nostalgia

Contadini, poeti, tigri!

Oggi ho comprato un cd di vecchie canzoni di Cochi e Renato. Mi piacciono, che ci posso fare? A ognuno i suoi guilty pleasures. In ogni caso, sentendo le prime tracce, mi sono reso conto che davvero Cochi e Renato (e Jannacci e Gaber e Fo) sono riusciti a rappresentare il linguaggio della società italiana di quegli anni e, attraverso il linguaggio, a rappresentarla tout court, o comunque a tracciare un ritratto verosimile, seppur allegorico, della borghesia italiana dell’epoca, piccola e grande. Mi chiedevo, allora, come mai adesso non ci sia nessuno che lo faccia in quel modo, divertente, leggero e arguto. C’è poco da ridere, oggi, direte voi. Mah, sarà. Cioè, è vero, ma in fondo cose come questa ci sono state sempre. Ci manca solo la peste nera, direte voi. Ok, avete vinto.
Non dandomi risposta a quella domanda, ho pensato a una caratteristica abbastanza frequente di sketch e canzoni di Cochi e Renato. Cochi faceva il ricco (il poeta), Renato il povero (il contadino). Era ancora, quella, una società in cui esistevano le classi e nella quale la tendenza che avevano le classi basse di salire di rango era comunque ostacolata, nella maniera più evidente, da differenze linguistiche.
Anche adesso ci sono classi, checché se ne dica, e siamo pure messi peggio: la famosa forbice che si allarga. Ma il linguaggio è uniformato, purtroppo. Dico purtroppo perché si è uniformato verso il basso, in tutti i campi o quasi. Il contadino si veste come il poeta, e si crede tale, e il poeta parla appena meglio del contadino, fregandolo con le sue stesse parole e modi dire, addirittura scambiandoseli. Ma nessuno dei due, oggi, sa zappare la terra davvero o scrivere due versi in croce.
E mi è poi venuto in mente un libro che ho letto, o meglio guardato, di recente: Metti un tigre nel motore, che raccoglie alcune pubblicità apparse su riviste tra il 1960 e il 1973, in un’Italia radicalmente diversa e distante da quella che c’è adesso. Più o meno quella di Cochi e Renato di allora. E la prima emozione che ho avuto è stata di nostalgia, ma come la si può avere per una nonna di cui ti parlano tutti, ma che non hai mai conosciuto.

Emerge, da quelle pagine e da quelle canzoni un Paese sì con problemi, nel quale si sentono i germi di quello che succederà da lì a qualche anno, ma innocente. Insomma, la foto della nonna un po’ prima che morisse: vedi che è vecchia, capisci che l’occhio non è più vispo come poteva essere, ma insomma, è là.

Mi chiedo se la speranza sia che tutti ci si trovi, prima o poi, nella condizione di uno dei due personaggi de “Il Bonzo”: ci tocca perdere tutto, per accorgerci che anche il poeta, pardon, il re è nudo da un pezzo? 

MeDCna per l'anima

Come reazione alle varie ipotesi di una rinascita democristiana ho avuto una specie di dolore intenso, che però, poco dopo, ha lasciato spazio ad una strana e impalpabile sensazione di calore.
Ho tentato di capire che cosa fosse, razionalizzandola, cercando di circoscriverla, ma ho compreso tutto d’un tratto che cosa fosse.
In questo momento tremendo, in cui noi giovani adulti, nati verso la fine degli anni settanta, non abbiamo lavoro, o se ce l’abbiamo è precario, non abbiamo certezze, non abbiamo punti di riferimento né politici, né culturali, né sociali, una sola cosa ci può salvare: la Democrazia cristiana. Ma sì, vi ricordate? Eravamo piccoli, tutto sembrava meraviglioso, avevamo i giochi di società e le partite a pallone nel cortile sotto casa, e il telegiornale parlava di Pentapartito, e noi imparavamo che penta voleva dire cinque in greco, come Canale 5, e lo sapevamo dire anche in spagnolo e francese, cinque, cinq, la cinco!
E c’era la diccì, o di ci, o DC, e nessuno sapeva perché: c’era e basta, da sempre, e ci sarebbe sempre stata, immobile, paludata, l’immagine della politica sulla quale adagiarsi, o il simulacro del bersaglio di infinite crudeli battutine, l’imitazione di De Mita, facilissima da fare, bastava nasalizzare tutti suoni, e Andreotti e la sua gobba, e Fanfani è un nano. Il CAF, unico caso al mondo, credo, di sigla che unisce il nome di tre politici, ovviamente se escludiamo gli Abba, che però erano in quattro.
E poi Craxi, il benessere, la forma di edonismo meidinitali importato dagli Stati Uniti, David Hasselhoff ospite al Drive In, Arnold (alto quanto Fanfani, ah ah) ospite al Drive In, Piersilvio Berlusconi ospite al Drive In. Le tette, il grande centro, la destra e la sinistra, la falce e martello, lo scudo crociato, il garofano, il culo di Tinì Cansino, il sole che sorge, l’edera, il plì, Donat Cattin, che qualcuno pronunciava alla francese, qualcuno all’italiana, metallari da una parte, paninari dall’altra, Goria e Andreatta, Longo e Martelli. Tutti dicevano che tutti rubavano, sfiorando l’autodenuncia. Chi non rubava, prima o poi, era costretto ad adeguarsi, e chi parlava, parlava, ma non aveva le prove, e dopo un po’ smetteva. Ma grazie alle linee essenziali ed eleganti dettate nel dopoguerra, ancora attualissime, mai demodè, tutto il mondo era chiaro e semplice.
Facile, chiaro, limpido, Recoaro? Fiuggi e la sua svolta erano lontano, qualcuno chiamava l’emmeesseì “mis” e io non capivo perché, ma sapevo che quelli erano fascisti, senza ma e senza post, e io vivevo in un capoluogo di provincia democristiano, e il padre del mio compagno di banco era democristiano, e il nonno del mio compagno di banco era democristiano e bestemmiava, proprio come i miei vicini, democristiani, che andavano a messa, ma bestemmiavano prima o dopo, mai durante. Tutti abitanti di un paese democristiano, un paese che democristiano sarebbe sempre stato, qualunque cosa fosse successa.
Rivoglio la DC, mi dà sicurezza: una madeleine enorme nella quale vivere, protetti e al caldo, facendo opposizione rigorosamente dall’interno e mangiandone un pezzettino, di tanto in tanto, ma solo per pura golosità.

