televisione italiana

Buona televisione

Ho vissuto il fine settimana precedente a quello che ci siamo appena lasciati alle spalle in una strana condizione. ISBN Edizioni mi aveva fatto avere il cofanetto di Avere Ventanni appena in tempo, appunto, per il week-end, e sapevo che avrei avuto solo quei giorni per preparare l’intervista a Massimo Coppola. Venticinque ore di documentari in meno di cinque giorni. Sono sei ore al giorno. Mica poco. Ma ce l’ho fatta, a discapito della mia presenza nel mondo reale, come succede sempre quando ci si immerge in qualcosa di totalizzante.
Vedere Avere Ventanni con questa modalità non è una cosa che posso consigliarvi di fare: rischierei la denuncia per ipnosi indotta. Ma vedere di seguito le tre serie andate in onda su MTV tra il 2004 e il 2006 ha anche diversi vantaggi. Il primo è percepire sensibilmente gli aggiustamenti di rotta degli autori (oltre a Coppola ci sono Giovanni Giommi, Alberto Piccinini e Latino Pellegrini) nelle prime puntate della prima serie. Coppola all’inizio prova a fare il suo alter ego (talvolta fastidioso) che c’era in Brand:new o in Pavlov, ma la realtà lo supera a destra. Comincia quindi giustamente a pensare che è un altro Coppola che deve porsi di fronte ai ventenni che incontra in giro per l’Italia: usa allora il retroterra filosofico, ma nel senso più pragmatico possibile. Coppola, quindi, inizia a domandare cose semplici e d’ordine quotidiano agli “eroi” delle puntate: cosa fanno, qual è il mestiere dei genitori, quanto guadagnano, se sono fidanzati. Entra nelle case, nelle stanze degli studentati, nei karaoke bar, nei cantieri, negli androni dei palazzi, nelle macchine, negli uffici. Spesso va in un posto per parlare con qualcuno e scopre che la storia di un altro è molto più interessante: l’obiettivo cambia repentinamente, libero da ogni pesantezza produttiva, considerando che tutto è realizzato con tecnologie digitali portatili. Infine Coppola e i suoi ascoltano, con curiosità e partecipazione, ma senza compatimenti. E, quando arriva la compassione, quando neanche gli autori riescono a trattenere il dolore e la tristezza, semplicemente, abbassano la camera e la spengono.

Interrompere una registrazione è un atto realmente rivoluzionario, in ambiti intimi come quelli raccontati da Avere Ventanni. Nell’intervista potete ascoltare cosa Coppola pensa di quella che ho chiamato “etica della videocamera”, e di cui ho parlato spesso qua sul blog. Che senso ha zoomare sulle lacrime, infilare obiettivi tra le sbarre di cancelli chiusi, nominare ripetutamente le persone uccise, domandare tenendo attaccato il microfono all’altoparlante di un citofono? Nessuno. Eppure è così che la televisione italiana intende l’informazione, nella maggior parte dei casi. Già per questo Avere Ventanni ha un valore programmatico fortissimo ma, ahinoi, del tutto inascoltato. Il pudore e l’intelligenza di questi documentari sono un episodio occasionale e isolato nell’ambito televisivo italiano.
Ma l’importanza di Avere Ventanni va oltre l’aspetto etico e formale a cui ho accennato. Vedere decine di ore di girato in pochi giorni mi ha illuminato sulla rilevanza storico-documentale che questo cofanetto ha. Ricordo ancora quando, nelle prime lezioni di storia delle superiori, il professore ci spiegò che cosa si intendesse per “documento” in quell’ambito. Scorrendo le storie raccontate nel cinque dvd, mi è tornato in mente il significato primo di questo termine molto usato (e quindi spesso abusato): effettivamente queste puntate sono un documento storico importantissimo per l’Italia contemporanea, ogni minuto e ogni inquadratura è portatrice di significato e ben contestualizzata. Assenza di riferimenti politici, disgregazione sociale, povertà, disillusione, ignoranza, violenza. “Erano anni dolorosi”, mi ha detto Coppola, usando il passato solo per coerenza, visto che gli stavo chiedendo di quei primi anni zero in cui Avere Ventanni è stato girato: le cose non sono poi così tanto cambiate. Attenzione, però: si potrebbe obiettare che l’obiettivo dell'”indagine” degli autori fosse la condizione giovanile di quel periodo. Nonostante questo io credo che, alla fine, Avere Ventanni parli del Paese tutto: perché, sebbene le classi dirigenti italiane facciano di tutto per negarlo o ignorarlo, sono i ventenni che iniziano a costruire, ricostruire ed eventualmente a cambiare una nazione. Proprio quelli che oggi stanno abbandonando in massa l’Italia e che, solo sei anni fa, avevano ventanni.

Bella de paella!

