no global

Guardare per non dimenticare

Cinque anni fa io, a differenza di molti altri miei coetanei, conoscenti, amici, non ero alle manifestazioni contro il G8 di Genova. Non ci sono andato per un motivo molto banale: i miei genitori mi hanno chiesto di non andarci per non farli preoccupare. Erano anni che non mi facevano una richiesta del genere, e ho deciso a malincuore di accontentarli, per amor loro e basta. Cinque anni fa, nei giorni del G8, ero a casa dei miei, mentre loro erano in vacanza, e seguivo, sulla rete e in televisione, quello che stava succedendo a Genova. Mi ricordo delle prime voci “è scappato il morto”: un morto che, prima di diventare Carlo Giuliani, era stato uno che se la meritava, un tossico, uno che era stato addirittura ucciso da un altro manifestante: i “noglobal” che si azzannano tra loro come cani impazziti.

Poi il morto è diventato Carlo Giuliani. Poi ci sono stati i fatti della Diaz, di Bolzaneto.

Quando sono tornato a Bologna ho pensato subito ad una cosa soltanto: l’unico modo per non dimenticare era mostrare quello che era successo, e sfruttare le centinaia di reporter (nel vero senso del termine) che erano stati a Genova con telefoni, macchine fotografiche, cineprese, videocamere. Le notizie arrivavano di continuo, e i cerchi si stringevano sempre di più. Carabinieri e poliziotti avevano picchiato il padre di un’amica di un amico, un compagno di scuola delle medie di un altro era stato torturato in carcere, e così via. E poi le foto: teste spaccate, nasi rotti, bocche rosse e nere, per i buchi lasciati dai denti saltati.

Le foto, quelle sono importanti. Lo capì Diario, che fece uscire poco dopo i fatti del G8 un numero che, praticamente, raccoglieva solo fotografie, scattate da amatori o professionisti, poco importava. Quello che importa è continuare a sfogliare quel giornale, continuare a rivedere le videocassette, i filmati sul web, a risentire le dirette radiofoniche. Perché la memoria non solo di un omicidio rimasto impunito, ma soprattutto della più grande violazione dei diritti umani dalla seconda guerra mondiale ad oggi venga ricordata, sempre, non con la solita ormonale, cretina e barricadera rabbia rivolta agli “sbirri”, ma con una rabbia che sia il carburante per andare avanti, cercare la verità, mettere i colpevoli (tutti i colpevoli) con le spalle al muro, fare capire loro che questo non potrà e non dovrà accadere mai più.

Il filmato Quale verità per piazza Alimonda?
Il dossier di Indymedia sui giorni di Genova
350 testimonianze su quei giorni
Altre foto dei cortei e delle cariche
Le foto del pomeriggio di cinque anni fa in piazza Alimonda

De fiducia (it all started from a salama da sugo)

L’esperienza non insegna nulla, cari e care. E quindi, ho ridato fiducia alla salama da sugo e lei me l’ha fatta pagare di nuovo. Non contento della passata esperienza, lo chef S. (sempre più rapito dalla figura di Allan Bay), quando ancora doveva cuocere i tortelloni, ha detto: “E dopo tutto questo, un bel ‘Between the sheets'”. Noi commensali l’abbiamo guardato stupiti, capendo che il nome del cocktail vuol dire “tra le lenzuola”, ma abbiamo guardato rapiti la salama, immersa nell’acqua bollente per gli ultimi minuti, dopo la solita lunga cottura di sette ore. La salama è stata servita a tavola, ma con più spavalderia dell’altra volta. Ed è stata mangiata velocemente, troppo velocemente, accompagnata da abbondante vino rosso. Ho sentito distintamente la salama ridacchiare, mentre la finivamo a colpi di cucchiaio. Poi è arrivato il famoso cocktail di cui sopra. Poi…

