I’m Happy Just To Dance With You

Questa sera tutti da Beck, è festa ye-ye* (Considerazioni sparse e frammentarie, come sempre dopo le feste ben riuscite)

La rassegna “Ferrara sotto le stelle” dà sempre gioie infinite, ma il concerto di ieri di Beck è stato qualcosa di più.
Hanno aperto i Raveonettes, ma non me li sono filati più di tanto: la mia attenzione è stata presa da tre cose, infatti. La prima è stata rendermi conto di quanto il batterista assomigliasse a Micheal Stipe. La seconda, capire se la cantante mi piacesse o meno (alla fine ho capito che non mi piaceva). La terza, capire a che animale assomigliasse un’americana che stava vicino a me: ancora non sono giunto a conclusione.

E poi è arrivato Beck.

Mancava solo il piffero che suonavo alle medie. Beck ha un approccio totale verso la musica: il palco è stracolmo di strumenti, almeno due set di percussioni attive, ma anche diamoniche, sintetizzatori e tastiere, bidoni di latta, ogni possibile variante delle maracas, bassi, chitarre, banjo (suonati per finta), rumori fatti con la bocca, na na nannannanna na na, tamburelli, tutto. E anche i generi toccati sono moltissimi, ma questo, di Beck, già si sa. Egli (adoro scrivere “egli”) rappa, canta, parla, salta, danza. Tutto. Si diverte e fa spettacolo, uno spettacolo totale.

Quanti Losers. Quando iniziano gli accordazzi slide, penso che, allora, la fa. La canzone che l’ha fatto conoscere nel mondo intiero è accompagnata da una foto dell’epoca di Mellow Gold (e non è che il signor Hansen sia cambiato molto, poi). Ovviamente tutto il pubblico canta a squarciagola il ritornello. O, sigh, qualcos’altro…

Intermezzo. Sono vittima di una persecuzione, da tempo: a qualsiasi concerto io vada, dietro di me ci sono sempre degli ubriachi, piuttosto imponenti fisicamente e di solito di origine veneta, che riescono in alcune imprese:
1. tenere a voce altissima un discorso che fondamentalmente prevede una persona A che dice “la conosci questa?” e una persona B che dice “no”: beh, riconosco loro una certa capacità dialettica e polmonare, visto che un dialogo del genere dura almeno venti minuti e riesce ad essere perfettamente udito nel raggio di cento metri, senza badare ai watt emessi dagli amplificatori;
2. usare le canzoni che sono suonate al momento per intonarci su cori da stadio o, più semplicemente, insulti di vario tipo, a caso o verso qualche particolare nemico del gruppo di alcolizzati: il tutto sempre ai toni indicati al punto uno;
3. nel momento in cui qualcuno fa notare loro che, insomma, vorrebbero sentire il concerto e non “daimoruzzifacciilgol, facciilgooooooool”, diventano educatissimi, chiedono scusa e stanno zitti: per un minuto esatto, per poi ricominciare esattamente come prima.

Heart. Beck ama la chitarra acustica, e tocca la vetta più alta del concerto quando riprende la sua cover di “Everybody’s gotta learn sometimes”, in maniera ancora più intima che nella colonna sonora di Eternal Sunshine. E io ho già gli occhi lucidi. Niente in confronto ad uno al mio fianco che, quando si passa al pezzo successivo, e poi a “The Golden Age”, scoppia in lacrime. Appena però gli altri componenti del gruppo, seduti ad una tavola apparecchiata, iniziano ad usare piatti, bicchieri e posate per accompagnare il brano, urla tra le lacrime “Stronzi” e si copre il viso con le mani. Mah. Secondo me è uno che è stato traumatizzato dal concerto del 1980 degli Skiantos**, e appena vede delle stoviglie su un palco impazzisce.

All Tomorrow’s Parties. Alla fine del concerto, salgono una ventina di persone del pubblico e, finalmente, mentre tutti ballano intorno a me, e sul palco, e tutti suonano qualcosa o percuotono qualcos’altro, capisco di essere ad una delle feste più divertenti della mia vita. Uscendo, effettivamente, nessuno usa la parola “concerto” e nessuno si preoccupa di avere fatto casino a casa Beck. Non vedo l’ora che mi inviti di nuovo. Magnifico.

