cinema tedesco

Dagli archivi: Kinski, il mio nemico più caro (Werner Herzog, 1999)

Esperimento: pensate forte a Klaus Kinski. Che vi viene in mente? Probabilmente il profilo di un pazzo o, se ne sapete di cinema, ma soprattutto se vedete i film, avrete ricordato l’attore tedesco in Aguirre, furore di Dio, o in Fitzcarraldo, o ancora in Woyzeck, Nosferatu o Cobra Verde. Questi sono i cinque film che hanno riunito Klaus Kinski e Werner Herzog tra il 1972 e il 1987. Apparentemente l’unione casuale di un geniale e folle regista con un geniale e folle attore. Ma, come si scopre in Kinski, il mio nemico più caro (1999), forse le cose non stanno così.
La prima smentita ce l’abbiamo all’inizio del film: scopriamo che la famiglia poverissima di Herzog alloggiava in una pensione di Monaco con… Klaus Kinski. All’epoca, siamo negli anni ’50, Klaus cercava di sfondare come attore e Werner era un adolescente che subiva, con fascino e paura, le sfuriate del coinquilino. Piatti distrutti, porte sfondate, urla per due giorni di seguito. Era destino, direbbe qualcuno, quel destino che rimane un concetto centrale nel pensiero tedesco del XX secolo.

Vent’anni dopo i due si trovano sul set di Aguirre: nel documentario Herzog decide di ripercorrere il suo rapporto professionale con Kinski (dopo questo epilogo “familiare”) tornando sui set dove la loro relazione si è consumata, talvolta letteralmente.
Herzog parla con le comparse indie, con il direttore della fotografia, con le maestranze dell’epoca: tutti sono d’accordo nel dire che Kinski era violento, fuori di testa, aggressivo, tanto quanto vigliacco a suo modo. Propugnava la bellezza assoluta della natura e, pur avendo la giungla vergine sudamericana a cinquanta metri dal luogo dell’azione filmica, non vi mise mai piede. Lo sentiamo sbraitare per sciocchezze grazie a registrazioni di fortuna e talvolta lo vediamo interrompere scene con violenza o agire in esse con altrettanta irruenza, spaccando letteralmente la testa con un colpo di spada a un comprimario.

Sarebbe corretto quindi liquidare uno dei più grandi attori di sempre del cinema europeo con una diagnosi presa a caso dal DSM? No, anche perché il soggetto che lo dirigeva non era da meno. Traspare, infatti, nel pacato tono teutonico di Herzog, un vero e proprio odio violento nei confronti di quello che viene comunque considerato il suo attore feticcio. Sebbene lui smentisca, la leggenda che racconta di un Kinski diretto da Herzog con un fucile puntato addosso: e la minaccia di morte da parte del regista effettivamente c’è stata. “Per evitare che lasciasse il set”, dice Herzog, “gli ho promesso che gli avrei piantato otto pallottole in testa e ne avrei lasciata una per me”. Insomma, scaramucce che sicuramente capitano a tutti sul lavoro almeno una volta alla settimana.
D’altro canto c’è stata la combine per fare sì che, nell’autobiografia dell’attore, la figura del regista emergesse come quella di un pazzo, sadico, megalomane. “Se non scrivo cose violente, non venderà”, confessa Kinski a Herzog in uno dei momenti di intima confidenza e debolezza. E il regista si affianca all’improvvisato scrittore con un dizionario, per trovare i termini più pesanti da affibbiare… a se stesso.

Mein liebster Feind, recita il titolo originale del documentario: l’ultima parola, in fondo, non è così lontana dall’inglese friend e dal tedesco Freund, ma vuol dire l’esatto opposto. A vedere determinate sequenze del film, o alcune famose scene che ritraggono i due personaggi di cui stiamo parlando, pare che la pellicola colga esattamente questo centro indefinito tra due opposti. È una zona grigia che esiste, ed è quella abitata dai personaggi kinskiani più riusciti, controllati, creati, stimolati e plasmati da Werner Herzog.