Stamattina mi sono svegliato in condizioni orrende. La testa pulsante. La Novalgina scaduta. Una giornata di lavoro davanti. Ma prima, un altro impegno: andare a dare dei soldi all’agenzia immobiliare che dovrebbe portarmi alla mia nuova casetta.
Arrivo davanti al bancomat, che ormai mi vede talmente spesso che mi dà il cinque alto, quando mi avvicino. Sono troppo distrutto per cercare di tenerlo a distanza. Infilo la carta, digito il codice. Sbagliato. “Oh cazzo, ma non era…”. Riprovo. Sbagliato. Annullo l’operazione. Aspetto un po’. Rimetto la carta. Sbagliato. “Ma come…” Sbagliato. Riannullo, riprovo. Penso al codice, ma mi viene in mente solo la salama da sugo. Codice sbagliato. Rumore di risucchio. Carta trattenuta. Il bancomat non mi saluta neanche, mentre entro in banca.
La cassiera mi dice che prima di domani mattina, non se ne parla. Chiedo se posso ritirare dei soldi, anche se ho il conto in una filiale della stessa banca, lontana lontana. “Non c’è problema”, dice la cassiera, ma:
1. controlla se ho soldi in banca;
2. chiama la banca per farsi mandare via fax la mia firma;
3. si rende conto che i fax della filiale laggiù non funzionano: come fare a darmi fiducia? Facile:
4. inizia a farmi i nomi degli impiegati della filiale lontana lontana, per sapere se li conosco (giuro), come garanzia del fatto che io sia io. Al terzo Mario Rossi che mi viene nominato, ammetto in lacrime di essere un egoista che non si è mai interessato a fondo delle vite di chi amministra i suoi risparmi.
Intanto, nella cassa accanto a me, un uomo chiede quattromila euro in contanti. Immediatamente dopo la cassiera riesce a darmi i miei soldi, rassicurando la filiale lontana lontana che, in fondo, trecentocinquanta euro sono una piccola somma. Io mi rendo conto che la salama che è in me ha già progettato sei differenti modalità di rapina di quella filiale, e che trecentocinquanta euro sono ben più della metà del mio stipendio.
Arrivo in agenzia con i miei bei soldini, li saluto, e li lascio nelle mani dell’impiegata, con anche una copia delle buste paga, eccetera. Poi l’impiegata mi guarda e mi dice: “Sa, c’è un problema per l’appuntamento con la padrona di casa. Ha visto la radio dove lavora e ha pensato che lei potrebbe essere un no global.” Nascondo immediatamente la foto di Casarini che porto sempre con me e tento di spiegare che, oltre a lavori con contratto, lavori casuali, la firma di mio padre come fidejussore, una boccetta di sangue e un patto con la yakuza, non ho altre garanzie. “Vedremo che si può fare”, dice l’impiegata.

A volte, andare a lavorare, è una pausa, in una giornata.

Tornando a casa dalla radio, suona il telefono. Mi sto appena riprendendo dai postumi della salama, ma il forte odore di ascella che c’è in autobus, misto al lieve ondeggiare del mio corpo pressato tra gli altri, non aiuta. Rispondo, è l’agenzia. “La padrona di casa vorrebbe la firma di suo padre nel contratto, e anche del padre di C.” In quel momento sull’autobus una signora bestemmia la Vergine dicendo che le hanno rubato il portafoglio. Ovviamente tutti gli occhi dei passeggeri vanno in cerca della pelle più scura, immediatamente. L’autista ferma l’autobus con le porte chiuse a trenta metri dalla mia fermata, e dice che bisogna aspettare i Carabinieri. Io, ormai, sono in trance. Levito, sospinto dalla forza salama che è in me, acconsento al fatto che mio padre firmi il contratto della nuova casa, respiro con la bocca.
La situazione si smuove, le porte vengono aperte, scendo. E chiamo mio padre.
“Pronto, papà? Sono io, è per la casa nuova”
“Dimmi.”
Decido di giocare d’anticipo sulla padrona di casa.
“Senti, pensavo: hai una certa età, ormai. Che te ne fai di tutti e due i reni?”

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