* Il titolo è un omaggio ad una trasmissione radiofonica meravigliosa, che però non c’è più.
** Freak Antoni parlerà dei Beatles proprio stasera, dalle 2230, nella penultima puntata di Monolocane, una trasmissione radiofonica un po’ meno meravigliosa, che potrà essere ascoltata qui o qui. Perché dei Beatles? Perché esattamente quarant’anni fa facevano la loro prima e unica comparsa in Italia. Sì, ogni occasione è buona, ‘mbè?

Ecco l’intervista a Freak Antoni!

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Sorrisi metallici

Sabato scorso sono stato, per la prima volta in vita mia, al Gods of Metal. Pensavo di raccontare qua alcune delle cose buffe che ci sono successe, ma ci ha già pensato Valido, quindi andatevi a leggere i suoi resoconti.
Parlerò invece di alcune sensazioni che ho provato. Intanto, la gente, la quantità strabordante di persone che si è riversata nell’Arena del Parco Nord qui a Bologna. Roba da ripetersi continuamente “Sono ad un raduno di metallari nel 2005”, chiudere gli occhi, strabuzzarli, ripetere dall’inizio. Qualcosa come trentamila persone almeno, ma probabilmente di più. Trentamila persone che hanno sborsato cinquanta euro a giornata. Ed ecco la prima considerazione.
Al metallaro non gliene importa nulla dei soldi, quello che conta è vedere il concerto, i suoi idoli che saltano da una parte all’altra del palco, le chitarre suonate a mille all’ora, circondato da sudatissime t-shirt nere. Non esiste la politica di prezzo, l’autoriduzione, si paga e basta. Orgogliosamente.
Attenzione, non crediate che guardi tutto dall’alto, eh no. Perché come molte persone di mia conoscenza, più o meno coetanee, il mio primo approccio con la musica è stato proprio con l’heavy metal. Ma non sto parlando delle prime canzoni ascoltate (altrimenti Cristina D’Avena andrebbe in rovina, e sarebbe in piazza Verdi a mendicare una birra), bensì della prima passione musicale. Per me, un nome: gli Iron Maiden, headliner della prima giornata del festival. Per una serie di motivi, quindi, ho visto gli Iron Maiden quasi quindici anni dopo avere sentito le loro prime cose, e, diciamo, quattro anni dopo avere smesso di sentirli.

Fede: Hai qualcosa degli Iron in cd?
Io: No, tutto in cassetta. Ma tutto.

Questo dialogo è esemplificativo di quando collocare gli Iron Maiden nella mia vita, fatta di walkman, cassette e disagio da provincia remota. Ma è stato un concerto bellissimo, ho cantato tutte le canzoni (breve considerazione: in quali accidenti di neuroni sono immagazzinati i testi delle canzoni degli Iron Maiden? Perché quelli e non – anche – la storia romana, che pure devo avere studiato, come da programma ministeriale?), e mi sono distratto solo durante gli assoli. Seconda considerazione.
L’assolo è il cancro che ha divorato il metal dall’interno. Sebbene, infatti, le scenografie siano spesso pacchiane, le mosse improponibili, per non parlare (talvolta) dei testi, tutto passa e va, basta crederci almeno per un po’. Ma gli assoli, cristo, gli assoli no. Perché esiste l’assolo heavy metal, che a volte si impersonifica, raggiungendo la corporeità (nel caso in questione, una grossa corporeità)? I riff rimangono, e vengono pesantemente sfruttati anche adesso (vedi l’ultimo singolo dei Daft Punk). Il discorso vale anche per gli Slayer, che hanno preceduto i Maiden (altro concerto decisamente emozionante). E vale per tutti i pezzi metal, almeno per chi ama questo genere. Insomma, inizia il pezzo, riff iniziale, si inizia a scuotere la testa, si batte il piedino, ci si getta nel pogo, ritornello cantato a squarciagola, e poi… Come il coitus interruptus, l’assolo (anche se i fan degli Iron Maiden si riconoscono per la caratteristica peculiare di cantare gli assoli: na nananaaaa naaa naaa, o con variante vocalica: oooo-ohohohooooo): si tenta di tenere il tempo per qualche secondo, il tempo di sentire dodici scale pentatoniche, ma poi basta, ci si guarda intorno, si fa o-oh, ma, fondamentalmente, si aspetta che tutto ricominci.
Ma mi sono divertito, eccome. È stato come piombare ai miei quindici anni, senza passare dal via, così. Mi è spuntato un brufolo, ho pensato ad una mia compagna di classe tettona ma inguardabile, e ho sorriso.
Eh, già, ho sorriso, perché la terza considerazione è che, a differenza di discotecari mascellati, indierocker attenti a non spettinarsi la frangetta, emoboys che si tingono la chioma di nero, b-boys che, alla fine, soffrono della scomodità di pantaloni troppo larghi, i metallari si divertono e sono veramente felici. E, soprattutto, se ne sbattono delle mode e della ricerca spasmodica e spesso insensata del nuovo-a-tutti-i-costi: le decine di migliaia di persone che erano sabato a cantare con Bruce Dickinson ne sono la prova. Anzi: la fottuta prova.

