Tomorrow Never Knows

Dagli archivi: AA VV – The Art of McCartney e The New Basement Tapes – Lost on the River

AA VV – The Art of McCartney (Arctic Poppy)

5

The New Basement Tapes – Lost on the River (Harvest)

7

Due tributi diversi, nei modi e nei risultati, per omaggiare due figure mitologiche. Deludente “The Art of McCartney”, prodotto da Ralph Sall, in cui una trentina di musicisti si cimentano con una selezione di successi di Macca, dai Beatles agli anni recenti. La scaletta è scontata, ma maggiormente preoccupante è che due terzi delle canzoni sembrino una sorta di karaoke di lusso, più divertente sulla carta (“Ehi, Alice Cooper canta Eleanor Rigby…”), che nei fatti (“… uguale all’originale”). Compare ogni tanto un barlume di interesse, non tanto negli arrangiamenti, per lo più pedissequamente filologici, quanto nelle interpretazioni vocali: il meglio arriva sul finale con le ruvidezze di Alain Touissant e Dr John, e le tinte black di Dion e B. B. King, a ricordarci quanto certi suoni abbiano educato i quattro di Liverpool. C’è anche Bob Dylan, che rifà (abbastanza svogliatamente) You’ve Got to Hide Your Love Away, pubblicata in origine esattamente un anno dopo il suo primo incontro con i Beatles.

Il legame tra i due titoli di cui parliamo finisce qua; infatti “Lost on the River” è la messa in musica di alcuni testi scritti da Dylan coevi ai Basement Tapes, al buen retiro tra Woodstock e dintorni del 1967. I manoscritti sono stati consegnati dal loro autore a T-Bone Burnett, che ha preso in mano il progetto come produttore. Insieme a lui, nientepopodimeno che Elvis Costello, Jim James (My Morning Jacket), Marcus Mumford (Mumford & Sons), Rhiannon Giddens (Carolina Chocolate Drops), Taylor Goldsmith (Dawes) e un cameo alla chitarra di Johnny Depp. Il risultato è piacevole, non sorprendente, ma con un pugno di canzoni che colpiscono, soprattutto quando è Costello a cantare i versi (musicalmente efficacissimi) perduti e ritrovati.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di novembre 2014 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: Einstürzende Neubauten – LAMENT

Einstürzende Neubauten – LAMENT (BMG)

8

Altri ascolti raccomandati
Einstürzende Neubauten – Faustmusik
Mike Patton – Pranzo Oltranzista
Laibach – Volk

“LAMENT”, ammoniscono le note del disco, è la documentazione di un’installazione-spettacolo legata ai temi della Prima Guerra Mondiale messa in scena in Belgio in questi primi giorni di novembre. Tuttavia, anche “solo” ascoltata, l’ultima pubblicazione dei tedeschi travolge da subito per la potenza espressiva: Kriegsmachinerie, “La macchina della guerra” è un fragore metallico crescente, puro rumorismo Neubauten, sì, ma anche la “corrispondenza sonora” dell’aumento di spesa per gli armamenti dei Paesi poco prima dell’inizio delle carneficine.

E che dire dei tubi in Der 1. Weltkrieg (Percussion version): suonano secondo la rappresentazione matematica dello scorrere quotidiano del primo conflitto mondiale, ritmando la voce di Blixa Bargeld che snocciola nomi e date delle entrate in guerra degli attori dell’epoca. “LAMENT”, però, non è cerebrale, né didascalico: gli Einstürzende Neubauten compongono una narrazione originale, palpitante e visibile, quasi teatrale del conflitto tramite canzoni più canoniche e rielaborando composizioni di altri.

Esempio perfetto è il nucleo centrale dell’album, da cui il lavoro prende il titolo: nella prima parte riduce all’osso il canone del “lamento”, con le due parole “Macht” e “Krieg” che si ripetono ossessivamente, per poi tornare ai rumorismi della “Spirale Discendente” della seconda parte. La conclusione è toccante: una rielaborazione di un mottetto del 16° secolo, sulla quale poggiano registrazioni d’epoca finora inedite di prigionieri di guerra che recitano, ognuno nella sua lingua, la parabola del Figliol Prodigo.

