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Cosa c'entra Elisa con le Harley Davidson?

Sento una strana vicinanza con Elisa. Il sentimento, ovviamente, parte da basi generazionali e geografiche: siamo coetanei e nati ad una manciata di chilometri di distanza l’uno dall’altra. Ha una bella voce. Le canzoni non sono sempre valide, o quanto meno mi stufano spesso, ma non credo che nel panorama desolato e desolante della canzone italica, sia da buttare via. Ma non basta.
Il chitarrista di Elisa è il cugino di un mio (ormai ex) compagno di classe: quando uscì Pipes and Flowers il suddetto compagno di classe tirò fuori, con abile mossa da prestigiatore, il cugino dal cilindro e si legò, in qualche modo, al successo della giovine.

Questo mi ricorda un buffo aneddoto che credo mi abbia raccontato un caro amico. L’amico dell’amico (che volete, capita sempre così) aveva passato le vacanze con Sergio del Grande Fratello, proprio lui, l’Ottusangolo. L’amico dell’amico, non appena era iniziato lo spettacolo e registrava successo, andava in giro vantandosi di conoscere Sergio e di avere passato ore indimenticabili e divertentissime con lui. Fino a che venne fuori che proprio questa gran cima Sergio non era, e l’amico dell’amico si adeguò all’andazzo mediatico, eleggendosi come primo denigratore. “Lo prendevo in giro io già allora”.

Ma torniamo ad Elisa. La fanciulla, nonostante canti prevalentemente in inglese, pare legata alle sue terre d’origine. L’avete mai sentita in un’intervista? Quello strano accento da patata-in-bocca, tutto vocali aperte e leggermente strascicato, beh, quello è l’accento goriziano, o, per essere precisi, “bisiacco”, cioè della zona di Monfalcone. L’avere questo accento marcato la rende ai miei occhi più umana, modesta e, quindi, simpatica. Poi gira i suoi video in posti che conosco bene e che raramente sono mostrati in televisione. Insomma, il tutto ha un’aria familiare.
Ho visto Elisa dal vivo una volta solamente, in un’occasione molto particolare. Mi sono trovato, non ricordo neanche io come, ad un raduno di biker, vicino Gorizia. Non so se avete mai avuto l’occasione di assistere ad un raduno di biker. Sono omoni (e donnoni) prevalentemente vestiti di cuoio, con moto enormi, nerissime e spesso iperaccessoriate, che bevono birra, scherzano e ridono. E giocano con i motori. Ma non nel senso che li montano e li smontano, con sana e ludica passione. No. Giocano con i motori in due modi.
Il primo è quello di accendere la loro moto, dalla marmitta enorme alla quale è stato tolto ogni tipo di silenziatore, e di accelerare mandando il motore su di giri e producendo un rumore assordante. La performance si può concludere così, semplicemente raggiungendo il picco dei decibel, oppure come ho visto io (fortunello): il biker spegne il motore, tira fuori una sigaretta e se l’accende sulla marmitta incandescente, tra le ovazioni della folla.
Il secondo è quello di prendere un motore di una macchina di bassa cilindrata, tipo quello di una Cinquecento Fiat, e di mandarlo su di giri fino a spaccarlo. Dico sul serio. Visto con i miei occhi.

Insomma, mi godevo lo spettacolo. Ero venuto a sapere che, però, quel raduno aveva qualcosa di particolare. Infatti era la festa di compleanno di uno del club di biker, un ragazzo che era appena uscito dall’ospedale per un bruttissimo incidente in moto. Aveva perso entrambe le gambe, però, a quel che si diceva, gli era andata bene.
Sale un gruppo sul palco (ovviamente un gruppo metal). Quando finisce il loro concerto, sorpresa, salgono sul palco altri musicisti e il ragazzo festeggiato, che ringrazia tutti. Ad un certo punto sale sul palco una ragazza piccina, con un berretto calato sugli occhi. È Elisa. Pubblico in delirio, anche senza bisogno di marmitte. Inizia a cantare “Knockin’ on Heaven’s Door” con il festeggiato, che è felicissimo, ride contento e canta.
Mi sono guardato intorno. Lo so che vi sembrerà stereotipato, ma fa veramente impressione vedere omoni enormi, di cui hai avuto un sano terrore istintivo fino a pochi secondi prima, piangere. Non “occhi lucidi”, dico proprio piangere. Beh, un po’ mi sono commosso anche io.
Elisa ha continuato con un altro paio di canzoni, poi è arrivato il regalo per il festeggiato. Una moto a tre ruote, che si può guidare anche senza gambe.
Ancora mi viene il groppo in gola a pensarci.