Fans

Leggevo recentemente dei problemi che ebbe la copertina del primo disco dei Residents. La presa in giro, nel titolo, e soprattutto nella grafica di copertina, del primo disco dei Beatles uscito in America, per la Capitol, è evidente. E pare che siano stati proprio i fan dei Fab Four a lamentarsi per primi, parlando di “lesa maestà”, o qualcosa del genere. Nelle note di copertina della nuova ristampa del terzo disco dei Residents, a sua volta “problematico” in quanto riportava alcuni simboli nazisti, il curatore della nuova edizione diceva, a proposito di Meet the Residents, che probabilmente i Beatles erano molto più intelligenti dei loro fan e non se l’erano presa per niente per quello che avevano fatto i Residents.

Mi piacerebbe mettere alla prova i fan dei Beatles con questo. Si tratta di un medley di canzoni dei quattro rifatte da Frank Zappa l’otto marzo 1988, spingendo lievemente sul versante pornografico. Leggero, innocente e sporcaccione come una canzoncina di bimbi. Sentitelo, nel file zip c’è anche il testo.

Ringrazio per il dono il caro fratello di parole, tornato finalmente alla scrittura.

Siamo alla frutta che però, talvolta, aiuta a digerire e rinfresca

Un po’ come “tua Prinz chiuso” e Roger Rabbit quando inizia a sentire “Ammazza la vecchia…”, non resisto al tremendo stimolo. Perdono.

1. Volume di file musicali sul mio portatile
Una decina di giga. Ma è tutta robba legale, eh, marescià?

2. L’ultimo CD che ho comprato
Sono cinque, perché anche io ho saccheggiato il negozio morente di recente:
Monster – REM
Good Morning, Vietnam! – OST
Lenny – OST
Nashville – OST
Alice in Chains – ST
… e anche il doppio vinile del Best Of dei Sisters of Mercy. Vale?

3. Canzone che sta suonando ora Enzo in diretta
Lucksmiths – Young and Dumb

4. Cinque canzoni che ascolto spesso ultimamente
È che io ascolto i dischi, non mi viene quasi mai di mettere una particolare canzone.
Spesso e ultimamente, ahivoi, continuo ad ascoltare compulsivamente il tanto bistrattato With Teeth. Tutto? Eh, oh. Tutto.

5. Cinque persone a cui passo il testimone
Perdonatemi. Ehm, dunque:
Simak, Iri, Latifah, Cicc&Soft, Mattonella. Quando potete, eh. Se potete. Ma anche no. ‘Nsomma, vedete voi. Basta che quando mi vedete non mi sputate in faccia.

