Paperback Writer

My N.Y.C. from A to Z – 2

iPod. Il lettore mp3 più popolare del mondo è più diffuso dei semafori, a New York: se l’anno scorso tutti avevano il modello “video”, quest’anno – ovviamente – hanno tutti il “touch” o l’iPhone. Ma quando dico tutti, intendo tutti: ho visto signori nel pieno della terza età smanettare sullo schermo, scegliendo – chissà – tra standard di Tony Bennett e sinfonie di Mahler. Ci sono altri sintomi legati alla popolarità dell’aggeggio: negli Apple Store in cui sono stato, quello “storico” di Soho, ma anche quello nuovissimo e aperto 24 ore su 24 della 5th Avenue, gli iPod vengono venduti come bruscolini, ad una velocità impressionante. E anche al concerto di Feist, per carità, tutti contenti e partecipi ad ogni brano suonato, ma mai quanto è stato per “1234”, canzone usata per uno spot del lettore. E se siete curiosi, sì, me ne sono comprato uno: costa 100 euro in meno che in Italia, e il mio non so a quante “manovre di Fonzie” potrà resistere ancora…

Job. Mi sa che nel post precedente alla mia partenza vi ho tratti in inganno involontariamente: non sono andato a New York a fare dei colloqui di lavoro, ma degli incontri di lavoro, cioè legati ad uno dei lavori che già faccio. Questo mi ha permesso di entrare nel Flatiron e nel palazzo della Random House. La cosa più difficile dello stare in posti del genere è non perdersi. Io, che come noto ho il senso dell’orientamento di un lombrico morto, spesso mi trovavo a prendere l’ascensore, salire al piano che mi serviva e… rimanere immobile in una lobby bianca, senza indicazioni sulle porte che vi si affacciavano, aspettando che qualcuno entrasse da qualche parte per seguirlo. Molto umiliante, ve l’assicuro…

Katz’s. Forse questo posto non vi dice niente. E se guardate questo? A parte il richiamo cinefilo, da Katz’s si mangia benissimo. Ho ordinato il famoso “pastrami sandwich”: immaginatevi due sottili fette di pane di segala (spesse circa mezzo centimetro l’una) con in mezzo una dozzina di fette di carne pastrami (spesse circa un centimetro l’una). Davvero. Un’esperienza quasi mistica. O dovrei dire orgasmica? Inoltre, come vedete nella foto, i salami di Katz sono lì apposta per risollevare il morale delle truppe…

Libri. Quest’anno sono andato in tantissime librerie, con la scusa di cercare un libro per un’amica. E mi sono reso conto che (come accade con la musica) a New York si possono acquistare ottimi volumi per pochissimi soldi. Non c’è solo Strand, che comunque è impressionante in quanto a spazi e quantità di libri in vendita, ma anche tantissime librerie di usato, disseminate ovunque per la città. Gli acquisti di cui vado più fiero? La prima edizione inglese, del 1925, delle novelle di Verga tradotte da D. H. Lawrence, regalate all’amico a Princeton (vedi più avanti), e la prima edizione di A New Path to the Waterfall, l’ultimo libro del sempre adorato Carver. In tutto, per i due volumi, ho speso 35 dollari, poco più di 20 euro.

Metropolitan Museum. Uno dei luoghi che non sono riuscito a vedere l’anno scorso, quest’anno non mi è sfuggito. Il Metropolitan è una città-stato, una specie di macchina del tempo e dello spazio talmente enorme che anche se è piena di gente sembra poco affollata. Il problema che un luogo del genere ha in comune con altri musei nel mondo è che, dopo un po’, tutte le bellezze che si vedono confondono e si confondono tra loro: una via di mezzo tra la sindrome di Stendhal e l’indigestione di cannoli. Comunque tutto è stupendo, bellissimo, emozionante, gigantesco. Una versione museale dei sentimenti che dà la città.

