Archivi mensili: Febbraio 2022

Dagli archivi: Concorso di colpa (Claudio Fragasso, 2005)

Di Claudio Fragasso
Con Francesco Nuti, Alessandro Benvenuti, Antonella Ponziani, Luca Lionello, Massimo Bonetti
Durata 95’
Distribuzione Luce

La storia: Il commissario di polizia Francesco de Bernardi, in seguito al suicidio di un extraparlamentare di sinistra, si trova ad indagare su un presunto omicidio politico ai danni di un estremista di destra ucciso venticinque anni prima. Questo caso lo obbligherà a fare i conti con il passato e con quelli che erano i suoi amici di allora.

Il ritorno al cinema di Nuti avviene con quello che si può tranquillamente definire un film di genere, che si rifà ad un periodo difficile da trattare per il nostro cinema, anche se i tentativi non sono mancati. Ispirandosi, seppur vagamente, ad alcuni fatti di cronaca degli anni ’70, Fragasso prova a costruire una storia intricata, con rimandi continui al passato e al presente, usando dei ponti espliciti o dei richiami più velati per tentare un rimando continuo tra la realtà odierna e quella degli anni di piombo, senza cadere nell’assurdità di metterle in qualche modo in parallelo. Sebbene il film non abbia alte pretese, ha degli ottimi spunti e, qua e là, delle trovate originali che tuttavia rischiano di perdersi lungo lo svolgimento della trama.

Innanzitutto Concorso di colpa soffre della malattia comune del cinema di genere italiano, cioè la mancanza di una struttura scritta solida. La sceneggiatura di Rossella Drudi, infatti, se talvolta è valida (basti pensare ai dialoghi tra Nuti e Benvenuti, in un contesto assai diverso da quello a cui eravamo abituati vederli), in altri momenti crolla. Questo accade nella definizione di ambienti (case di gente-di-sinistra con libri Adelphi in vista e foto di Berlinguer) e, soprattutto, dei caratteri. Basti pensare al personaggio del figlio di Nuti, rivoluzionario di oggi, cioè (?) no-global, al quale vengono messe in bocca frasi che neanche un brigatista fanatico dell’ipotassi si sarebbe mai sognato di pronunciare a quei tempi.

Altri simbolismi, come l’eterna partita a scacchi che giocano il commissario e il giudice, finendo sempre in pareggio, appesantiscono un film che ha, invece, ben più di qualcosa da dire. Prima di tutto, bisogna riconoscere a Fragasso una capacità registica non indifferente: il ritmo è elevato dall’inizio alla fine, con la macchina da presa che raramente prende posizioni non giustificate o giustificabili, senza cadere in manierismi. Il tutto è ben esemplificato nel finale, in cui se da un lato c’è la necessità di tirare i fili di uno script che non sempre risulta essere compatto, dall’altro il passo del film aumenta e riesce quasi a fare dimenticare, con la semplice forza di alcune immagini, gran parte delle lacune incontrate precedentemente.

Recensione originariamente apparsa su duellanti, ottobre 2005

Dagli archivi: Cursed – Il maleficio (Wes Craven, 2004)

Cursed

Di Wes Craven (Usa 2004)
Con Christina Ricci, Jesse Eisenberg, Joshua Jackson, Judy Greer
Durata 96’
Distribuzione Buena Vista International Italia

La storia: I fratelli Ellie e Jimmy Hudson, nella stessa notte, assistono ad un incidente stradale. Mentre tentano di soccorrere una ragazza ferita, una creatura li assale, sbrana la ragazza e li ferisce entrambi. Da quel momento le loro vite non saranno più le stesse, perché la creatura è un lupo mannaro e il suo morso li ha contagiati.

Ritorna l’accoppiata Craven/Williamson, quella di Scream per intenderci, e un modo per leggere questo Cursed è forse proprio quello di avvicinarlo alla serie di metahorror creazione dei due, anche se di tempo ne è passato per l’horror contemporaneo.