Di |2005-05-20T21:51:00+02:0020 Maggio 2005|Categorie: I Am The Walrus, I'm Happy Just To Dance With You|Tag: , , , |11 Commenti

Con le unghie e con i denti

“Nine Inch Nails is Trent Reznor”. Questa era una delle frasi scritte sul libretto di Pretty Hate Machine, il primo disco dei NIN.
Anche l’ultimo With Teeth, in un certo senso, riporta questa frase. Nel senso che all’interno del cd, che manca di libretto (qui le considerazioni di Trent sul perché di questa scelta), c’è una foto di Trent Reznor, che sfuma riducendosi in linee, che a loro volta si rifanno all’artwork del disco. Immagine azzeccatissima.
Perché in questo lavoro più che in altri c’è Trent al centro di tutto, e il suo precario equilibrio. Nei sei anni passati dall’uscita di The Fragile, ultimo lavoro in studio dei NIN, Reznor non è stato bene per niente. Ha ammesso una dipendenza da alcol, ha avuto problemi seri con manager ed etichetta, è stato male. Speriamo che questa incertezza che trapela in tutte le tracce di WT sia un ricordo di quello che è stato, l’ultimo passaggio per liberarsi definitivamente di un periodo difficile.
In tutto il disco le parole che ricorrono più spesso riguardano il senso di appartenenza (“belong”), e l’amore, ma sono sempre altri che amano e sono amati, e l’appartenenza e la sicurezza del cammino sono degli insetti, o di altre persone. Il “you” che prevale nel disco è generico, ma non si tratta più del segnale di schizofrenia presente nel capolavoro The Downward Spiral. Con quel disco siamo dalle parti del romanzo in terza persona, questo è autobiografia, un’intima confessione di un’ora.
La struttura musicale ha due richiami forti: una parte più elettrica e violenta (“You Know What You Are”, “The Hand That Feeds”, “Getting Smaller”, tanto per fare degli esempi), e alcuni pezzi che si rifanno direttamente a Pretty Hate Machine, come “Only”, prossimo singolo. In verità, però, c’è anche un terzo richiamo, trasversale a tutto il disco, che coincide con la forma canzone in “Right Where It Belongs”, la traccia che chiude WT. Sono queste le parti in cui viene fuori Reznor stesso, senza filtri (metaforici e reali), senza unghie e senza denti. Debole in maniera commovente, come forse non lo era mai stato.
Come dicevo, Reznor è il centro di questo disco, in tutte le sue sfaccettature. In quella più politica (“The Hand That Feeds“), quella più solitaria e pensierosa (“All the Love in the World“), quella più rabbiosa, simile per suoni e testi all’accoppiata Broken/Fixed (“You Know What You Are“). Certo, ci ci si potrebbe chiedere chi sia il “tu” (“pieno di merda” e che “non ha mai sentito una mia parola”) a cui Trent si riferisce. E si potrebbe anche pensare che, in fondo, c’è una canzone dolce e quasi positiva quasi al termine dell’album, come “Beside You in Time“, che potrebbe ribaltare l’ossessione dei testi precedenti, e che dà anche una notevole apertura musicale, dolce e intima. Ma non è quello l’ultimo momento di WT.
Reznor, infatti, chiude il suo nuovo album con una delle canzoni più belle che abbia mai scritto, “Right Where It Belongs“, in cui tutte le supposizioni vanno a farsi benedire, ed emerge da testi e musica una rassegnazione ed un’angoscia di cui possiamo trovare un precedente solo nella chiusura di The Downward Spiral, cioè “Hurt”. Alla fine di With Teeth, Trent si rivela dubbioso di tutto, cantando sommessamente e chiudendo il suono. La voce e la musica riprendono corpo solo quando emerge, inquietante e pervasivo, l’urlo della folla ad un suo concerto. Un urlo che fa venire i brividi, e quasi copre il cantato, che recita:

What if everything around you,
Isn’t quite as it seems?
What if all the world you think you know,
Is an elaborate dream?

Un dubbio che non è, come hanno sostenuto in molti, capzioso e adolescenziale (lo dice in “The Line Begins To Blur“, canzone chiave e adulta come non mai), ma ontologico, che riguarda la vita più appariscente di Reznor, quella dei Nine Inch Nails, appunto, la massa urlante che copre il singolo sul palco. Una massa urlante necessaria. E quasi per dare forza ai suoi fan (mi verrebbe dire, esagerando, per sentirli più vicini), Trent Reznor ha regalato loro il suo singolo più facile, smontato (qui i pezzi per Mac, qui quelli per PC*) per poi essere remixato da chiunque a piacere, dando ad altri (me compreso, come potete ascoltare qua sotto) la possibilità di fare quello che lui ha reso una pratica attesa dei suoi dischi, visto che ogni lavoro in studio è stato seguito da un disco di remix e rielaborazioni.
Non posso definire With Teeth un capolavoro. Ma non importa. Quando si sente qualcuno parlare sinceramente, non si fa caso alle pause e agli errori. Si ascolta, e basta.