New Museum. Il nome completo sarebbe “New Museum of Contemporary Art”, ma viene chiamato soltanto “il museo nuovo” un po’ per la mania di abbreviare e condensare tipica newyorchese, un po’ perché effettivamente è la grande novità di Manhattan: siccome il MoMA e il Guggenheim non bastavano, e il Whitney (vedi il prossimo post), neanche, ecco prendere piede, nelle ultime due decine d’anni, il progetto di un museo dedicato solo all’arte contemporanea. Una struttura bianca e sbilenca, sulla quale campeggia una scritta colorata che dice “Hell, Yes!”. Questo dovrebbe farvi capire, ancora una volta, quanto questa città sia dinamica in tutto e per tutto. Per quello che c’è dentro adesso, vi rimando al sito.

Obama. Uno dei due candidati democratici per le presidenziali di novembre è dappertutto: o meglio, in negozi e banchetti ci sono le sue spille e magliette, in grande quantità (la migliore che ho visto era dedicata alla “minoranza” ispanica e diceva “Sì, se puede”: meravigliosa), ma ho visto poche effigi dell’omino sulla gente. Questo potrebbe farci riflettere. O anche no. Il clima che si respira riguardo alla sfida con la Clinton (che è vista alla stregua di una repubblicana), è che questa tenzone non sia volta a scegliere il candidato che dovrà sfidare McCain, ma che sia la campagna elettorale presidenziale vera e propria. Sperando che, tra i due litiganti, il terzo non goda, per evitare di beccarci un repubblicano, ancora, alla guida degli USA.

Princeton. Se l’anno scorso la “gita fuori porta” era stata a Boston, quest’anno abbiamo passato una mezza giornata a Princeton, per andare a trovare un amico dei miei che insegna italiano là da vent’anni e passa. Avete presente, no, Princeton? Dove ha lavorato Einstein e dove stanno premi Nobel, futuri premi Nobel, probabili premi Nobel che insegnano a prossimi premi Nobel? Ecco, lì. A Princeton tutto è verde e tranquillo. A Princeton c’è il laghetto con le paperelle. A Princeton c’è il mercato dei produttori biologici. A Princeton i saluti sono “Ciao, profesori“. Alla mensa di Princeton si mangia benissimo. A Princeton ci sono praticamente solo bianchi. A Princeton si arriva con un trenino grande da qui a lì. Bella, Princeton, per carità. Ma ridatemi lo smog, il casino, l’eccitazione di NYC, please.

Quinta Avenue. L’anno scorso, paradossalmente, avevo girato poco per Manhattan: avevo visto il Bronx, il Queens e Brooklyn, ma solo negli ultimi giorni avevo passeggiato senza meta nel cuore della città. Quest’anno ho vagato un sacco, e camminare lungo la 5th Avenue, partendo da Central Park e risalendo fino all’Upper East Side, è stata una delle esperienze più divertenti in assoluto. Lo so, scritta così sembra una sciocchezza, ma chi di voi è stato a New York capisce di cosa parlo. Se la città è davvero una raccolta di palcoscenici a cielo aperto, beh, immaginate che la Quinta sia il mainstage e avrete colto la cosa.

