il mucchio selvaggio

Dagli archivi: Orlando Julius and the Heliocentrics – Jaiyede Afro

Orlando Julius & the Heliocentrics – Jaiyeide Afro (Strut)

7,5

Dopo le collaborazioni con Lloyd Miller e Melvin Van Peebles, splendidi viaggi tra l’Oriente e lo spazio, gli Heliocentrics tornano all’Africa. Qualche anno fa hanno lavorato con Mulatu Astakte, questa volta la trasferta a Londra, negli studi rigorosamente analogici di Malcolm Catto e soci, tocca al grande sassofonista e cantante Orlando Julius (uno dei padri riconosciuti dell’afrobeat), che per Jaiyeide Afro rimette mano ad alcune delle sue prime composizioni, mai registrate prima.

Si va dall’ossessivo tema della traccia di apertura, “Buje Buje”, che ricorda le commistioni con la black music americana, marchio di fabbrica di Julius, fino ad episodi più classici come la title-track, il tradizionale “Omo Oba Blues” e “Love Thy Neighbour”, piena di fiati e di organi. Il motore propulsivo del disco è dato dalla micidiale combinazione di basso e percussioni, intersecata dalle chitarre e l’elettronica della band britannica.

Il punto di forza di Jaiyeide Afro è proprio nel modo in cui i due mondi si incontrano, traendo forza l’uno dall’altro, ma senza negare l’identità dell’album, che è e rimane un bellissimo e solido esempio di afrobeat: il genere rimane un centro di gravità intorno al quale gli Heliocentrics ruotano, creando dinamiche e movimenti affascinanti e sorprendenti. E, al momento giusto, arrivano gli assoli di Julius che tracciano scie luminose nel cielo e lasciano a bocca aperta.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di dicembre 2014 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: Cymbals Eat Guitars – LOSE

Cymbals Eat Guitars – LOSE (Barsuk)

7,5

L’inizio del terzo album della band di Staten Island ci riporta al bell’esordio del 2009 Why There Are Mountains: “Jackson”, infatti, ricorda molto “… And the Hazy Sea”, per la sua lunghezza, per come gioca con dinamiche e cambi armonici, per l’epicità diffusa.

Ma in questo nuovo LOSE i Cymbals Eat Guitars semplificano le cose senza diminuire di potenza, e trovano un equilibrio tra strutture classiche e pezzi più articolati; “Chambers” ne è la prova, combinando un incipit molto radiofonico (basso pulsante inquadrato sulla batteria, sui quali si adagiano accordi di chitarra), con uno svolgimento assai poco banale e con dei testi intensi e centrati sul tema ricorrente del disco: la perdita della giovinezza.

Che ce ne parli un venticinquenne potrebbe sembrare quanto meno bizzarro, ma Joseph D’Agostino racconta dell’adolescenza nel New Jersey, di amici scomparsi, di bulli puniti dal fato, del seppellimento di animali domestici e di violenze familiari con una naturalezza e un’intensità lodevoli.

Se in “XR” compare una fisarmonica alla Dylan, i riferimenti musicali ricorrenti sono Pavement, Modest Mouse, Shins, Elliott Smith e Death Cab for Cutie, nomi che, dopo l’ascolto di LOSE, appaiono ancora più “classici” di quanto già non siano: i Cymbals Eat Guitars ci ricordano che, per quanto poco utili siano le etichette, può avere ancora senso parlare di un “canone” dell’indie-rock-statunitense.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di ottobre 2014 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: Cold Specks – Neuroplasticity

Cold Specks – Neuroplasticity (Mute)

6,5

Sulla carta i Cold Specks sono la band dove milita Al Spx, una canadese ventiseienne che vive a Londra: in realtà i Cold Specks sono (almeno, in buona parte) la voce di Al Spx, scelta da Moby per il primo singolo di Innocents e da Michael Gira per “Bring the Sun”, che compare nell’ultimo To Be Kind degli Swans. E come dare loro torto?

Già dal primo disco I Predict a Graceful Expulsion ci eravamo accorti dello splendore del suo timbro, vibrante, sensuale, ma non stucchevole: rispetto al debutto voce e atmosfere si fanno più cupe, più doom che soul, per riprendere una definizione spacciata dalla stessa Al Spx, alla quale si potrebbe accostare il neologismo (un po’ cacofonico, a dire il vero) gothpel.