*grazie al prolifico lavoro dei membri del Nine Inch Nails Forum Italia.

Trilocane (con servizi esterni)

Puntata ricca, quella di Monolocane di stasera. Intanto ci sarà un’intervista registrata a Paolo Nori, che ci parlerà del suo ultimo libro Ente nazionale della cinematografia popolare.
Poi parleremo anche delle elezioni britanniche, forse con in studio il diretùr della radio e fors’anche con un inviato da Londra. Quindi, state composti.
Ma la cosa più difficile sarà scegliere le due tracce da farvi sentire dall’ultimo bel disco dei Nine Inch Nails, With Teeth.

Stasera, dalle 2230 sui bolognesissimi 96.3 e 94.7 Mhz o in streaming su Città del Capo Radio Metropolitana (o anche su Radionation).

Aggiornamento: l’intervista a Paolo Nori è qua (vi serve, come al solito, Real Player).

L’intervista è anche qua!

RicordaRivoluzioni

Sento per bene solo adesso, dopo mesi dalla sua uscita, il disco d’esordio degli Offlaga Disco Pax, Socialismo tascabile (prove tecniche di trasmissione).
I richiami musicali sono evidenti: senza sforzarsi troppo, viene subito in mente lo stile dei CCCP, quello più parlato e meno legato al punk. Ma il richiamo è solo superficiale, e non può andare più a fondo, se vogliamo guardare bene, perché sono passati degli anni importanti.

I CCCP suonano sentendo nell’aria la caduta del blocco sovietico: descrivono il mutamento in atto sotto i loro occhi, cosa difficilissima, e tentano di fissarne alcuni punti, tra un pezzo e l’altro dei loro dischi.
Gli ODP iniziano a suonare quando l’89 è passato da un pezzo. La loro operazione, quindi, è dichiaratamente un recupero della memoria, dell’Italia socialista (e quanto è difficile ormai associare il nostro paese a questo aggettivo senza pensare a Craxi bersagliato di monetine fuori dall’hotel Raphael, almeno per chi, come me, è nato alla fine degli anni ’70), dell’Emilia rossa, la stessa regione – ma decisamente non gli stessi luoghi – nella quale vivo da quasi dieci anni. Cavriago, un paese alle porte di Reggio, come capitale dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Italiane. Cavriago e la sua via Carlo Marx, e il busto di Lenin, tuttora sindaco onorario del paese.
L’infanzia aromatizzata al cinnamon, i racconti di partigiani narrati dagli stessi partigiani, il partito comunista al 70, ma anche 80 per cento.
Gli ODP sanno che tutto questo non esiste più, non si rifugiano nel ricordo, lo evocano, con oggetti, sapori, frasi, toponomastiche, in un’operazione che non può non ricordare quella di Matteo B. Bianchi (e di altri prima di lui). E non si vergognano di usare parole come socialista, nel senso vero del termine, di chiamare la figlia del sindaco “compagna”, ma senza il sorrisetto ironico che usiamo “noialtri”, nati irrimediabilmente post.
Ma non pensiate che gli ODP siano seriosi: come tutte le persone intelligenti usano l’ironia nelle giuste dosi, quando più serve, e, prima che suonare, scrivono dei racconti bellissimi che hanno forza evocatrice per tutti. Anche per me, così lontano da tutto questo.

Penso a me, da piccolo, nella sezione del Partito comunista, in una città che rimarrà sempre e comunque democratico-cristiana, anche quando il primo di questi due termini perderà irrimediabilmente di significato. Penso a me più grandicello, che raccolgo firme nel corso della cittadina e prendo insulti, o, quando va bene, occhiatacce. Penso a me, che sogno l’Emilia cantata dai CCCP, e invece mi trovo a due passi qualcosa che sta cambiando, la Slovenia, della quale non riesco ad avere un’occhiata approfondita e critica, perché tutto è troppo veloce, rapido, e si muove al ritmo schizoide, fatto di esaltazione e depressione, delle droghe sintetiche che sono così diffuse tra i miei coetanei “di là dal confine”. Penso a me a Bologna, appena arrivato, e a come sguazzo in quello che apparentemente mi sembra un “mondo giusto”, ma che in realtà è, anch’esso, drammaticamente in fase di rapida mutazione.