Recensione pubblicata originariamente sul blog di Pampero Fundacion Cinema nel febbraio 2011

Dagli archivi: Goodbye, Lenin! (Wolfgang Becker, 2002)

Goodbye, Lenin!Goodbye Lenin locandina

Di Wolfgang Becker
Con Daniel Brühl, Katrin Sass, Chulpan Kamatova, Florian Lukas, Maria Simon
Durata 118’
Distribuzione Lady Film

La storia: Christiane, attivista del partito comunista della Repubblica democratica tedesca, cade in coma durante i disordini precedenti alla caduta del muro di Berlino. Si sveglierà solo otto mesi dopo, con un cuore ancora molto debole. La Germania e l’Europa, intanto, sono cambiate radicalmente, ma il figlio Alexander, con la complicità di amici e parenti, cercherà di creare un mondo in cui tutto è come prima, se non meglio.

Come spettatore italiano, mi ritrovo nella stessa situazione di qualche settimana fa, quando ho visto City of God. Esattamente come per il film di Mereilles il mio essere non brasiliano mi faceva percepire alcune cose come se fossero adornate da una sorta di epicità aggiunta, anche nel film di Becker mi sono trovato a non capire del tutto. Con la differenza che mentre in City of God ci muoviamo efficacemente, soprattutto nella prima parte, nei territori della vita e storia come mito, in Goodbye, Lenin! le cose sono confuse e spesso in equilibrio instabile. Nel film ci vuole essere un po’ di tutto: la Storia, innanzitutto, ma quella recente e vicina a noi, che conosciamo bene (sebbene da non tedeschi, appunto). Una sorta di abbozzo di romanzo di formazione, vedi gli accenni all’infanzia del protagonista e ai suoi eroi, la storia del suo primo amore, il rapporto con i genitori che cambia, la vita adulta. Inoltre il regista spinge sia sul registro del grottesco e del comico, con un uso frequente di accelerati e del commento fuori campo del protagonista, sia sul dramma familiare. E tutto ciò è imbevuto in un tentativo di commedia.

Così alcune realtà che presumo possano essere state all’ordine del giorno nell’ex Germania est, come la disoccupazione, lo spaesamento politico, culturale e umano di vecchi militanti del partito e dei giovani ai quali venivano offerte possibilità tanto nuove quanto effimere, vengono spesso ridotte a macchiette, a stereotipi. Il vecchio collega di Christiane, insegnante del politecnico Karl Marx, si è dato all’alcolismo, la prima cosa che si fa quando si attraversa il confine tra Berlino est e ovest è andare in un sexy shop, la Germania si riunifica veramente con la vittoria della nazionale tedesca ai mondiali di calcio italiani. Va bene, immagino possa essere stato così, ma è questo l’unico modo di rappresentarlo?

Tuttavia altrove il regista rivela un tocco delicato e molto personale. Un esempio su tutti è la creazione di quella bolla temporale che diventa la stanza di Christiane, una volta che la donna viene portata a casa dopo il lungo ricovero. In un primo momento la stanza diventa una specie di parentesi ferma all’ottobre 1989, una specie di teca, in cui tutto viene dal passato. Divertenti, quindi, le sequenze in cui Alexander e l’amico Denis creano finti telegiornali. Godibile la ricerca affannosa del figlio dei cetriolini “socialisti” per la madre, ormai introvabili e sostituiti da prodotti di importazione olandese, ma la cosa si ripete troppe volte. Poi la stanza diventa un vero e proprio laboratorio, dove il tempo si muove in una sorta di realtà parallela. Quindi viene fatto credere a Christiane che sono i cittadini dell’ovest ad arrivare nella DDR, attratti da uno stile di vita alternativo al capitalismo, con scene decisamente divertenti. D’altro canto, quando viene reclutato il cosmonauta idolo di Alex per interpretare un improbabile successore di Honecker alla guida del paese, si cade un po’ nel patetico.

Il film continua in questa incertezza, caricando troppo delle situazioni, disegnandone alcune molto bene (soprattutto quando si tratta di nascondere alla madre l’enorme pubblicità della Coca Cola e il passaggio del dirigibile West), ma rimanendo insicuro sulla strada da prendere. Così, nel pout-pourri generale, anche la storia del padre perduto e poi ritrovato (ovviamente ricco, con altri due figli, che vive in una bella villa con giardino) rimane appena abbozzata, sullo sfondo, quasi indistinta. Peccato, perché, ripeto, Becker non è affatto banale sia nelle scelte registiche che nella direzione degli attori, che, la Sass sopra tutti, sono bravi e nella parte.

Recensione originariamente apparsa su duellanti, giugno 2003

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