Ci sono stati due sequel di Scream, subito dopo tre film parodia dell’horror (Scary Movie), una serie di remake di classici degli anni Settanta e, contemporaneamente, l’invasione di prodotti orientali e i loro rifacimenti. Nonostante questa abbondanza, c’è da dire però che l’immaginario orrorifico classico occidentale ha tuttora qualche crisi di identità, e gli autori di Cursed lo sanno bene. Decidono quindi di puntare sulla tradizione pura, creando un film di lupi mannari schietto e semplice.

Lo spettatore smaliziato, che conosce le derive interpretative di Craven e Williamson, si trova sempre superato a destra da un proliferare di elementi e situazioni a lui note, come se il film diventasse un esplicito e divertito breviario, una specie di manuale.

Il quadro è sempre ricolmo di elementi noti all’appassionato, basti pensare alla sequenza ambientata nel locale di Jack, una sorta di “Planet Hollywood” dell’orrore, in cui spicca ovviamente Lon Chaney nelle vesti di licantropo e fa capolino anche Freddy Kruger. In quest’ottica il film è compatto, non si perde in contaminazioni con altri sottogeneri dell’horror e rispetta le regole fissate da Curt Siodmak (L’uomo lupo, 1941).

Regista e sceneggiatore rendono omaggio a una figura che è stata in gran parte fissata dal cinema nelle sue caratteristiche fisiche e caratteriali, a differenza di altre icone dell’horror classico di derivazione letteraria. E, ovviamente, si ricordano della sofferenza e della profondità psicologica che ha donato Landis al suo lupo mannaro americano a Londra (gli effetti speciali sono dello stesso Rick Baker).

Infine è da segnalare il rimando al teenage movie: i cenni a I was a teenage werewolf (1957) e a Voglia di vincere – Teen Wolf (1985) sono evidenti e suggellati dalla presenza, nei panni di se stesso, di Scott Baio, il “Chucky” di Happy Days; e quest’ultimo entra un ulteriore cortocircuito con Joshua Jackson, uno dei protagonisti di Dawson’s Creek.

Recensione originariamente apparsa su duellanti, luglio 2005

Dagli archivi: Ocean’s Twelve (Steven Soderbergh, 2004)

Ocean’s Twelve

Di Steven Soderbergh (USA/Australia 2004)
Con George Clooney, Brad Pitt, Matt Damon, Catherine Zeta-Jones, Julia Roberts, Andy Garcia, Vincent Cassel
Durata 125’
Distribuzione Warner Bros.

La storia: Terry Benedict ha rintracciato gli undici di Ocean, la banda che lo ha rapinato. E adesso rivuole indietro i soldi che gli sono stati rubati. Più gli interessi. La banda si riforma, ma entra subito in competizione con “il ladro più bravo del mondo”, Night Fox.

La storia la conosciamo bene: esattamente come è successo per Ocean’s Eleven, anche per il suo seguito Steven Soderbergh ha raccolto intorno a sé i suoi amici, che hanno lavorato per un compenso nettamente inferiore a quello per cui sono abituati a recitare, e addirittura ha girato a casa di uno di loro, la villa sul lago di Como di George Clooney. Il senso che Ocean’s Eleven lasciava allo spettatore era quello di puro divertimento, percepito anche nel film. Sembrava che gli attori si stessero veramente divertendo, mentre stavano girando, che il loro cazzeggio splendidamente cool (dio mi strafulmini se uso ancora una volta queste tre parole insieme) trasudasse dalla pellicola. E sono sicuro che tutti loro l’hanno ammesso, magari nei documentari allegati al dvd, che spesso diventano sempre di più una ripetizione, in salse diverse, della medesima affermazione: “È il set più bello sul quale ho lavorato.”