continua, ancora…

Cartoline da un altrove vicino

L’effetto che mi fa Olivier Adam, ad ogni suo libro, è devastante. Ho già scritto qua di Scogliera, ma Stai tranquilla, io sto bene (suo primo romanzo, uscito da poco per minimum fax) mi ha colpito ancora di più. Ci sono delle situazioni di lettura che creano qualcosa di incredibile: io amo leggere in treno, per esempio. Concentrato sulle parole, con la musica nelle orecchie, di solito lascio che le pagine mi evochino dei volti, mentre sto a capo chino sul libro.
Quale è stato il mio turbamento quando ho visto, seduta davanti a me, Claire, la protagonista del romanzo che avevo appena iniziato a leggere. Una ragazza come la descrive Adam, con parole che conosci bene e che sai che devi limare qua e là per farle combaciare a un’immagine vera. La mia Claire, per esempio, non era bella quanto la Claire descritta nel romanzo. Ma questa imperfezione l’ha resa ancora più vicina al personaggio, rendendo quest’ultimo, a sua volta, ancora più vivido, in uno scambio serrato e ubriacante tra la realtà vissuta e quella scritta.
E mentre la mia Claire dormiva, tanto che mi è bastato guardarla due volte sole per imprimere il suo volto nella mia mente, mi sono reso conto che le parole di Adam mi avevano catturato, ancora una volta. Poche parole, secche, precise come sempre, una breve frase dopo l’altra, ed ecco, sei preso, per sempre, fino alla fine del romanzo. Talmente preso che non mi sono più reso conto di cosa facesse la ragazza davanti a me: non era importante, ero impegnato con la vera Claire, quella che correva tra le parole, capitolo dopo capitolo, tra il supermercato di Parigi dove lavora, i suoi ricordi, la casa dei suoi genitori che stava andando a trovare, proprio come me, che stavo andando a trovare i miei, con quel treno.

Il mio respiro sarà aumentato di intensità, la mia temperatura sarà cresciuta di qualche grado, come diceva Checov: Adam ha raggiunto ancora una volta il suo obiettivo. E avrà reso “creature di carne e sangue” me e Claire, me e la ragazza di fronte, e le due Claire, ognuna ignara dell’esistenza dell’altra, a qualche decina di centimetri d’aria di distanza.

“(…) bisognava partire, scappare, lasciare la Francia, che sapeva di chiuso, che ti soffocava, oppure al contrario immergercisi completamente, percorrerla in lungo e in largo, andare verso l’oceano, cercare delle radici là dove si sarebbe deciso di metterle, inventarsi una vita, andare ovunque o da nessuna parte, perché quando venivi da lì, dalla periferia parigina, non venivi da nessuna parte, venivi da una no man’s land e dovevi costruirti da zero.” (Olivier Adam, Stai tranquilla, io sto bene, minimum fax, Roma 2007, pag. 42, trad. di Maurizia Balmelli)

Squali

La riflessione che segue viene stimolato da un post del sempre valido Petunio, che parla di libri con prime tirature a quattro zeri e film che escono in qualcosa come 835 copie sul territorio nazionale. Come dice giustamente Petunio, questo significa “cagare sul mercato” e “distruggere il pubblico”.
Partiamo da lontano, cronologicamente e dal punto di vista dell’oggetto: negli anni ’80 Reagan e la Thatcher hanno portato sull’orlo della recessione (e a volte un po’ più in là) i Paesi che governavano. Questo risultato è da imputarsi anche alla loro politica economica, basata su un ragionamento che logicamente fila, ma pragmaticamente fa acqua da tutte le parti. Togliamo tasse ai grossi imprenditori, in modo tale che possano reinvestire il capitale sulla produzione. Cosa che, ovviamente, non si è verificata.
Tenendo fermo il concetto di reinvestimento, passiamo al nostro Paese, negli anni ’50 e ’60. Il cinema va benissimo, sotto ogni prospettiva. Record di produzione di film, record di spettatori, record di premi vinti dai film italiani. È il periodo dei grandi Fellini, Antonioni, Visconti. Che incassavano pochissimo (a parte le eccezioni degli scandalosi La dolce vita e Rocco e i suoi fratelli), ma portavano via dai festival chilate di riconoscimenti. Cosa accadeva? I grandi produttori investivano poco su film di genere che incassavano un sacco di soldi, e giravano gli utili per realizzare film “alti”, che di certo non costavano poco.
Certo: c’era il pubblico che permetteva queste cose, visto che il cinema era un modo per evadere a poco prezzo. E c’erano anche degli imprenditori che non pensavano soltanto al soldo, ma rischiavano. E, soprattutto, amavano la cultura, ed era per loro fonte di orgoglio produrla, anche in forme scomode. Per dire: Pasolini non era uno che si pagava i film da solo.