E ci sono bellissime cover di brani pre-jazz di un plotone di soldati afroamericani, del classico folk antibellico Where Are All the Flowers Gone, di un misconosciuto pezzo di cabaret dai toni pseudofuturisti che arriva dalla Lipsia del 1920 (in cui viene nominato per la prima volta “pubblicamente” Hitler)… “LAMENT” è una continua scoperta, un viaggio appassionante, complesso e stratificato; un’opera scura e sardonica che ha la forza e il coraggio di lambire i confini della riflessione storica e filosofica sulla Guerra e, quindi, sull’Uomo.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di novembre 2014 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: Mark Kozelek – Sings Christmas Carols

Mark Kozelek – Sings Christmas Carols (Caldo Verde)

Tranquilli, potete ascoltare questo disco con la famiglia riunita intorno all’albero: neanche alla fine, quando un pianoforte accenna a “Jingle Bells”, qualcuno viene mandato a quel paese. Il titolo del disco di Natale di Mark Kozelek (Sings Christmas Carols), è veritiero: si va da “O Christmas Tree” a “Silent Night”, arrangiate quasi tutte per chitarra e voce, con il canto inconfondibile del musicista, ma senza deviazioni sostanziali dagli originali. “Tra tutti i Kozelek del mondo, tu sei il più Kozelek di tutti, Mark”, si sente in una cover tratta da uno speciale natalizio dei Peanuts. Una briciola di ironia, forse l’ultima che il musicista ha da spendere, dopo l’acrimonia sparsa generosamente negli ultimi mesi. A Natale siamo tutti più buoni?

Recensione pubblicata originariamente sul numero di dicembre 2014 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: The Twilight Sad – Nobody Wants To Be Here and Nobody Wants To Leave

The Twilight Sad – Nobody Wants to Be Here and Nobody Wants to Leave (Fat Cat)
6

Il quarto LP dei Twilight Sad arriva dopo un anno in cui il cantante e autore dei testi James Graham si è trovato nel tipico momento di riflessione, con annesse domande esistenziali: il “fermarsi per ritrovarsi” si è concretizzato in questo “Nobody Wants to Be Here and Nobody Wants to Leave”, registrato negli studi dei Mogwai. L’idea era quella di rappresentare le anime musicali espresse in dieci anni di carriera su disco e dal vivo: ecco quindi le scelte di autoprodursi, di usare anche in studio il fonico live Andrew Bush e di affidare il missaggio a Peter Katis, come era accaduto per il debutto “Fourteen Autumns & Fifteen Winters”.

Meno metaforici del solito, in particolare nella chiusura Sometimes I Wished I Could Fall Asleep, i versi di Graham parlano di allontanamenti, dolori, amori più o meno strazianti: il tutto cantato con passione (e arrotamento) tutto glasvegiano. L’altro membro fondatore, Andy MacFarlane, mette troppo spesso le chitarre da parte (alla My Bloody Valentine, ma lontane nel mix nella title-track), per lasciare spazio a synth talvolta dozzinali. I richiami ai Cure più grigi e brumosi sono evidenti in It Was Never the Same e i primi estratti del disco (There’s a Girl in the Corner e Last January) sono interessanti; tuttavia la cupezza di brani come In Nowheres non toglie l’impressione che gli scozzesi, questa volta, siano meno efficaci e interessanti del solito.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di novembre 2014 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: The Experimental Tropic Blues Band – The Belgians

The Experimental Tropic Blues Band – The Belgians (Jauneorange)
6,5

I membri della band disegnati di tre quarti, nello stile iconografico sovietico; intorno, pugni chiusi, raggi di sol dell’avvenir e… l’Atomium, il Manneken-Pis, birra, galli, cozze e patatine fritte. La copertina di The Belgians riassume lo spirito del quarto album del trio di Liegi: Dirty Coq e Boogie Snake (chitarre e voci) e Devil D’Inferno (batteria) costruiscono un disco a tema sul loro popolo: si comincia, come da copione, con l’inno nazionale (“La Brabançonne”) stravolto da elettricità e distorsioni (ma non siamo dalle parti dell’illustre precedente hendrixiano), si finisce con la cupa ed elettronica “Belgians Don’t Cry”. In mezzo canzoni che, tra rock’n’roll, garage e surf, parlano (male) del Paese “grande quanto un coriandolo” (cito dal comunicato stampa) e dei suoi abitanti.