Il divertimento si percepisce anche in Twelve, senza dubbio. Sia a livello microscopico, con alcuni dialoghi tra Clooney e Pitt o tra Clooney e Damon ironici e leggeri, quasi da commedia sofisticata. Ma anche a livello macroscopico alcuni nodi della trama sono ingegnosi e, allo stesso tempo, ammiccanti: uno su tutti, il ruolo del personaggio interpretato da Julia Roberts nel piano finale, quando finge di essere una famosa attrice hollywoodiana (indovinate chi?), ma non riesce a trattenere l’emozione quando le si para davanti il suo “amico” Bruce Willis.
Il problema con questo film è, però, che il pubblico non si diverte più di tanto. La stilosità degli stilemi (perdonate il bisticcio) di Soderbergh diventa fastidiosa e fine a se stessa: zoom, fermo immagine, profusione di scritte, sono decisamente pesanti. Così come è macchinosa e intricatissima la trama. Un film-con-piano non può e non deve essere lineare, per carità; allo stesso tempo, però, un film che parla di una truffa non dovrebbe truffare a sua volta lo spettatore con una svolta finale troppo tesa al coup de théâtre che al rigore narrativo. Peccato, perché comunque Ocean’s Twelve rimane un film godibile, ironico e scanzonato. Esattamente come può essere (talvolta) una rimpatriata di vecchi amici particolarmente riuscita.

Recensione originariamente apparsa su duellanti, febbraio 2005

Dagli archivi: L’inventore di favole (Billy Ray, 2003)

Shattered Glass

Di Billy Ray (USA 2003)
Con Hayden Christensen, Peter Sarsgaard, Chloe Sevigny, Steve Zahn, Rosario Dawson
Durata 95’
Distribuzione Medusa

La storia: Nel 1998 un giornalista scopre che Stephen Glass, l’astro nascente dell’importante settimanale politico The New Republic, ha inventato del tutto o parzialmente gran parte degli articoli di successo che ha pubblicato.

Molta della forza di Shattered Glass, diciamolo subito, risiede nella storia che racconta, senza dubbio affascinante, ma che forse ha fatto rilassare su di essa Billy Ray, regista e sceneggiatore. Nonostante la buona prova di Sarsgaard, infatti, la caratterizzazione dei personaggi è un po’ tirata via, soprattutto quella del protagonista, che viene rappresentato soltanto come un giovane ambizioso che fa della modestia e di un understatement esibito i suoi tratti fondamentali.

Ma l’interesse del film non credo stia in quanto ci sia in esso di cinematografico (o di televisivo), bensì nel tema che fa emergere. Tutto è focalizzato sulle questioni etiche del giornalismo, anche in prospettiva “didattica”: si veda, a questo proposito, l’inizio del film ambientato in una scuola e le esercitazioni per alunni e insegnanti scaricabili dal sito ufficiale del film.

Una delle parti centrali della “lezione” che Glass tiene agli studenti della sua vecchia scuola è tesa a illustrare il metodo di verifica di un articolo, una serie di passaggi da reiterare più e più volte. L’ultimo punto di questa routine riguarda gli appunti del giornalista: anche quelli devono essere controllati, sebbene alla fine sia il giornalista a fare da garante sulla loro veridicità. Proprio qui sta il centro di Shattered Glass: Peter sbandiera i suoi appunti e quindi la sua persona, forgiata a forza di gentilezze e premure nei confronti degli altri, come garanzie di verità di quello che scrive.

Tuttavia gli appunti di Glass alla fine si rivelano essere falsi: in fondo sono solo le sue scritture private e personali, le sue favole, e in quanto tali non sono verificabili, esattamente come accade quando si scrive fiction. Lo spunto interessante del film, purtroppo solo appena accennato a mo’ di cornice narrativa, è che alla fine anche noi spettatori ci rendiamo conto di essere caduti nelle alchimie favolistiche e narrative dell’ingegnoso Glass, di avere creduto alle sue parole riportate, come il direttore del giornale e, soprattutto, come i lettori dei suoi articoli.

La conclusione di tutta la vicenda è perfetta nella sua “costruzione ad abisso”: Glass, adesso, fa lo scrittore, e il suo primo romanzo ha come tema quello di un giornalista che si inventa delle notizie per fare carriera.

Recensione originariamente apparsa su duellanti, gennaio 2005

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