P.S. Ovviamente stanotte io sono uno dei morti viventi.

Ra(d)iot

Che dite, la dovrei smettere con questi titoli creativi? Mi servono per esercizio, se mai la poco-nota agenzia di pubblicità dovesse decidersi a chiamarmi…
Continuo ad espletare i miei compiti per casa, e affronto l’argomento Raiot e tutto quello che ne è conseguito.

Come forse sapete, è finito da un’oretta uno spettacolo “sostitutivo” della trasmissione della Guzzanti&Co., che io ho seguito sulle frequenze della mia radio. Lo spettacolo si è tenuto all’Auditorium di Roma ed è stato trasmesso, tramite megaschermi, in molti posti in Italia e, appunto, sulle radio di Popolare Network. Non si è trattato della seconda puntata del programma, che probabilmente mai andrà in onda, ma di qualcosa di più complesso e ricco. Sono intervenuti, tra gli altri, Luttazzi, Grillo, Fo e Rame, addirittura la Mannoia accompagnata al piano da Piovani (!). Oltre allo staff di Raiot.

In molti hanno criticato la prima puntata, che potete trovare qui, dicendo che era un autogol per la sinistra, che non faceva ridere, eccetera. Andiamo con ordine.
Guardo da sempre le trasmissioni della Dandini, dalla TV delle ragazze in poi. E devo notare che, effettivamente, le ultime trasmissioni (diciamo da dopo Tunnel) avevano dei problemi di ritmo, normali nelle prime puntate, ma che potevano infastidire quando si protraevano. Quindi il fatto che la prima puntata di Raiot fosse imperfetta è assolutamente normale. I tempi si affinano volta per volta, e tutto dipende dalle condizioni in cui si crea, si scrive e si può provare uno spettacolo. Non so in che condizioni abbiano lavorato autori e attori, ma non mi sembra un male tremendo.
Dal punto di vista “politico”, invece, mi è sembrato un urlo disperato, ma non di parte. Lo sketch del consiglio comunale di sinistra avrebbe dovuto fare accapponare la pelle a molti compagni, con o senza virgolette. Mi è sembrato un urlo disperato, come se si sapesse già che quella era l’unica e ultima chance per dire delle cose. Non è una cosa bella, me ne rendo conto, ma probabilmente le cose stavano così.
Dario Fo e Franca Rame, e, per certi versi, anche Beppe Grillo, hanno detto che è stato un bene essere censurati, perché così il governo si sputtana. Sono d’accordo, ma fino ad un certo punto.
Idealmente, sarebbe stato strategicamente più efficace iniziare a salire piano piano con i toni, puntata dopo puntata, in modo tale da conquistarsi un pubblico ampio, l’audience nel vero senso del termine, al quale parlare (anche se, diciamolo, la prima puntata ha fatto un bel 18% di share: non male).
Invece è stato scelto il “colpaccio”. Non so se attuare il “piano A” sarebbe stato meglio: forse Raiot sarebbe rimasto un programma di nicchia, di cui parlare “tra di noi”. Così un po’ di rumore c’è stato. Ripeto: non so se questa sia stata la soluzione migliore, entrambe presentano – o avrebbero presentato – pro e contro.

Lo spettacolo di stasera mi ha lasciato con uno strano stato d’animo. Da un lato molto emozionato nel sentire tanta partecipazione e affetto intorno al gruppo. Ma dall’altro la domanda che mi sono fatto (e che mi faccio sempre più spesso) è: quanti siamo? Contiamoci. Quanti siamo veramente? E tutto questo basta?

L’ultimo urlo della Guzzanti (bravissima, lodi e plauso a lei e agli altri) è stato: “Non finisce qua!” Io lo spero, lo spero vivamente. Tutto questo non basta. Sinceramente, e ammetto per primo le mie colpe, non so proprio cosa si possa fare. Boicottare le aziende che comprano gli spazi pubblicitari Mediaset, certo. Firmare questa petizione. Ma soprattutto parlare, parlare, parlare delle cose che questo governo sta combinando. Informandosi e leggendo molto (magari il problema potrebbe essere dove leggere ed informarsi… me ne rendo conto).