E oggi Grande, grosso e Verdone esce in 835 copie. Praticamente lo vedi anche se non vuoi. Perché? Perché i produttori devono andare sul sicuro: ed ecco spiegate le dozzine di sequel, prequel, spin off, adattamenti. Non si può rischiare, né su un titolo né su un nome nuovo.
Voi direte: c’è la legge sul cinema. Sì, ma la legge sul cinema dà i soldi per produrre non per distribuire. Quindi Silvio Muccino, tanto per fare un esempio, ha avuto i contributi statali (oh yeah), ma è uscito in un buon numero di copie grazie ad altri accordi e capitali. La maggior parte dei film che vengono prodotti con il contributo del Ministero non escono nei cinema. O meglio, stanno un giorno in programmazione a Roma e Milano: tanto basta per dire che sono usciti.

Passiamo all’editoria. Da poco di tempo lavoro in una piccola-media casa editrice “di nicchia”. O meglio, lo era, di nicchia, perché fino a poco tempo fa i fumetti non venivano considerati dalle major editoriali. Adesso cosa succede? Che tutti si buttano sul fumetto. Il punto è che “cagano sul mercato”. Si portano via autori con anticipi pazzeschi, fregandoseli l’un l’altro. Chi rimane a bocca asciutta? Indovinate un po’… Il bello è che, nella maggior parte dei casi, stampano male, promuovono malissimo e distribuiscono peggio. L’importante è avere messo la zampa su Tizio Caio, che magari è abituato a guadagnare niente e viene – ovviamente – tentato e firma contratti con clausole strettissime, praticamente non rescindibili.
E quindi nelle grandi librerie (che a loro volta ammazzano le piccole) c’è praticamente un unico grande scaffale, con un centinaio di titoli in vista, e basta. In questo modo non si promuove la cultura, la si impone.

Ora, miei piccoli lettori, mi chiederete: ma come, un Paese allo sfascio, le morti sul lavoro, la monnezza, e questo mi parla di cultura? Il punto è che lo stato di salute di una nazione si vede anche da cose come queste. E in ogni caso ci sarà sempre un problema più importante “d’a’cultura” da risolvere. Mettiamoci, quindi, l’anima in pace, non saremo soli: gli schieramenti in lizza per le prossime elezioni, ancora una volta, sfiorano appena l’argomento.

Bill, Kevin, Edward, Hubert, Henry, Clem e Dan

Chi sono? Vi chiederete. Ma i nomi dei sette nani, secono lo stupefacente Biancaneve di Donald Barthelme. Ho aspettato di avere il tempo e la calma necessaria per leggere il terzo libro di Barthelme che minimum fax ha ben pensato di ripubblicare, dopo Ritorna, dottor Caligari! e Atti innaturali, pratiche innominabili. Ero un po’ dubbioso, visto che i due volumi citati sono di racconti e, considerando la fortuna delle riedizioni dell’opera del grande scrittore americano, pare che Barthelme sia ricordato più per questo genere letterario che per altri, sebbene abbia scritto anche un altro romanzo, una favola per bambini e molti saggi.
E invece funziona tutto alla perfezione: come al solito, la scrittura di Barthelme non è facile, come è lecito aspettarsi da uno dei principali esponenti del postmodernismo letterario americano. Ma questa difficoltà è ampiamente compensata dall’incredibile arguzia e ingegnosità del libro. La fiaba di Biancaneve è presa come riferimento, come testo-base che diventa esplicito nel questionario rivolto al lettore che interrompe il libro a metà (una delle domande che ci viene rivolta è “Dopo avere letto fino a questo punto ha capito che Paul incarna la figura del principe?”). Ma l’attenzione di Barthelme è tutta sulla protagonista, bellissima, amata disperatamente dai sette nani (che di lavoro creano omogeneizzati e lavano palazzi), osteggiata dalla perfida Jane e insidata dal volgarissimo Hogo de Bergerac.
Il minimo gesto è fonte di lunghe disquisizioni, che si interrompono bruscamente così come sono iniziate, ci sono analisi apparentemente minuziose di psicologie e comportamenti che si risolvono in un nonsense, discorsi a mo’ di comizio, momenti surreali altissimi.
Ma la struttura del libro – e non potrebbe essere altrimenti – è un insieme di frammenti brevi, legati dal continuo rimando che il lettore fa (anche involontariamente) all’icona di Biancaneve, che Barthelme rielabora e distrugge con raffinatezza e anarchia. Un capolavoro, davvero, che non dimostra minimamente i suoi quarant’anni. Ma, d’altro canto, certi romanzi e certi personaggi sono immortali.