Le canzoni sono spesso interessanti, anche grazie ai contributi di Gira alla voce (in “A Season of Doubt” e “Exit Plan”) e del trombettista Ambrose Akinmusire (che aveva chiamato Al Spx per il suo The Imagined Savior is Far Easier to Paint), che contribuisce a spargere inquietudine e mistero. È forse il disco nel suo complesso che, alla lunga, può stancare: la noia faceva capolino anche nel lavoro precedente, ma per quanto l’attenzione dell’ascoltatore si mantenga più alta e costante, i cambi di tempo, gli arrangiamenti spesso non banali e gli ospiti illustri non bastano per fare di Neuroplasticity il grande album che poteva essere.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di settembre 2014 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: Willis Earl Beal – Experiments in Time

Willis Earl Beal – Experiments in Time (CD Baby)

5,5

La parabola di Willis Earl Beal è una delle tante variazioni del Grande Romanzo Americano. Qualche mese nell’esercito, il ritorno nella natia Chicago, il trasferimento ad Albuquerque, che il nostro riempie di bigliettini con un numero di telefono: chi lo chiama sente alla cornetta una delle canzoni del già nutrito repertorio del musicista.

Dopo una prima raccolta per il leggendario Found Magazine, la XL, tramite la sussidiaria Hot Charity, pubblica Acousmatic Sorcery nel 2012: un debutto lo-fi che manda in solluchero molti. Il passo successivo è un buon disco “ripulito”, Nobody Knows, con featuring di Cat Power. L’inizio di una carriera “normale”? No, perché Beal, dopo un paio di ep e altrettante cancellazioni di tour, molla la XL e fa uscire questo disco che, dice lui, “potete anche ascoltare a cena senza che vi disturbi”.

E in effetti, be’, non disturba affatto. I dodici pezzi, basati per lo più su voce e synth, formano una sorta di nebbiosa e ininterrotta confessione, tra il crooning, il blues e il soul: il bel timbro di Beal e qualche passaggio più riuscito, però, non sono sufficienti a respingere noia e distrazione che affiorano spesso durante l’ascolto del disco. Peccato, perché Beal ha talento e il minimalismo gli si addice: come da titolo, prendiamo questo album come un esperimento non riuscito e attendiamo il prossimo lavoro.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di ottobre 2014 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: John Garcia – ST

John Garcia – John Garcia (Napalm Records), 25 luglio 2014

7

Ho ascoltato John Garcia nell’ora più afosa di una delle giornate più infuocate di giugno, amplificando l’effetto del disco stesso. Fin dalla traccia di apertura “My Mind”, infatti, l’inconfondibile voce dell’ex-Kyuss (ma anche Unida, Hermano, Slo Burn, fino all’ultima incarnazione Vista Chino) mette addosso il caldo soffocante, massiccio e allo stesso tempo rassicurante del deserto statunitense. Luoghi che, a dire il vero, non ho mai visto, ma che ormai associo a certi suoni di chitarra e, appunto, al timbro vocale di Garcia sin da quando ho sentito per la prima volta Welcome to Sky Valley, vent’anni fa.

Potrebbe sembrare noioso parlare ancora dei Kyuss, ma per quanto nel disco ci siano tentativi di addentrarsi più decisamente in territori blues (“The Blvd.” e soprattutto “Confusion”, per sola chitarra) e l’inaspettata sei corde pulita di Robby Krieger dei Doors nella conclusiva “Her Bullets Energy”, Garcia e soci (Danko Jones, Tom Brayton, Mark Diamond e, uh!, Nick Oliveri) battono ancora (bene) i sentieri tracciati agli inizi degli anni ’90. Per chi le ha amate, percorrere quelle strade è una piacevolissima e torrida avventura ancora oggi. Chi, invece, non le ha mai potute sopportare, be’, continuerà a lamentarsi del caldo, del sole accecante e della sabbia nelle scarpe, mentre noi faremo su e giù con la testa, felici e sballati.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di settembre 2014 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: To Rococo Rot – Instrument

To Rococo Rot – Instrument (City Slang), 21 luglio 2014

8,5

Altri ascolti raccomandati
To Rococo Rot – The Amateur View
Arto Lindsay – Encyclopedia of Arto
The Notwist – Neon Golden

La mutua ammirazione tra Arto Lindsay e la band strumentale tedesca nasce qualche anno fa: il musicista rimane colpito dal primo live newyorkese del trio al punto di scrivere, qualche tempo dopo, un elogio dei To Rococo Rot sull’edizione tedesca di Electronic Beats, in occasione della ristampa di Veiculo, The Amateur View e Music is a Hungry Ghost, lodando l’approccio sperimentale del gruppo.

