Dagli archivi: Willis Earl Beal – Experiments in Time
Willis Earl Beal – Experiments in Time (CD Baby)
5,5

La parabola di Willis Earl Beal è una delle tante variazioni del Grande Romanzo Americano. Qualche mese nell’esercito, il ritorno nella natia Chicago, il trasferimento ad Albuquerque, che il nostro riempie di bigliettini con un numero di telefono: chi lo chiama sente alla cornetta una delle canzoni del già nutrito repertorio del musicista.
Dopo una prima raccolta per il leggendario Found Magazine, la XL, tramite la sussidiaria Hot Charity, pubblica Acousmatic Sorcery nel 2012: un debutto lo-fi che manda in solluchero molti. Il passo successivo è un buon disco “ripulito”, Nobody Knows, con featuring di Cat Power. L’inizio di una carriera “normale”? No, perché Beal, dopo un paio di ep e altrettante cancellazioni di tour, molla la XL e fa uscire questo disco che, dice lui, “potete anche ascoltare a cena senza che vi disturbi”.
E in effetti, be’, non disturba affatto. I dodici pezzi, basati per lo più su voce e synth, formano una sorta di nebbiosa e ininterrotta confessione, tra il crooning, il blues e il soul: il bel timbro di Beal e qualche passaggio più riuscito, però, non sono sufficienti a respingere noia e distrazione che affiorano spesso durante l’ascolto del disco. Peccato, perché Beal ha talento e il minimalismo gli si addice: come da titolo, prendiamo questo album come un esperimento non riuscito e attendiamo il prossimo lavoro.
Recensione pubblicata originariamente sul numero di ottobre 2014 de Il Mucchio Selvaggio
Ho ascoltato
La mutua ammirazione tra Arto Lindsay e la band strumentale tedesca nasce qualche anno fa: il musicista rimane colpito dal primo live newyorkese del trio al punto di scrivere, qualche tempo dopo, un elogio dei To Rococo Rot sull’edizione tedesca di Electronic Beats, in occasione della ristampa di Veiculo, The Amateur View e Music is a Hungry Ghost, lodando l’approccio sperimentale del gruppo.
Il segreto è stato svelato dopo l’uscita dell’ep che ha preceduto questo album di debutto: ormai si sa che dietro a The Acid ci sono Ry X (alla voce, spesso sussurrata, tra il confidenziale e l’inquietante, autore di un buon ep, Berlin), Adam Freeland (quello di “We Want Your Soul”) e Steve Nalepa (professore di “music technology” e compositore lui stesso, recentemente definito da LA Weekly come “the professor of party”). Potrebbe sembrare i tre siano stati messi apposta insieme in un’operazione quasi da reality: ma la Infectious non è una major e i tempi di certo non sono adatti a trovate del genere.
Live at Biko
Dopo l’annullamento della data di Milano, i Black Sabbath riempiono il Palasport di Casalecchio proponendo un live potente, dall’impatto visivo tutto sommato sobrio, ma efficace. C’è la musica e la presenza. E una scaletta che guarda al primo lustro di produzione della band, o poco più.
Chissà cos’è successo di felice al siciliano Davide Iacono: il titolare del nome Veivecura, infatti, ha pubblicato quattro anni fa Sic Volvere Parcas, primo capitolo piuttosto scuro di una trilogia che è proseguita nel 2012 con le aperture di Tutto è vanità e si conclude oggi con Goodmorning Utopia. Ce lo chiediamo perché i toni di questo ultimo bel disco sono decisamente più solari e pacificati di quanto siamo stati abituati a sentire. Costruito intorno a sei canzoni più tre suite divise in parti e intitolate “Utopia”, l’album si concede derive decisamente più libere e leggere del solito, come in “Utopia I-II-III” dove compare anche un sax, o nella riuscita (e pop) “Oxymoron”.
C’è più psichedelia nel pur ricco elenco di ingredienti a cui attinge la musica dei Bo Ningen, quartetto giapponese di stanza a Londra: si intuiva qualcosa già dall’uscita di “DaDaDa”, uno dei brani più interessanti, nonché apertura, di III. Poliritmico, con voci che si intersecano e si richiamano, fa pensare agli Animal Collective, ma non è questa l’unica direttiva del terzo album della band, non così lontano dal precedente Line the Wall. Per esempio ritorna la voce di Jehnny Beth delle Savages, in “CC”, uno dei due brani in inglese (sì, per la prima volta un album dei Bo Ningen non è tutto in giapponese); l’altro è la bella “Silder”, dove canta Roger Robinson dei King Midas Sound.
Un tempo erano gli ascoltatori a connettere gli episodi della discografia di un musicista: oggi sono direttamente le etichette a promuovere un album come “X parte seconda” e non senza rischi.
Sulla carta è prevedibile solamente quale possa essere il terreno d’incontro tra Matthew Cooper, in arte Eluvium, e il chitarrista degli Explosions in the Sky, Mark T. Smith: il debutto dei due a nome Inventions, però, ha sviluppi autonomi che non si limitano ad essere una somma delle parti. Alla base, certo, c’è l’unione degli splendidi spazi sonori a cui ci ha abituati Cooper con i vortici ascensionali che sono un marchio di fabbrica della band texana: una connessione che crea una sorta di versione “da camera” di questi ultimi.