Parole di diamante

Ho incontrato le parole di Olivier Adam per caso, l’anno scorso, quando ho letto la sua prima raccolta di racconti apparsa in Italia, Passare l’inverno: era da molto tempo che non leggevo dei racconti così gelidi, freddi e perfetti, e ho iniziato a consigliare e regalare quella raccolta a tutti. I racconti di Adam erano per me paragonabili a quelli di Carver, ma non semplicemente come accostamento, ma dal punto di vista qualitativo. Un uso delle parole puntuale, le frasi che finivano sempre al punto giusto, un equilibrio della narrazione magistrale. Per questo ho sempre associato la scrittura di Adam all’arte prodigiosa del racconto, un genere che amo moltissimo, ma che, ahimè, pare che in questo paese sia – come il cortometraggio nel cinema – semplicemente una prova necessaria per giungere all’Opera Lunga (romanzo o film).

Sono rimasto sorpreso, quindi, quando ho iniziato a leggere Scogliera, uscito qualche mese fa: un romanzo, uno dei tre che Adam ha scritto. Ma la sorpresa si è esaurita nel momento in cui ho cominciato la lettura. Eccole, le parole di Adam, ecco il suo modo unico di raccontare e rappresentare la tristezza e il dolore, sentimenti abusati in ogni modo e con ogni mezzo, ma che con la scrittura dell’autore francese assumo nuova forma, quella gelida, perfetta, preziosa e naturale del diamante. Percorrendo nelle pagine del libro la vita del protagonista non si viene mai colti dal sospetto che Adam voglia catturarci con qualche trucco: tutto è assolutamente sincero, spontaneo, francese e allo stesso tempo universale, esattamente come, leggendo Carver, ci sembra che i luoghi e le persone che descrive, così distanti culturalmente e geograficamente, facciano in realtà sempre parte della nostra vita. Noi, lettori e protagonista del romanzo, ci immergiamo nella memoria, nel passato, per provare a ritrovarci, ben sapendo che alcune cose sono e saranno perse per sempre.

Ciò che si cancella dal nostro cervello si cancella anche dal nostro corpo, dal nostro sangue, dalla nostra vita, non lascia alcuna traccia, alcun segno, se non quello di un vuoto assoluto, freddo e vertiginoso
(Olivier Adam, Scogliera, minimum fax, Roma, 2007, p. 164 – traduzione di Maurizia Balmelli)

I'm in Haven

Non avevo mai letto niente di Daniel Clowes, ma a New York ho comprato senza batter ciglio Ghost World, da cui è stato tratto un buon film nel 2001. Mi è arrivato dalla Coconino, un po’ di tempo fa, il nuovo graphic novel di Clowes, Ice Haven. Si tratta di un oggetto particolarissimo: in ventinove storie brevi, ognuna scritta e disegnata con uno stile diverso (dal classico tratto anni ’30, alla strip modello Peanuts, dall’ipercolorato stile anni ’50 alle tendenze in bicromia più recenti), che ci portano nell’universo di Ice Haven, una piccola cittadina americana, e dei suoi abitanti.

Il ritmo di Clowes è perfetto, la narrazione non concede nulla alla soluzione facile, al colpo di scena, ma neanche all’eccesso di pathos. Tutto è brillantemente dosato, le singole storie sono perfettamente chiuse e allo stesso tempo portano avanti il racconto generale in maniera funzionale: il senso di comunità di Ice Haven fa sì che ogni singolo abitante della cittadina (ogni singola storia) sia organico rispetto alla vita della cittadina stessa (il graphic novel nel suo complesso).