E, quattro anni dopo Speculation, la band chiede a Lindsay di suonare e cantare nel nuovo album: la richiesta è di lavorare insieme esclusivamente in studio, al momento, creando le melodie da zero. Un azzardo, certo, ma è impressionante quanto il contributo di Lindsay si amalgami dolcemente con i luoghi sonori creati da Robert Lippok alla chitarra e elettronica, dal fratello Ronald alla batteria e da Stefan Schneider al basso.

“Many Descriptions”, la traccia di apertura, è sintomatica del proverbiale (e spesso mancato) equilibrio tra riconoscibilità e innovazione, chimera di tanti, sul quale si regge tutto Instrument. Perché è come se la voce e la chitarra di Lindsay fossero una sorta di tassello mancante: qualcosa che dà ancora più forza ai brani, pur preservandone la paternità. Il musicista tuttavia non può essere considerato solo uno special guest: basti pensare a come, nel finale di “Classify”, il suo cantato si spezzetti in sillabe e sussurri diventando un effetto nelle mani di Robert Lippok, o alla conclusiva “Longest Escalator in the World”, dove la sua chitarra porta l’ascoltatore a vette davvero toccanti.

Tuttavia anche quando i tre rimangono “da soli”, Instrument procede benissimo: ci sono momenti più inaspettati e uptempo, come “Pro Model”, che sfrutta piccoli beat e sequenze digitali, e la quadratissima “Spreading the Strings”, costruita su una cadenzata e minimale melodia al pianoforte. “Down in the Traffic” e “Baritone”, dal canto loro, non ci fanno scordare la provenienza germanica del gruppo, che non è mai parso così fresco e innovativo da diversi anni a questa parte.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di settembre 2014 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: The Acid – Liminal

The Acid – Liminal (Infectious Records), 7 luglio 2014

7

Il segreto è stato svelato dopo l’uscita dell’ep che ha preceduto questo album di debutto: ormai si sa che dietro a The Acid ci sono Ry X (alla voce, spesso sussurrata, tra il confidenziale e l’inquietante, autore di un buon ep, Berlin), Adam Freeland (quello di “We Want Your Soul”) e Steve Nalepa (professore di “music technology” e compositore lui stesso, recentemente definito da LA Weekly come “the professor of party”). Potrebbe sembrare i tre siano stati messi apposta insieme in un’operazione quasi da reality: ma la Infectious non è una major e i tempi di certo non sono adatti a trovate del genere.

Certo, la ricerca dei suoni, dei beat, la commistione à la alt-J (non a caso compagni di etichetta) di elettronica e analogica, il vocoder e l’autotune sdoganati da James Blake che ritornano… Insomma, il sospetto che si tratti di qualcosa costruito a tavolino c’è, ma c’è anche la buona musica del trio, che forse non supererà la prova del decennio, ma che per ora è qualcosa di interessante da ascoltare. La chitarra acustica si scambia con i synth nel ruolo da protagonista di alcuni brani (“RA” e “Basic Instinct”), la voce di Ry X si moltiplica in “Red” e i pezzi (spesso cupi e misteriosi) sono sporcati da rumori e ruvidezze, come in “Ghost”. Un debutto forse per gioco, che magari non avrà seguito, d’accordo: ma intanto perché non goderne?

Recensione pubblicata originariamente sul numero di luglio 2014 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: Mark Kozelek – Live at Biko

Mark Kozelek – Live at Biko (Caldo Verde), 1 luglio 2014

Live at Biko, dal locale di Milano dove si è tenuto il 6 aprile, raccoglie quattordici tracce che provengono per lo più da Benji, ma anche da Admiral Fell Promises e da Perils from the Sea, il risultato della collaborazione di Mark Kozelek con Jimmy Lavalle. L’album live esalta la bellezza dei brani, anche quando sono interrotti sorridendo “perché non funzionano in Italia” (“I Love My Dad”), ma permette soprattutto di sentire il nostro che scherza e chiacchiera con il pubblico, lodando True Detective (a parte l’ultimo episodio) e minacciando di spaccare la faccia ai ragazzi che gli dovessero chiedere quando esce il disco in vinile. “Con le ragazze, per un po’, ci parlerei”. E poi ne cazzia un paio per avere parlato su “Dogs”. Grande, grandissimo, Kozelek.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di maggio 2014 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: Black Sabbath, Unipol Arena, Casalecchio di Reno (BO) – 18 giugno 2014

 

Black Sabbath Bologna 2014Dopo l’annullamento della data di Milano, i Black Sabbath riempiono il Palasport di Casalecchio proponendo un live potente, dall’impatto visivo tutto sommato sobrio, ma efficace. C’è la musica e la presenza. E una scaletta che guarda al primo lustro di produzione della band, o poco più.