RicordaRivoluzioni

Sento per bene solo adesso, dopo mesi dalla sua uscita, il disco d’esordio degli Offlaga Disco Pax, Socialismo tascabile (prove tecniche di trasmissione).
I richiami musicali sono evidenti: senza sforzarsi troppo, viene subito in mente lo stile dei CCCP, quello più parlato e meno legato al punk. Ma il richiamo è solo superficiale, e non può andare più a fondo, se vogliamo guardare bene, perché sono passati degli anni importanti.

I CCCP suonano sentendo nell’aria la caduta del blocco sovietico: descrivono il mutamento in atto sotto i loro occhi, cosa difficilissima, e tentano di fissarne alcuni punti, tra un pezzo e l’altro dei loro dischi.
Gli ODP iniziano a suonare quando l’89 è passato da un pezzo. La loro operazione, quindi, è dichiaratamente un recupero della memoria, dell’Italia socialista (e quanto è difficile ormai associare il nostro paese a questo aggettivo senza pensare a Craxi bersagliato di monetine fuori dall’hotel Raphael, almeno per chi, come me, è nato alla fine degli anni ’70), dell’Emilia rossa, la stessa regione – ma decisamente non gli stessi luoghi – nella quale vivo da quasi dieci anni. Cavriago, un paese alle porte di Reggio, come capitale dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Italiane. Cavriago e la sua via Carlo Marx, e il busto di Lenin, tuttora sindaco onorario del paese.
L’infanzia aromatizzata al cinnamon, i racconti di partigiani narrati dagli stessi partigiani, il partito comunista al 70, ma anche 80 per cento.
Gli ODP sanno che tutto questo non esiste più, non si rifugiano nel ricordo, lo evocano, con oggetti, sapori, frasi, toponomastiche, in un’operazione che non può non ricordare quella di Matteo B. Bianchi (e di altri prima di lui). E non si vergognano di usare parole come socialista, nel senso vero del termine, di chiamare la figlia del sindaco “compagna”, ma senza il sorrisetto ironico che usiamo “noialtri”, nati irrimediabilmente post.
Ma non pensiate che gli ODP siano seriosi: come tutte le persone intelligenti usano l’ironia nelle giuste dosi, quando più serve, e, prima che suonare, scrivono dei racconti bellissimi che hanno forza evocatrice per tutti. Anche per me, così lontano da tutto questo.

Penso a me, da piccolo, nella sezione del Partito comunista, in una città che rimarrà sempre e comunque democratico-cristiana, anche quando il primo di questi due termini perderà irrimediabilmente di significato. Penso a me più grandicello, che raccolgo firme nel corso della cittadina e prendo insulti, o, quando va bene, occhiatacce. Penso a me, che sogno l’Emilia cantata dai CCCP, e invece mi trovo a due passi qualcosa che sta cambiando, la Slovenia, della quale non riesco ad avere un’occhiata approfondita e critica, perché tutto è troppo veloce, rapido, e si muove al ritmo schizoide, fatto di esaltazione e depressione, delle droghe sintetiche che sono così diffuse tra i miei coetanei “di là dal confine”. Penso a me a Bologna, appena arrivato, e a come sguazzo in quello che apparentemente mi sembra un “mondo giusto”, ma che in realtà è, anch’esso, drammaticamente in fase di rapida mutazione.

Penso che, di un sacco di cose, non ho i miei ricordi, ma quelli degli altri.
Grazie, Offlaga Disco Pax, perché mi avete regalato una nostalgia di cui posso appena distinguere i contorni.

Se non conoscete gli ODP, manderò qualche loro pezzo stasera a Monolocane. In diretta dalle 2230 sulle frequenze di Città del Capo – Radio Metropolitana, o in streaming qui o qui.

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