Ma molto del gioco dell’autore sta nei registri, negli stili ripresi, che fanno sì che Ice Haven sia una specie di summa dei modi di raccontare americani, usati peraltro per descrivere e narrare una storia (o diverse storie) profondamente legate alla quotidianità statunitense. Compaiono quindi gli aspetti più tristi e nascosti della provincia, i minimarket gestiti dai coreani, le piccole riviste letterarie che nessuno compra, il caso di cronaca nera che compatta una città altrimenti disgregata (e di nuovo, come sopra, c’è un parallelo, visto che la vicenda del rapimento del bimbo è uno dei pochissimi eventi che lega diverse storie tra loro).

Un grandissimo libro, insomma. E magari, adesso, qualcuno di voi andrà in libreria per vederlo. Leggerà le prime pagine e, dopo tutto questo parlare di americanismi di qua e di là, scoprirà delle citazioni tanto involontarie (probabilmente) quanto precise di Amarcord. Anche lì un narratore ci introduceva in una città (di nuovo la città delle memorie dell’infanzia) e veniva tremendamente sbeffeggiato.
Adesso, davvero, correte a comprarlo.

Ad alzo zero

Ho chiesto all’Einaudi l’ultimo libro di Vitaliano Trevisan, Il ponte – Un crollo, subito dopo avere letto un’intervista allo scrittore vicentino su “Il Venerdì” di Repubblica. In quell’articolo, pubblicato due o tre settimane fa, Trevisan sparava a zero su tutto e tutti, con una lucida rabbia che mi aveva davvero sorpreso. Vorrei essere più preciso, ma purtroppo ho buttato quella copia del giornale.

Non appena ho iniziato a leggerlo ho pensato a due cose. La prima: voglio intervistare Trevisan. La seconda: ho paura di farlo. Non mi capita spesso di avere paura di fare qualcosa: sul lavoro, al massimo, ho avuto una sorta di timore reverenziale nel telefonare o incontrare qualcuno.
E più andavo avanti nella lettura più questi due sentimenti contrastanti aumentavano, alimentandosi l’uno con l’altro.

Il ponte è una sorta di lunga confessione mentale di un uomo, nato a Vicenza, ma che ha lasciato da una decina d’anni l’Italia e tutto lo schifo che la forma. Trevisan, attraverso le sue parole fitte (nella parte centrale del romanzo, più di cento pagine, c’è solo un salto di paragrafo e due “a capo”, alla faccia della presunta “poesia delle pagine bianche” di cui parlavo qualche settimana fa) esprime qualcosa che è più di un generico disprezzo del nostro paese: in fondo, chi è che non si lamenta di come vanno le cose in Italia? La rabbia di Thomas, il protagonista del libro, è diretta e cristallina come quella espressa da Trevisan in quell’intervista, nonostante Thomas parli continuamente di una malattia, che forse lo eleva a diverso e lo stacca dalla massa dalla quale ha tentato di isolarsi fisicamente trasferendosi in Germania. Nel suo lungo monologo, il narratore si interroga sulla scrittura, sulla famiglia, sulla politica, sulla società e sulla cultura italiana, sul suo cedimento ormai definitivo, già preannunciato, con la consueta brillante lungimiranza, da Pier Paolo Pasolini trenta e passa anni fa.
E non è un caso che Pasolini torni come punto di riferimento, come unico possibile interlocutore italiano, oltre a Thomas Bernhard. Ma non “da morto”, bensì da vivo, attraverso le sue parole, che possono essere solo rilette, senza riesumazioni di sorta.
A questo proposito Trevisan fa dire al suo protagonista delle parole lapidarie a proposito della morte, il vero tema centrale del romanzo:

“(…) i morti sono tutti uguali, si è detto, e dunque vanno onorati tutti nello stesso modo, ed è così: i morti sono tutti uguali, ma il giudizio dovrebbe riguardare solo quanto hanno fatto, o non hanno fatto, da vivi. I morti sarebbe meglio lasciarli dormire, e invece essi vengono riesumati e ricomposti di continuo, e usati di continuo per gli scopi più bassi e meschini, col risultato che si continua a raccontare sempre e soltanto la storia di un fallimento dopo l’altro, a cui manca sempre la parola fine, cioè manca sempre un responsabile. In fondo, pensai, è esattamente quello che faccio anch’io. Cercare di dare un senso al mio proprio frammento di presente in quanto presente in cui il passato non smette di crollare (Vitaliano Trevisan, Il ponte – Un crollo, Einaudi 2007, pag. 115)

Ecco l’intervista a Vitaliano Trevisan!

Il viaggiatore costretto

Chiaramente, uno si lamenta, et voilà, arriva un libro scritto in lingua italiana – anche se non scritto da un’italiana – che fa gridare al miracolo. Si chiama La mano che non mordi ed è opera di un’albanese di neanche quarant’anni, che ha vissuto dal 1990 in poi in diversi paesi d’Europa, Italia compresa, Ornela Vorpsi.
Quando ci sono altri autori che mandano alle stampe centinaia di pagine, di cui almeno la metà sono inutili, e altri autori che scrivono libri piccolissimi che sono ancora più piccoli, viste le numerose (e poeticissime) pagine bianche che intercorrono tra un capitolo e l’altro, la Vorpsi riesce a colpire e aggrapparsi all’anima del lettore in meno di 90 pagine, con un romanzo che non ha una trama vera e propria, ma che sprigiona tutto tra le righe. Quando dico tutto, intendo veramente ogni cosa, dai profumi agli stati d’animo, dal dolore all’infanzia, dai sapori di casa ai detti della nonna. Senza dimenticare la Storia, quella più vicina e dimenticata, che riguarda i Balcani e i loro innumerevoli conflitti.
La protagonista del libro si sposta da una parte all’altra d’Europa, fisicamente e con i pensieri, da Parigi a Milano, da Roma a Sarajevo, e viaggia nel suo tempo, nell’intimità del ricordo, riuscendo ad essere personale senza essere privata, e parlando di tutti i popoli balcanici senza citarli e senza pretese di ecumenismo.
Quello che risalta è il continuo senso di spiazzamento: non c’è uno dei personaggi che incontriamo nelle pagine del libro che sta dove deve stare. E’ proprio questa sensazione di vagabondaggio forzato e perenne, che prima di tutto l’autrice ha vissuto sulla sua pelle, di spostamento, di viaggio senza essere viaggiatori (come si dice nell’incipit del libro), che emerge nella scrittura della Vorpsi. Si sente il disagio di non essere a casa propria e il senso di estraneità quando si torna a casa dall’Occidente ricco, la fatica di trovare la lingua giusta per comprare dei dolci e il senso di inadeguatezza e di non appartenenza a quei sapori e odori, che pur rimangono nella memoria.
E il tutto, badate bene, viene solo suggerito, attraverso una lingua mobile, dinamica e agile, che tuttavia evita ogni forma di sperimentalismo “tanto per fare”.
Siamo noi occidentali ad essere rappresentati nel romanzo come una massa indistinta, rovesciando una prospettiva che ci vede spesso parlare di “altri” con sostantivi collettivi o terze persone plurali. Ecco quindi che la Vorpsi fa storia, capovolgendo un punto di vista, e, attraverso i numerosi personaggi albanesi, bosniaci, serbi che incontriamo nelle pagine del libro, ricordandoci che la polveriera balcanica, scoppiando, ha creato una vera e propria diaspora, spargendo brandelli delle sue popolazioni ovunque in Europa.
Un grande, grandissimo libro.

Quanto rimarrò vergine?

