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Dagli archivi: A Winged Victory for the Sullen – Atomos

A Winged Victory for the Sullen – Atomos (Erased Tapes)

7,5

Dustin O’Halloran e Adam Witzie hanno scritto la musica, poi diventata il secondo LP a nome A Winged Victory for the Sullen, per una coreografia del Royal Ballet di Londra, andata in scena un anno fa. Tuttavia Atomos è godibilissimo anche di per sé: undici tracce (da “Atomos I” a “Atomos XII”: sì, manca un numero e nell’interno del cd, ironicamente, si scrive “Whatever Happened to IV”) costruite per lo più su violini, viola, violoncelli, pianoforte e synth modulare, suonato da Francesco Donadello, responsabile anche dell’efficace mixing del disco e di parte delle registrazioni.

I territori sono quelli dell’ambient e della neoclassica, non mancano inserti rumoristici, di elettronica e field recording; le percussioni compaiono (poco) solo in “VII”, già nell’ep omonimo uscito a aprile: una caratteristica rilevante, considerando la finalità performativa dell’opera. La musica è sospesa, per quanto ci siano meno vuoti e ripetizioni rispetto all’esordio del duo; si gioca su crescendo trascinanti, su quinte ripetute dagli archi combinate con solenni ribattute al piano, come in “VI”: il brano è uno dei vertici del disco, insieme a “X”, dove le linee dei violini ricordano Arvo Pärt. Capita che il dialogo tra piano e archi sia un po’ meccanico, ma ci sono delle eccezioni notevoli: la penultima traccia, ad esempio, porta a fusione perfetta le due anime di questo album più che interessante.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di ottobre 2014 de Il Mucchio Selvaggio

Musica da camera

La musica da sentire per Maps è talmente tanta che ci si dimentica di quella che si vorrebbe sentire. Per fortuna ho passato un fine settimana praticamente da recluso, dedicato (tra le altre cose) all’alienante “restauro” del blog (sono arrivato al gennaio 2005, urrà): ne ho approfittato per ascoltare dischi passati in secondo piano, poiché poco adatti alla programmazione della mia trasmissione. Sebbene ne abbia sentiti diversi, uno solo ha veramente destato la mia attenzione: è il nuovo album di un giovane pianista tedesco, Nils Frahm, intitolato Felt, uscito da poche settimane per la Erased Tapes.

Felt è un pianista classico di formazione, ma che ha presto dimostrato un interesse per ambiti più sperimentali e ha incontrato sul suo cammino, come spesso accade, l’elettronica. Ma il punto di partenza e nucleo di Felt è di tutt’altro tipo: l’album nasce dall’esigenza del berlinese di non svegliare i suoi vicini mentre suonava di notte. Come fare?

Con lo stesso meccanismo che mette in azione la sordina, il pedale centrale che hanno alcuni pianoforti verticali: premendolo, un panno di feltro si interpone tra i martelletti e le corde. Il suono viene attutito, creando degli effetti di risonanza molto particolari, quanto spesso difficili da cogliere, a meno che uno non ponga i microfoni molto dentro al piano, avendo poi l’accuratezza di essere particolarmente delicati nel suonarlo.

Ciò è esattamente ciò che fa Frahm, portandoci letteralmente all’interno del suo pianoforte, tra gli scricchiolii dei tasti, i crepitii del legno e i fruscii che avvolgono l’ascoltatore tanto quanto le melodie delle nove tracce del disco.

Queste non sono del tutto minimali, come si potrebbe pensare: usando altri strumenti, nastri e registrazioni d’ambiente, Felt suona come un album ricco nella sua semplicità, talvolta commovente senza essere ricattatorio. Certo, Frahm sussurra e respira piano, ma c’è una precisa dinamica costruita dall’ordine delle tracce, tanto che la sensazione di essere in quell’appartamento berlinese cresce con il passare del tempo, o con lo scorrere della notte.

Fino a che, all’ultimo brano, “More”, il musicista osa e aumenta la forza del suo tocco: non gli importa se i vicini si svegliano, è quasi l’alba. E se davvero hanno dormito, non sanno cosa si sono persi.

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