Penso che, di un sacco di cose, non ho i miei ricordi, ma quelli degli altri.
Grazie, Offlaga Disco Pax, perché mi avete regalato una nostalgia di cui posso appena distinguere i contorni.

Se non conoscete gli ODP, manderò qualche loro pezzo stasera a Monolocane. In diretta dalle 2230 sulle frequenze di Città del Capo – Radio Metropolitana, o in streaming qui o qui.

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Ani Difranco a Monolocane!

Stasera, a Monolocane, riproporrò l’intervista telefonica che ho fatto martedì a Ani Difranco, già andata in onda a Patchanka. Una chiacchierata di una decina di minuti, in cui si è parlato molto di Knuckle Down, l’ultimo disco di Ani, ma anche della difficoltà di rendere poetica l’espressione “corporazione multinazionale”.
Dalle 2230 alle 0030 sui 96.3 o 94.7 MHz di Città del Capo – Radio Metropolitana, se stasera siete nei regi confini bononiensi. Se no, potete sentire il tutto in streaming dal sito della radio o su RadioNation.
(Se stasera andate a sentirla a Milano, beati voi. Potrete recuperare l’intervista da venerdì sulla pagina del programma, come al solito.)

Ora qui!

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Di cosa parlano quando parlano d'amore

La prima volta che ho sentito The Plural of the Choir, o quantomeno la sua penultima versione, è stato in una sera d’estate, credo ad agosto, seduto nella camera del fratello di Emilio, uno dei due chitarristi dei Settlefish. Da subito ho colto l’intimità del disco, anche grazie alla particolare situazione di quella sera. In silenzio davanti ad un computer per quaranta minuti scarsi, a bocca aperta.
Il mio amore per i Settlefish non è cosa nuova: conservo ancora con cura uno dei loro primi demo, il “tre tracce” che poi ha dato vita al loro primo disco per Deep Elm, Dance Awhile Upset. E di loro ho sempre apprezzato la grande apertura musicale, l’ottima preparazione tecnica e il loro naturale sfuggire della loro musica da qualunque tipo di etichetta.
Con il loro ultimo disco si va oltre, perché c’è un impressionante miglioramento della qualità di scrittura della musica, diretta e modesta (nel senso migliore del termine), nonostante la puntigliosa produzione di Brian Deck. I Settlefish stavolta parlano d’amore, e di relazioni che finiscono, con canzoni per lo più brevi, con un’attitudine pop nel vero senso del termine, e si mettono a nudo con semplicità, cercando l’unico rifugio, se così si può chiamare, nei testi sempre abbastanza ermetici di Jonathan, che però si lascia sfuggire un “the warmth i get when i play when i play in this band.” (“Ice in the Origin”). È calore, non è “emo” o “indie”.
Provate ad ascoltare The Plural of the Choir in cuffia, mentre passeggiate, e guardatevi intorno: vi sembrerà la colonna sonora di un film. Questo non è una novità. Ma il film che vedrete sarà bellissimo.

(Se volete vederli, non perdetevi il release party di The Plural of the Choir, venerdì prossimo al Covo.)

The Monolocane Sessions (John Peel, si fa per scherzare, eh)

Puntata decisamente speciale quella di Monolocane di stasera. Infatti, saranno miei graditi ospiti in studio Jonathan Clancy e Bruno Germano dei Settlefish, che presenteranno per la prima volta in radio alcune tracce del loro ultimo disco The Plural of the Choir, in uscita tra pochissimo per Unhip records, in versione acustica.
Roba grossa, amici. E delicata allo stesso tempo, come piace a noi.
Dalle 2230 alle 0030 sui 96.3 o 94.7 MHz di Città del Capo – Radio Metropolitana, se pasteggiate a lambrusco e tortellini. Se no, potete sentire il tutto in streaming dal sito della radio o su RadioNation.

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