Ma non parlarne “tra di noi”, è troppo facile. “Noi” già lo sappiamo che questo Paese sta andando a scatafascio.

Adolescenza

Ogni volta che tengo dei seminari nelle scuole superiori penso sempre che la differenza di età tra me e i miei “alunni” non si senta. Mica vero. Cioè, quando ho iniziato, ormai più quattro anni fa, poteva non sentirsi, ma adesso…

Però è bello vedere gli “zombetti” alle prime ore. Prima ti guardano, poi, siccome (diciamolo) sono un paraculo ruffiano, si rilassano e iniziano a parlottare tra loro, a scambiarsi bigliettini. Allora chiedo che stiano zitti. A quel punto mi obbediscono. Ma la platea che mi trovo davanti è allucinante. Quaranta facce che mi fissano, tra lo stanco e l’annoiato (non sempre, non è che dica delle cose così tremende), assolutamente inerti e silenti. Manichini di vetroresina.
Ma fatti male. Brufoli, orecchie o nasi troppo grandi (soprattutto i maschi), tentativi di trucco non sempre andati a buon fine, scarpe enormi e improbabili, corpi. E si ostinano a darmi del lei.
Mi piace guardarli e tentare di scoprire, nelle poche ore che ho a che fare con loro, chi è il secchione della classe, chi è la bella che fa impazzire tutti, chi, alla fine, potrà essere uno scrittore e chi no. Provo a pensare chi ero io, ormai una decina di anni fa.
Sicuramente non la bella della classe.

Note a margine. Sto per tornare a Bologna, dopo sette giorni e quasi millecinquecento chilometri percorsi in vari vagabondaggi qua e là. A pensarci bene fa una media di più di duecento chilometri al giorno. Accidenti. Ma per il mio notturno radiofonico sarò fresco e pimpante, ve lo giuro. Come al solito, se vi va, nella notte tra lunedì e martedì, dalle 0050 cliccate qua.

Poco più di quarantotto ore

Chissà quando renderò pubbliche queste righe…

“Ma che sta a ddì?”
“Che forse che vuole dire quando posterà ‘ste cazzate”
“Ah”
“Bah”

Dicevo: chissà quando renderò pubbliche queste righe. Tra blackout generalizzati e Fastweb che si rifiuta di funzionare… Per ora scrivo queste cose a mezzanotte e mezza del 30 settembre, vedremo quando le vedrete. Sono state quarantotto ore dense, densissime, per me e per altre persone. Il periodo va dal pomeriggio di sabato al pomeriggio di lunedì. Il post è lungo, e mi dispiace.

Prologo. Preparativi.

Io e il mio fratello di parole, a casa sua a Roma, il sabato pomeriggio. Elettrizzati dalla prospettiva della notte bianca, decidiamo di rilassarci, come si fa (o si dovrebbe fare) prima degli esami o degli incontri di wrestling. Quindi cazzeggiamo e creiamo il banner che vedete (forse) qua a fianco. Così, tanto per fare. Poi usciamo. Aperitivo. Ordiniamo due martini cocktail. Il barista ci chiede se ci vogliamo dentro l’oliva o il wurstel. Il wurstel? Ma non battiamo ciglio e diciamo “oliva”. Senza articolo, senza per favore. Oliva. E mangiucchiamo un po’ di cose. Poi riprendiamo il motorino e iniziamo la nostra notte bianca.

Prima parte. “Quanto sei bella Roma quando è sera”. E Parigi?

Passiamo da Via Veneto, dove dovrebbe essere proiettata “La dolce vita”, e la via dovrebbe essere decorata da ricordi e omaggi a Fellini. Invece la via è tappezzata di Ferrari, sì, le macchine. Una trentina abbondante, modelli dagli anni ’50 a oggi. Belle, non c’è che dire (anche se di motori proprio non me ne frega nulla).

“Ahò. Ma aqquesto nun je ‘mporta de ‘e machine, nun parla mai de carcio, je piace cucinà. Ma sarà n’omo veramente?”