Tutto nasce da un libro. Me lo manda una casa editrice, e inizio a leggerlo, pensando ad una possibile intervista con l’autore. Immagino, non appena lo apro, di trovarmi di fronte ad un romanzo “generazionale”, che parla – come spesso accade ultimamente – di lavoro atipico, trentenni, agenzie interinali. Comincio.
A pagina 15 smetto, perché devo scendere dall’autobus, ma non sono per niente contento di quello che ho letto fino ad allora.
Lo stesso giorno, di notte, a letto, arrivo a pagina 30, e poi faccio una cosa che davvero non faccio mai. Decido che non lo finirò di leggere, quindi non lo segnalerò, né tantomeno intervisterò l’autore. Appena elaboro questa decisione, faccio un’altra cosa per me nuova. Scaglio il libro contro il muro della mia camera da letto.

Il punto è che da molto, ormai, leggo “per lavoro”, il che fa di me una persona privilegiata e fortunata, da un punto di vista. È chiaro che il mio lavoro non si limita a questo, ma in parte è così. Questo fa sì che io legga soprattutto novità della narrativa italiana, di autori viventi, e magari non così noti. Questo fa sì che è da un bel po’ che io non leggo un libro che mi soddisfa, quando l’ho fatto ne ho scritto qua. Ora, questo ha importanza fino ad un certo punto: non sono io l’arbitro del gusto letterario, ci mancherebbe, ed è diverso, per me, trovare qualcosa “brutto” o “interessante”. Spesso leggo libri, quindi, che non mi soddisfano, ma che penso possano interessare le persone a cui mi rivolgo.
Ma non è questo il punto. Il nocciolo della questione sta nel fatto che, il mattino dopo, avrei tranquillamente potuto raccogliere il libro da terra, telefonare all’ufficio stampa della casa editrice, fissare un’intervista con l’autore e mandarla in onda. Un’intervista illustrativa, come dire, non polemica. E invece no. Esattamente come non scrivo qua il titolo di questo libro.

Non faccio queste due cose per motivi ben precisi. Il primo, quello che riguarda il mio lavoro, è che non parlo di libri (ma anche di film e di dischi) se non li ho letti, visti, ascoltati del tutto. E già questo, a sentire lo stupore che talvolta le persone che intervisto manifestano, quando vengono loro rivolte delle domande che – evidentemente – dimostrano che ho letto le loro parole, pare non sia la consuetudine.
Il secondo, che riguarda il mio lavoro e il blog, è che talvolta chi pubblica, in senso lato, non è veramente pronto a farlo: la critica negativa o la stroncatura, specialmente se chi la scrive è facilmente “raggiungibile”, è spesso vista come una presa di posizione personale. Non parliamo poi di quello che potrebbe essere il mio caso: “Sei uno che tenta di scrivere, pubblica qua e là senza mai fare qualcosa di davvero importante, ergo stronchi per invidia.”
E non crediate sia fantascienza.
Chi pubblica si espone, appunto, al pubblico. Che è massa indistinta quanto si vuole ma, speriamo, almeno un po’ pensante e giudicante. Pare che però questo venga preso in considerazione di rado. Le critiche non fanno mai piacere, si sa. Ma pubblicare – un disco, un film, un libro – dovrebbe includere anche questa possibilità e il coraggio di affrontarla.

Tornando a me, perché qua fondamentalmente racconto gli affari miei, mi sono reso conto di due cose: per cominciare, che scagliare un libro su un muro è molto liberatorio. Per seconda cosa, che voglio continuare a comportarmi bene, a fare il mio lavoro come credo che vada fatto. Questo farà sì, però, che prima di avere tempo per leggere i libri di Scott Fitzgerald, Roth, Calvino, Moody, e di tanti altri ancora che giacciono intonsi sugli scaffali qua accanto, dovrò aspettare.
Resisterò, quindi, alle tentazioni della carne, soprattutto se di pessima qualità, perché le scalette delle trasmissioni (e non solo) vanno riempite possibilmente con qualcosa di buono.

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