“I can’t fuckin’ hear you”, ripete infinite volte Ozzy Osbourne agli undicimila che affollano il palasport alle porte di Bologna: insieme a lui i fedeli Geezer Butler al basso e Tony Iommi alla chitarra, dietro il tecnicissimo e potente Tommy Klufetos, batterista tra gli altri anche di Rob Zombie e dello stesso Ozzy. Il leader di una delle band più influenti e importanti degli ultimi cinquant’anni o giù di lì cerca continuamente il coinvolgimento della folla, non sempre caldissima, per quanto estasiata di vedere tre quarti dei Black Sabbath suonare bene per un’ora e quaranta.

A partire da “Iron Man”, per finire con “Paranoid”, impressiona infatti vedere quanto la band regga la prova con il tempo. La scaletta percorre i primi titoli della discografia degli inglesi, scegliendo tra le ultime canzoni solo il primo singolo di 13, “God Is Dead”: un’anomalia, confrontando le setlist di questo tour. Ma è confermato, anche nell’unica data italiana, il trittico “Black Sabbath”, “Behind the Wall of Sleep” e “N.I.B.”: una triade che segna il picco assoluto del concerto, suonata benissimo e cantata bene.

Già, perché, se proprio vogliamo trovare un problema, sta nella voce di Ozzy, ovviamente, spesso non all’altezza (anche nel senso proprio di intonazione) delle prove degli altri tre, davvero eccellenti. D’altro canto, l’ex-macellaio di Birmingham non è mai stato un cantante vero, no? Fa quello che deve fare: compare vestito di nero mantello, che abbandona presto, introduce “Snowblind” (quella che fa cantare a tutti “Cocaine”) rassicurandoci che quelle cose non le fa più, agita le braccia (non proprio agilmente), abusa di f-words, ci dice che siamo i numeri uno. E ripete che non ci sente urlare abbastanza, appunto. Arriva quasi a essere minaccioso, verso la fine del live: ma quando parte “Children of the Grave”, non c’è bisogno che ci ordini che dobbiamo diventare matti. Lo diventiamo.

Un “Let’s go fuckin’ crazy” introduce anche “Paranoid”: no, a dire la verità la canzone, creata come riempitivo del secondo album e diventata il più grande successo della band, è preceduta dall’intro di “Sabbath Bloody Sabbath”. Come a dire: “Abbiamo un repertorio talmente vasto di grandi pezzi che possiamo farne ciò che vogliamo”. Chapeau.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di luglio 2014 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: Veivecura – Goodmorning Utopia

Veivecura – Goodmorning Utopia (La Vigna Dischi), 15 maggio 2014

7,5

Chissà cos’è successo di felice al siciliano Davide Iacono: il titolare del nome Veivecura, infatti, ha pubblicato quattro anni fa Sic Volvere Parcas, primo capitolo piuttosto scuro di una trilogia che è proseguita nel 2012 con le aperture di Tutto è vanità e si conclude oggi con Goodmorning Utopia. Ce lo chiediamo perché i toni di questo ultimo bel disco sono decisamente più solari e pacificati di quanto siamo stati abituati a sentire. Costruito intorno a sei canzoni più tre suite divise in parti e intitolate “Utopia”, l’album si concede derive decisamente più libere e leggere del solito, come in “Utopia I-II-III” dove compare anche un sax, o nella riuscita (e pop) “Oxymoron”.

Nel disco si colgono i segnali della maturità del suo principale artefice, che ha costruito in questi anni una narrazione non banale e decisamente sui generis. Sì, il modello è quello in filigrana di band diversissime tra loro, come per esempio Sigur Rós, Explosions in the Sky e Goodspeed! You Black Emperor: una lenta sovrapposizione di linee melodiche (qui affidate a voce, piano e chitarra e supportate da archi e fiati) che conducono a un climax e quindi (spesso) a una ripresa calma del tema iniziale. Tuttavia Iacono ha misura, sia nelle singole canzoni che nel disco stesso, che, tracciando un percorso ragionato e concettuale, ma non cerebrale, affascina e riscalda.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di luglio 2014 de Il Mucchio Selvaggio

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