L’Experimental Tropic Blues Band non fa sconti: racconta di uomini soli che si vomitano addosso nel sonno (“Belgian Hero”), del senso di impotenza nazionale (“Belgian Frustration”) e di una diffusa (tossico)dipendenza (“Weird”), fino ad avventurarsi in territori pericolosissimi, come nella ballatona folk “She Could Be My Daughter”. Non sempre focalizzato nei testi e talvolta appesantito da qualche lungaggine, The Belgians rimane un disco per lo più piacevole, che promuoviamo senza dubbio, tant’è che verrebbe la voglia di trovare un volontario che adotti questo approccio per un fantomatico The Italians…

Recensione pubblicata originariamente sul numero di dicembre 2014 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: Run the Jewels – Run the Jewels 2

Run the Jewels – Run the Jewels 2 (Mass Appeal)
8

Altri ascolti raccomandati
Killer Mike – R.A.P. Music
El-P – Cancer for Cure
Run the Jewels – ST

Il punto non è il cosa, ma il come. Già, perché Killer Mike e El-P, giunti alla seconda collaborazione nel giro di poco più di un anno (o alla terza in un biennio, se si considera R.A.P. Music), parlano di droga, sesso, problemi con la polizia, miti musicali e politici di ieri e mondo d’oggi: i contenuti del novanta per cento dei dischi rap degli ultimi trent’anni. Ma il secondo capitolo firmato Run the Jewels ha un modo di raccontare che fa sembrare il suo già ottimo predecessore, self-titled uscito la scorsa estate, una prova generale di un disco che surclassa ogni uscita di genere recente. Il connubio tra i due è eccelso e paragonabile a sodalizi come quelli tra Jay-Z e Kanye West, o Dr Dre e Snoop Dogg: eppure, per molti versi, qua si va oltre.

I suoni di El-P, pur non disdegnando qualche ammorbidimento, rimangono scurissimi, apocalittici, minacciosi: del resto lui è “a dirty boy who come down on the side dissonance / I can’t even relax without sirens off in the distances”, come dice in “Close Your Eyes and Count to Fuck”. Il pezzo, che incita alla rivolta nelle carceri, vede un featuring di Zack de la Rocha: uno dei nomi sulla guestlist di RTJ2, insieme a Boots, Travis Barker, Diane Coffee e Gangsta Boo. Quest’ultima è autrice di un contributo chiave dell’album: in “Love Again (Akinyele Back)”, la rapper ex-Three 6 Mafia dice che il suo amante vuole il suo clitoride in bocca tutto il tempo, fornendo un controcanto alle lodi della fellatio cantate da El-P poco prima.

Ecco il senso politico di RTJ2: il bersaglio è il politically correct, che però non viene seppellito da una mitragliata di volgarità fini a loro stesse. Il nuovo modo del duo è condannare la polizia raccontando in maniera realistica di un (vero) arresto (“Early”), mostrare la disperazione nel passaggio di cocaina tra uno spacciatore e una donna incinta (“Crown”), unire i lati migliori di due autori non in senso agonistico, ma puramente e pienamente collaborativo. Et voilà: i due sfornano, alle soglie dei quarant’anni, uno dei dischi migliori della loro carriera, nonché uno degli album rap più sorprendenti degli ultimi tempi.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di dicembre 2014 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: Scott Walker and Sunn O))) – Soused

Scott Walker and Sunn O)))  – Soused (4AD)
8,5

Tonight my assistant will pass among you. His cap will be empty. The most intimate, personal choices and requests central to your personal autonomy will be sung”: Soused si chiude con queste parole, contenute in “Lullaby”, già scritta per Ute Lemper. Siamo spettatori paralizzati da uno spettacolo di magia, spesso nerissima, che rapisce i sensi fino a scuoterci nel profondo; sul palco il gran mago Walker e i suoi due assistenti incappucciati. Il trio si sarebbe dovuto già incontrare per Monoliths and Dimensions, ultimo album firmato da Stephen O’Malley e Greg Anderson, che volevano la voce inconfondibile dell’ex pop star per “Alice”. Qualche anno dopo Walker li ha chiamati per arrangiare e suonare questi cinque lunghissimi pezzi che seguono quel gioiello di Bish Bosch.

Il risultato è sorprendente perché Soused contiene la musica più accessibile prodotta negli ultimi anni dai tre. Evitiamo fraintendimenti: questo è un disco minaccioso, oscuro, pesante, violento, difficile, che unisce il lirismo straziante di Scott Walker ai muri di suono e ai rumori dei Sunn O))); come se non bastasse aggiunge alla tavolozza sonora moog, fruste, sveglie digitali, altri suoni indecifrabili ma “reali” e strati di effetti. Tutto è finalizzato a una perfetta costruzione spaziale del suono per un album che unisce la fisicità di un live del duo statunitense all’incredibile perizia che Walker dimostra da anni nello stravolgere e superare il concetto di canzone, dal punto di vista lirico, melodico e armonico. Il contributo dei Sunn O))) è in questo senso perfetto: riveriscono Walker e si adattano alla sua visione artistica, innalzandola e senza compromettersi. Un miracolo? No, semplicemente uno dei dischi più stupefacenti di questo 2014.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di dicembre 2014 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: Francobeat – Radici