Ma la domanda che ci facciamo è: che cacchio c’entrano le Ferrari con Fellini? Errore degli organizzatori? Ci siamo immaginati il responsabile della Notte Bianca che arriva in Via Veneto, vede tutte queste macchine e dice al sottoposto di turno: “Fellini, non Ferrari, cribbio!”.
Andiamo al Campidoglio. Vista meravigliosa. Dopo tanto tempo ancora Roma mi mozza il fiato. Lo so che è banale. Ma se me lo mozza, me lo mozza, non c’è pezza. In programma un concerto di Nicola “Il grillo fa crì crì” Piovani, in ricordo di Fellini. Stavolta speriamo che non si sia sbagliato nessuno, anche perché un concerto in ricordo di Ferrari eseguito da un compositore di musica da film avrebbe del surreale. E anche del futurista. Invece Piovani è simpatico e racconta aneddoti divertenti. Intervistato da Vincenzo “Ma quant’è meraviglioso questo filmlibrodisco” Mollica. Poi prende la parola Veltroni, il sindaco e fa un bel discorso con dei riferimenti neanche troppo vaghi a proposito dell’ultima follia di Bossi

Sì. Bossi. Quello là. Il ministro.

sullo spostare la capitale a Milano. Ovazioni dal pubblico, ovviamente. Veltroni conclude dicendo che Roma è la città più bella del mondo. Ora, queste cose le puoi dire se hai accanto il sindaco di Dallas, o di Roccasecca, ma non quando stai per dare la parola al sindaco di Parigi. Che, ovviamente, dice che le città più belle del mondo sono due. Poi prende la parola il capo della Camera di Commercio che dice “Possiamo dire che alle 2230 questa sfida della Notte Bianca è stata vinta”. Peccato, il pubblico non si è comportato da vero-italiano. Infatti solo un paio di migliaia di scongiuri simultanei avrebbero potuto non fare succedere quello che è accaduto dopo.
Ma c’è gente, troppo gente, e ce ne andiamo a mangiare qualcosa.

Seconda parte. Il gioco del silenzio

La tappa che più emozionava me e il mio fratello di parole era il silent party. Per due chiacchieroni come noi andare in un posto dove la regola è stare zitti ha il gusto della sfida impossibile. Come da copione, rispettiamo gli orari di entrata e a mezzanotte e qualche minuto siamo dentro una galleria d’arte dietro via Cavour. L’ora successiva dovrebbe essere dedicata alla visione delle opere esposte e ad imparare le regole del gioco (all’una silenzio totale, non si fuma, non si devono alcolici ma solo acqua minerale, chi esce non può più rientrare). Noi ci mettiamo di impegno, prendiamo posto su dei cuscini per terra e iniziamo a guardarci intorno. Del resto, pensiamo, che si può fare? Saranno gli sguardi che contano. E invece la cosa è organizzata all’italiana. Qualcuno sussurra, qualcuno esce e vuole rientrare, gente che fa casino fuori in strada, gente che entra con gli alcolici. La situazione si normalizza verso le due. A quel punto la gente che passa dalla via guarda dentro e ha lo sguardo del visitatore dello zoo. Noi, ché ci vogliamo bene, tendiamo ad interpretare quello sguardo come ammirazione ed invidia, perché noi ci siamo al primo silent party italiano e mamma mia quanto siamo in cool hip. Ma un po’ capiamo lo sguardo annoiato del leone albino dentro la gabbia. Alle due e mezzo ce ne andiamo.

Terza parte. Rock the station: back in black (out)

Stazione Termini trasformata in una discoteca rock! Con i dj che usavano animare le notti radiofoniche di Radio Rai Due con Planet Rock! La trasmissione che mi ha fatto scoprire alcuni dei gruppi che ancora adesso ho nel cuore. Arriviamo ed è bellissimo. Appena entro in stazione scatta il riff di “Master of Puppets” e mi sento adolescente, la canto tutta. Ma c’è un caldo porco, quindi usciamo e ci godiamo lo spettacolo da fuori. Cambia il dj, Mixo in consolle e mi viene in mente la sua trasmissione su Videomusic, Rock Revolution e i suoi capelli e cappelli improbabili. Mixo puttaneggia: nel senso che mette i classici più classici, la gente balla felice. Ad un certo punto inizia a piovere. Mannaggia. E noi siamo in motorino. Vabbè, smetterà. Riconosco il riff iniziale di “Whola Lotta Love”. Al secondo giro di riff:

puff

Termini è al buio. Ma la musica continua, accidenti! Infatti hanno i loro generatori che permettono alle luci di continuare a sbriluccicare e a stroboscopizzare (scusate) la gente. Tutti pensano solo: “è andata via la luce” e sono molto più incazzati per la pioggia che per altro. Capiamo che la pioggia non smette e il Words Brother grande suggerisce di andare a bere qualcosa in un bar di via Nazionale che conosce lui.
Solo che ci rendiamo conto che tutta la città è al buio. Pensiamo, tornando in motorino a casa, a quanto è stato sfigato Walter, a quante polemiche ci saranno, a questa notte bianca che forse è stata un po’ rovinata. Le strade, nel frattempo, sono buie buissime. Non capiamo. Tutta la città al buio? Arriviamo a casa. Buio, buio, buio. Quindi: candele. Cerchiamo una radio a pile, per capire che succede. Musica e un sacco di vuoti. Poi, ad un certo punto, una voce di un’ascoltatrice.

“Da dove chiami?”
“Da Napoli”
“Anche lì siete al buio?”
“Eh sì”.

Interno notte. I Words Brothers si guardano in faccia e sbiancano.

Sentiamo la radio fino alle sei, e veniamo a sapere del blackout totale. Andiamo a letto dicendo cose del tipo “Ma dimmi te” e “Certo che se quello della Camera di Commercio non la tirava così…”.

Quarta parte. I am an Italian journalist.

Mi sveglio poco dopo le 14 ed è tornata la corrente. Iniziamo a capire quello che sta succedendo e quello che è successo quando ricevo un sms da una mia amica inglese che vive a Bologna. Mi chiede se posso fare un favore ad una sua amica che lavora in una tv nazionale inglese, ITV: dovrei parlare in diretta dando testimonianza del black out. Un’ora dopo la mia voce, forse un po’ assonnata, invade le case dei sudditi della regina. Live. In inglese. Ancora non ci credo. Introdotta da “We have live from Rome Fransesco – eccetera eccetera: privacy – an Italian journalist”. Ho pensato all’aplomb del giornalismo (e non solo) britannico e non mi metto a ridere. Mi hanno chiesto, prima del collegamento, che facessi. Ma non so mai cosa rispondere. “Journalist” l’hanno dedotto loro, non è né del tutto vero, né del tutto falso. Alla fine erano contenti. All is good what ends good. No, questo non l’ho detto. Poi cazzeggiamo ancora nel pomeriggio e andiamo a cena. Con il padre del mio fratello di parole. Mi chiedo se sia, quindi, il mio zio-di-parole. Lasciamo perdere.

Epilogo. Il giorno dopo: livin’ on the edge.

La mattina dopo ci salutiamo, io e lui (ciao), e vado a Termini. Stavolta facendo gli scongiuri. Ma non serve a niente. Treni pienissimi, Eurostar stracolmi, mi tocca l’Intercity.
Risultato? Cinque ore (che, dubitavate del ritardo del treno?) di viaggio in piedi. Ma non in piedi nel corridoio. In piedi tra il cesso e la porta scorrevole che sta tra uno scompartimento e l’altro. Un inferno. Che poi, in queste situazioni, accadono cose del tipo:

  • Il treno è popolato da ciccioni
  • Il treno è popolato da famiglie di ciccioni che si spostano portando cose ingombrantissime, tipo impianti da megaraduno techno, riserve di cibo e abiti per un anno, passeggini, falciatrici, reattori nucleari
  • Il treno è popolato da persone che credono che “più in là” ci sia posto. Quindi passano e ripassano. Alla prima passata fai notare loro gentilmente che è inutile. Ma loro rispondono con uno sguardo pieno di speranza. Quindi li fai passare, schiacciandoti contro le pareti del vagone e/o altre persone. Fanno un metro in là e poi ripassano (e tu ti devi schiacciare di nuovo) dicendo “Eh no, non si passa”.
  • Tutti fumano ovunque.

Beh, quest’ultima cosa accade anche altre volte… (Chi scrive è un fumatore, notate bene).

Sono arrivato a Bologna distrutto, alle 1530. Senza avere mangiato né bevuto e con poche ore di sonno, pochissime. Sull’autobus c’era un posto libero, uno solo. Non ho neanche pensato di sedermi. Mai perdere il ritmo.

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