Radio Days
La percezione che ha la gente di te che lavori in una radio, tutto sommato non enorme, è strana. Qualsiasi cosa tu faccia, vieni immediatamente identificato con la musica. E fin qua, niente di male. Il problema è che la gente pensa che tu, nei confronti della musica abbia infinite risorse, potere e onniscenza.
Qualche giorno fa suona all’ora di pranzo l’omino che ci porta le pizze, i panini o quello che è. Io e la mia collega E. andiamo a pagare. E lui inizia con la frase d’apertura magica e rituale: “Voi che lavorate in radio”.
“Voi che lavorate in radio,” ci dice, “sapete, io ho una sorella che canta. Canta piuttosto benino. Magari, ho pensato, potrebbe…” Sguardo interrogativo mio e di E.
“No”, continua l’omino, “magari potreste avere bisogno di qualcuno che vi canti dei jingle, non so.”
Non diciamo niente.
“Brava è brava, eh, pensate che è voce solista in un coro.”
E. rompe il silenzio: “Ah, però. Ma sai, noi i jingle, di solito, ce li facciamo da soli…” Questo non basta a farlo desistere.
“Sì, però, magari lei…”
“Non abbiamo molte risorse”, dice €., tentando di fargli capire. Capisce. Ed esige immediatamente che gli paghiamo il conto, pensando che le nostre risorse siano veramente poche.
Stamattina, invece, mi ferma uno spazzino, piuttosto giovane.
“Tu lavori in radio?”, mi chiede mentre sto sulla soglia della radio, appunto.
“Sì”, rispondo io.
“Senti, io ho una cassetta con delle canzoni da discoteca degli anni ’90, diciamo dal 1990 al 1994. Non è che potresti darmi una mano a capire quali siano? No, perché qualcuna è veramente bella, vorrei scaricarmela, ma non so come si chiama.”
Io rimango di sasso, pensando al corrispondente concreto del concetto di “bellezza di una canzone da discoteca dei primi anni novanta”: il vuoto, il nulla. Ma lui viene in mio aiuto.
“Ce n’è una bella degli Hocus Pocus, li conosci?”
“Sì”, dico io con sicumera.
“Eh, ma attento: non ce n’è mica solo uno di gruppo che si chiama Hocus Pocus. A me piace quella che inizia con un elicottero, e poi fa bau – ci bau – bau”
“Non la conosco”, dico.
Lui pare deluso e sta per andarsene, ma ha un guizzo. “Senti, non è che avreste un paio di piatti usati da vendermi?”
Come epilogo, l’episodio a cui ho accennato qui.
Dunque, Howe Gelb è ospite della trasmissione dell’amico FedeMC e della suddetta amica E. Fa il suo bel minilive per promuovere il concerto che terrà quella sera al Covo. Esco dall’ufficio dove lavoro e lo vedo parlare con E., e canticchiare.
“Vuole suonare ‘Nel blu dipinto di blu’, stasera”, mi dice E. Mi accorgo che quello che ha davanti è il testo delle prime due strofe della canzone, trascritte a memoria da E. Guardo Howe Gelb, e gli chiedo: “Why?” “Beautiful song”, risponde lui. E mi chiede se ho gli accordi. “Forse in rete si trovano”, dico, e poco dopo torno con la bella stampata degli accordi dell’immortale canzone di Modugno. Io ed E. continuiamo a chiedergli se è sicuro di volerla cantare, gli diciamo che forse è meglio di no.
“Ma perché?”, dice lui. “E’ una canzone splendida!” E allora noi a spiegargli che, sì, è bella, ma l’hanno cantata tutti, è molto tradizionale…
“Forse è un po’ simile ad ‘American Pie'”, dico io, cercando un brillante parallelo, ma lui non pare convinto.
“Ho capito che tipo di canzone è: non come ‘American Pie’, ma…”, dice lui.
Momenti di silenzio.
“Ho trovato!”, esulta Howe. “Secondo me è un po’ come ‘New York New York'”, e ride, mentre mima gli accordi della canzone di Modugno su un’immaginaria tastiera di chitarra.
Appendice. Ho capito di che canzone parlava l’appassionato di musica dance dei primi anni novanta: la trovate qua sotto, se proprio dovete. E poi: non sono stato al concerto dei Giant Sand al Covo, ma mi hanno detto che, alla fine, Howe Gelb non ha cantato “Nel blu dipinto di blu”. Pare che vi abbia solo accennato, prima che partissero i fiati di “New York New York”.