Francobeat – Radici (Brutture Moderne)

7

Si chiama “Radici” la comunità per disabili mentali nei pressi di Riccione i cui ospiti hanno scritto i testi del terzo album di Francobeat, nome d’arte di Franco Naddei. Un lavoro di due anni, insieme a John De Le, Sacri Cuori, Giacomo Toni, Santobarbaro e Moro (solo per citare alcuni degli ospiti del disco) per un album che tocca ogni genere e forma musicale, che racconta storie dalla forza rivoluzionaria di quelle narrate da Rodari (intorno a cui era centrato il progetto precedente di Naddei). Il poeta, in una filastrocca, diceva che “il più matto della terra vuole fare la guerra”: ci sembra l’unica definizione di “matto” accettabile, che ben poco si applica agli autori delle liriche di questo album unico, coloratissimo e fantasioso.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di dicembre 2014 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: A Winged Victory for the Sullen – Atomos

A Winged Victory for the Sullen – Atomos (Erased Tapes)

7,5

Dustin O’Halloran e Adam Witzie hanno scritto la musica, poi diventata il secondo LP a nome A Winged Victory for the Sullen, per una coreografia del Royal Ballet di Londra, andata in scena un anno fa. Tuttavia Atomos è godibilissimo anche di per sé: undici tracce (da “Atomos I” a “Atomos XII”: sì, manca un numero e nell’interno del cd, ironicamente, si scrive “Whatever Happened to IV”) costruite per lo più su violini, viola, violoncelli, pianoforte e synth modulare, suonato da Francesco Donadello, responsabile anche dell’efficace mixing del disco e di parte delle registrazioni.

I territori sono quelli dell’ambient e della neoclassica, non mancano inserti rumoristici, di elettronica e field recording; le percussioni compaiono (poco) solo in “VII”, già nell’ep omonimo uscito a aprile: una caratteristica rilevante, considerando la finalità performativa dell’opera. La musica è sospesa, per quanto ci siano meno vuoti e ripetizioni rispetto all’esordio del duo; si gioca su crescendo trascinanti, su quinte ripetute dagli archi combinate con solenni ribattute al piano, come in “VI”: il brano è uno dei vertici del disco, insieme a “X”, dove le linee dei violini ricordano Arvo Pärt. Capita che il dialogo tra piano e archi sia un po’ meccanico, ma ci sono delle eccezioni notevoli: la penultima traccia, ad esempio, porta a fusione perfetta le due anime di questo album più che interessante.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di ottobre 2014 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: Peter Selway – Weatherhouse

Philip Selway – Weatherhouse (Bella Union)

6,5

Weatherhouse, a differenza di Familial, è stato concepito con una band, per quanto ridotta: Adem (Ilhan) e Katherine Mann (meglio nota come Quinta) sono i due polistrumentisti che hanno suonato dal vivo con Selway e che hanno contribuito molto alla produzione e agli arrangiamenti della seconda prova solista del batterista dei Radiohead.

Proprio il lavoro di scrittura e produzione stacca il disco dal suo predecessore, praticamente tutto voce e chitarra: qui archi e piano sono preminenti e usati bene, insieme a una miriade di altri strumenti. Buon esempio è l’apertura “Coming Up for Air”, il pezzo migliore del disco: la giusta combinazione di elettrico, elettronico e acustico e un ritmo massiccio e quasi marziale, cadenzato, che ritorna in molti brani.

La voce di Selway ricorda nella strofa Brendan Perry dei Dead Can Dance, mentre nel ritornello si sentono echi delle sperimentazioni britanniche di fine ’80. Il fantasma dei Radiohead fa capolino in “Ghosts” (ehm) e “Around Again”, ma è comprensibile. Sorprende, in questi pezzi, il lavoro fatto sulla batteria, quasi assente in Familial, come se Selway si fosse riconciliato con il suo lavoro full-time. Purtroppo, però, la seconda parte dell’album cade nei difetti di qualche anno fa: linee melodiche piatte e testi scontati fanno tornare il disco su livelli banali, lo sviluppo delle tracce diventa prevedibile e l’entusiasmo iniziale tende a evaporare. Peccato.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di ottobre 2014 de Il Mucchio Selvaggio

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