizio da the di Sue, e l’unico pensiero prima di affrontare la sparatoria finale è quello di fargliene avere uno uguale, dopo avere distrutto per sbaglio il suo. E cosa fa il personaggio interpretato da Costner? Sceglie il modello su un catalogo: il commercio per corrispondenza (in senso lato) inizia adesso, e le inquadrature insistite sugli oggetti che vengono messi in vendita sono importanti, testimoniano un’altra forza modernizzatrice degli USA, uno dei vettori portanti del “progresso”. Le importazioni di prodotti sono segnale della stessa cosa: i dolci migliori e i sigari migliori, ultimi desideri che si concedono Charley e Boss, vengono dalla Svizzera e da Cuba. Gli oggetti in genere, quindi, potremmo dire le merci, sono uno dei fulcri intorno ai quali ruota Terra di confine che, non per niente, si chiude su un lento dolly che va a finire proprio sul servizio nuovo di Sue. Perfetta nella sua immobilità, la porcellana è un perfetto contraltare a una delle sparatorie più belle viste in un film di recente: una sparatoria, come si diceva giustamente sul penultimo numero di duellanti, in cui i corpi cadono pesantemente per terra, si sbaglia la mira, la mano trema. Una sparatoria vera, insomma, per un film che vuole essere legato alla realtà, al quotidiano e quindi agli oggetti, che rappresenta il momento delicatissimo di passaggio dall’America di frontiera all’America del consumo.

Articolo originariamente apparso su duellanti, aprile 2004

Dagli archivi: Terminator 3 – Le macchine ribelli (Jonathan Mostow, 2003)

Terminator 3 – The Rise of the Machines

Di Jonathan Mostow
Con Arnold Schwarzenegger, Nick Stahl, Claire Danes, Kristianna Loken, David Andrews
Durata 109’
Distribuzione Medusa

La storia: Dieci anni dopo avere rischiato la pelle a causa del T-1000 inviato dal futuro per ucciderlo, John Connor deve fronteggiare la temibile Terminatrix, o TX, e anche il sistema Skynet, che ha creato un virus per bloccare l’intero sistema telematico mondiale. Ma, ancora una volta, dal futuro verrà inviato un Terminator per proteggere lui e quella che sarà la sua futura compagna nella vita e nella resistenza degli uomini contro le macchine, quando il giorno del giudizio è ormai imminente.

All’inizio di T3 John Connor ricorda le parole della madre Sarah: il futuro non è scritto, dipende da noi. E ammette di non esserne proprio convinto. Pur non essendo all’altezza del primo episodio, quest’ultimo film della serie Terminator condivide con esso un certo pessimismo di fondo, che fa sicuramente bene, e lo distanzia quindi (per alcuni versi) da Il giorno del giudizio. John è uno sbandato, non ha una casa, non ha un lavoro fisso, non si sente assolutamente l’eletto, il futuro capo della resistenza. L’eletto. Cosa vi ricorda questa parola? Matrix, ovviamente. Niente di più lontano. Se, infatti, soprattutto nel secondo capitolo della trilogia dei Wachowski la filosofia spicciola, e soprattutto il tema del libero arbitrio, viene continuamente tirata fuori in un insostenibile (a mio avviso) e poco comprensibile eccesso didattico e didascalico, in questo film tutto rimane sullo sfondo, pur essendo presente, per fare spazio all’azione sfrenata. E per fortuna.

Il ritmo di T3 è magistrale, il film non lascia un attimo di tregua allo spettatore ed è divertente, pur non avendo eccessive pretese. I rari momenti di pausa sono stemperati da una buona dose di ironia, cosa a cui già T2 ci aveva abituato, ma senza esagerare, evitando di usarla come ultimo mezzo per mostrare di avere ancora qualcosa da dire. Spesso alcuni luoghi tipici riscontrabili nei due film precedenti sono rivisitati e capovolti. Per esempio, Terminator appena arrivato nel presente è come sempre nudo e in cerca di vestirsi. Come nel secondo episodio, entra in un bar country&western, dove però, proprio quella sera, c’è una Ladies’ Night: a nessuna, quindi, fa paura l’enorme figura di Schwarzy, anzi, le avventrici guardano ammirate il suo corpaccione ignudo. Esattamente come il poliziotto che la ferma per eccesso di velocità guarda ammirato il seno della Terminatrix seduta in macchina, seno da lei rimodellato aggiungendo qualche taglia per l’occasione dopo avere visto una pubblicità di Victoria’s Secrets. A questo punto si potrebbe iniziare un bel discorso analitico sul corpo, corpo umano, corpo robotico… Ma no, non c’è tempo. E per fortuna. Perché dopo dieci minuti di film è tutto un turbinio di inseguimenti, sparatorie e di esplosioni, cose a cui anche i due episodi precedenti ci avevano abituato. Cosa poteva rimanere da fare, allora, al valido Jonathan Mostow, per non sfigurare? Nel secondo Terminator l’inseguimento avviene con un camion? Qui c’è un’autogru, con braccio posto orizzontalmente, in modo da sfasciare più cose possibili ai due lati della strada. In una scena un elicottero entra a tutta velocità in una specie di hangar. Basta? No, perché, qualche secondo dopo, ecco irrompere un altro elicottero, secondo una logica dell’accumulo che risulta incredibilmente efficace.

I personaggi, poi, sono come devono essere: la TX è bellissima e spietata (e riconosce le persone leccando il loro sangue e acquisendo notizie sul loro codice genetico). Terminator ha ormai una sua ironia (involontaria per il personaggio, ma assai calcolata e modellata su quella che emerge dal secondo capitolo) e ha in dotazione un programma di lineamenti di psicologia integrato nella memoria (questo gli permette di dire battute che agghiacciano i due protagonisti, del tipo: “La vostra serenità è positiva, allontana l’ansia e la paura di morire”). Forse è un po’ debole il personaggio interpretato da Clare Denis, Kate Brewster, ma in questo contesto funziona. E infine John Connor, che rimane lo stesso adorabile cazzone de Il giorno del giudizio, ma con in più, come dicevo, la consapevolezza che il suo ruolo è troppo grande per lui. Il confronto tra lui e Terminator, che potrebbe raggiungere pesantezze “filosofiche” inaudite, si limita a qualche momento efficace, in cui, appunto, emerge il tema del libero arbitrio e delle responsabilità del singolo rispetto alla collettività (ricordando vagamente, in qualche modo, alcuni punti di Spider Man). Ma questo, lo ripeto, non è fondante. Viene accennato solamente, e tanto meglio per chi lo coglie (non ci vuole molto), ma chi non lo dovesse fare si può godere tutto comunque. John Connor rimane una persona spaesata, che guarda al futuro tra lui e Kate in maniera umana (della serie: ma pensa un po’, avrò dei figli con questa ragazza carina), e che rimane pieno di paure e di incertezze. La scena finale del film è emblematica: i due rimangono al sicuro in una sorta di bunker e ricevono le prime chiamate via radio da parte dei sopravvissuti all’inevitabile giorno del giudizio: inizia la resistenza, di cui Connor, quindi, sarà il capo. Quando gli chiedono chi è che comanda laggiù, John esita molto, prima di dire il suo nome, e parla quasi mormorando. I due protagonisti si stringono la mano, per cercare un appoggio in un altro essere umano più che per altri motivi. John e Kate non si baciano mica, del resto è appena iniziata una guerra nucleare, a chi verrebbe in mente di farlo? Bravi.

Recensione originariamente apparsa su duellanti, ottobre 2003

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