L’ultimo arrivato tra i miei coinquilini è basco. No, non aspettatevi un rivoluzionario che parla di politica e di autonomia: ho affrontato con lui l’argomento solo una volta, e non mi è sembrato particolarmente interessato. Magari lo fa per dissimulare e domani arriva l’Interpol sezione antiterrorismo. Comunque, per quello che appare, B. potrebbe essere basco, andaluso, o galiziano. Spagnolo lo è di sicuro, non tanto per la lingua che parla, quanto per la musica che ascolta. Dalla sua camera provengono continuamente canzoni ritmate da battiti di mani e schitarrate, il cui testo è riassumibile in una parola: “Maria”. Certo, che mi capitasse in casa lo spagnolo rockettaro, con un passato dolorosamente ammesso di militanza nel fan club degli Heroes del silencio e con un fulgido presente tra i sostenitori degli Standstill, era abbastanza improbabile. Ma comunque.

B. fondamentalmente ha due passioni. La prima è il ciclismo, nel senso che è un semiprofessionista, ma in questa stagione non si pratica, quindi va solo in palestra (forse a fare spinning?). La seconda sono le ragazze, parola che lui pronuncia “ragacce”. E che ripete all’infinito, come un mantra. “Ragacceragacceragacceragacceragacce”. Penso che da quando sta a Bologna, tre mesi, B. abbia scopato un paio di volte. Non è che mi faccia gli affari degli altri. E’ proprio che lo dice. Lo si vede entrare in cucina raggiante, passano i minuti e non dice neanche una volta “ragacce”. Allora capisci. Gli fai mezza domanda e lui vuota il sacco. “Ragaccia”.

B., come tutti gli spagnoli, impara in fretta la nostra lingua e i vocaboli italiani, soprattutto nelle aree semantiche che gli interessano di più. Grazie a G. detto Peppino, adesso sa descrivere con dovizia pornografica un rapporto sessuale, dai preliminari all’orgasmo, tutto in barese stretto. Solo che lui è convinto che quell’idioma sia nazionale, quindi va in giro a dire “ciola” (indovinate un po’ quello che vuol dire) a destra e a sinistra pensando che tutti lo capiscano. Quelli che lo capiscono gli rispondono in barese e lui racconta di amplessi e di “ragacce”.
B. è affascinato dalla televisione italiana. Dice che è la televisione più bella del mondo perché ci sono solo “belle ragacce”.
Ieri B. ha visto per la prima volta in televisione, di pomeriggio, Aida Yespica. Vi tralascio i commenti, anche perché se non siete di Bari vecchia non capireste. Poco dopo ha visto, sempre in televisione, anche DJ Francesco, e i miei coinquilini gli hanno spiegato dell’affaire tra loro due. Quando ha realizzato che DJ Francesco ha presumibilmente trombato con la Yespica, B. è impazzito totalmente. Ha iniziato a dire “Es increìble” o qualcosa del genere (quando è particolarmente colpito da qualcosa, B. smette di parlare barese e torna alla sua lingua nazionale). P. gli ha detto subito dopo che la Yespica parla spagnolo come lui. “Ah sì?”, ha detto B. Un lampo nei suoi occhi.
Io faccio due conti. B. è un simpatico cazzone come DJ Francesco, è carino, giovane, forte e determinato.

Se una simil-Yespica passa da queste parti, vi faccio un fischio.

TV disservizio

Ho appena visto la prima puntata del programma “Il teatro in Italia” di e con Dario Fo e Giorgio Albertazzi, andata in onda su Rai Due nello spazio di Palcoscenico. Un programma ben fatto, interessante e divertente. E fin qua… Ma, come forse saprete, questa è soltanto la prima puntata, su un totale di nove previste. Il problema è che è l’unica che è stata registrata. Ebbene sì, delle altre otto non se ne sa nulla. Anche i due autori hanno detto che non sanno se le altre verranno realizzate, forse, dicono, la loro esistenza dipenderà da problemi di ascolto.

Si fa un gran parlare del cinquantenario della televisione pubblica, anniversario importante, celebrato nei modi più disparati. Proprio oggi pomeriggio ho visto su Rai Tre un interessante servizio sull’informazione in Rai, curato da Primo Piano, il programma di approfondimento della terza rete. Venti minuti molto (troppo?) veloci, in cui venivano ripercorse le tappe più importanti dell’informazione nella televisione pubblica, parlando anche dei modi in cui viene e veniva fatta, oltre che dei contenuti, degli eventi.
Forse non guardo abbastanza la televisione, ma era da tempo che non vedevo un programma realmente culturale e ben fatto come quello di stasera sulla storia del teatro. E ovviamente non si sa che fine farà.
Attenzione: questo è solo uno sfogo, purtroppo conosco abbastanza bene gli orrendi meccanismi che regolano la televisione italiana…

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