We Can Work It Out

I bei mestieri di una volta

Le persone della mia generazione parlano di lavoro più che di sesso. Il lavoro è l’ossessione, tutti sono precari, tutti sono stressati, tutti stanno come d’autunno sugli alberi le foglie. Quando tira molto vento.
Ma in fondo, come direbbe un anziano qualsiasi sull’autobus, è che noi i lavori non vogliamo farli. Inutile, quindi, offrire il proprio corpo per un contratto a tempo indeterminato (visto che lei lo offre per una notte, al massimo potrebbe avere un contratto a progetto, eh insomma: che poi, sarà vero, sarà falso, sarà che non ce ne può fregare di meno?). Perché di lavori ce ne sono.
Io, per esempio, sono iscritto ad un sito che, attraverso una newsletter settimanale, mi offre diverse possibilità di lavoro. Di solito le figure che vengono cercate sono “Agenti venditori monomandatari”, cioè persone che vendono X e guadagnano solo se vendono, se no ciccia (e io mi chiedo: ma con la crisi che c’è, signora mia, chi compra?).
Qualche giorno fa, però, mi è arrivata una proposta interessantissima: mi è stata offerta una posizione seria, rispettosa, di classe. Mi è stato offerto di fare il maggiordomo. Ho pensato subito a Anthony Hopkins in Quel che resta del giorno, ad Alfred in Batman, a innumerevoli libri e sceneggiati. E ai gialli: quindi ve lo dico da subito. Sono stato io. È sempre il maggiordomo, il colpevole.
Soprattutto se ha un contratto interinale.

Una ferale fiera in giorno feriale

Venerdì scorso sono stato per la prima volta in vita mia ad una fiera, per lavoro. Non avevo da presidiare uno stand, ma, fondamentalmente, dovevo fare interviste, prendere contatti, fare cose, vedere gente, eccetera eccetera.
Non ero mai stato proprio al quartiere fieristico di Bologna: no, mai stato al Motorshow in vita mia, di solito quando c’è emigro dalla città, visto che il rapporto tra me e i motori è di reciproca indifferenza. La fiera in questione era la diciottesima edizione del Sana, il Salone del Naturale.
Ora, si sono buttati tutti sul naturale, sul biologico, sull’ecocompatibile: infatti tra gli espositori c’era qualsiasi cosa, dal salumiere Rosario Mangione (sic), alla Galbusera, all’azienda bio di Marco Columbro (sigh), al Ministero dell’Ambiente. Tutti hanno una linea bio. Probabilmente anche l’Esso, ma non l’ho vista.
Insomma, mi aggiravo annoiato tra gli stand, senza la benché minima tentazione di assaggiare del formaggio di capra ecologico (immagino, quindi, proveniente da una capra vera) o del pane biologico certificato, quando, ad un certo punto, mi si è parata una hostess davanti.
“Vuole provare il nostro olio?”, mi ha chiesto. Non mi ha poi dato una fetta di pane, ma si è messa del liquido su una mano e ha iniziato a massaggiarmi il collo, dicendo, poi, “Scusi se la tocco”. Io avrei voluto dire “prego, tocchi pure”, invece mi è venuto fuori una specie di gorgoglio misto a fusa. Mentre la ragazza mi spalmava di olio di menta, mi elencava le proprietà benefiche del prodotto in questione. Ho appreso quindi che, spalmato, fa bene per dolori reumatici, cervicale, distorsioni, strappi, bronchite, sinusite, vertigini, e ha notevoli capacità di permettere il ritorno dalla morte. Ma, attenzione, se messe due gocce di olio su un po’ di zucchero e ingoiate, ecco che la digestione va che è una meraviglia, il mal di gola passa, e ne acquista beneficio anche la voce. Dulcis in fundo, due gocce in una pentola d’acqua bollente profumano l’ambiente che è una meraviglia.
La ragazza ha smesso di massaggiarmi e mi ha chiesto: “Allora, le interessa?”. Io sono scappato facendo “no” con la testa. Ero terrorizzato che mi dicesse che l’olio andava bene anche per le emorroidi. E me lo dimostrasse.

Approfitto di questo spazio e ringrazio il mio produttore, perché mi sono portato a casa ben due nominazioni di Macchianera: una per il miglior blog cinematografico (SecondaVisione) e una per questo blogghetto qua, nella categoria “Miglior blog personale”. E poi, se vogliamo dirla tutta, ci sarebbe anche la nominazione per Ciccsoft nella categoria “Blog collettivo”. Che tripudio. Votatemi, ché poi si va a cena insieme, eh.

Two Works and No Play Make ADayintheLife a Dull Boy*

Lo ammetto: alla faccia della crisi, ho due lavori. Il primo, di mattina, mi identifica come “giornalista”. Il secondo, di pomeriggio, mi identifica come “responsabile ufficio stampa”.
Ammetto anche, alla faccia dell’opulenza, che con due lavori riesco a malapena a campare.
E anche che il primo dura fino a dicembre e il secondo fino ai primi di agosto. Alla faccia dell’indeterminazione.
Ma comunque, fare il giornalista di mattina e tenere su un ufficio stampa il pomeriggio è schizofrenico: se facessi bene il mio lavoro dovrei mandarmi delle mail da solo, cercarmi al telefono e lamentarmi perché quel giornalista non c’è mai, e neanche quell’ufficio stampa si riesce mai a trovare quando serve. Ma per fortuna la mia sanità mentale è ancora saldamente appesa ad un filo, quindi tengo botta, diciamo.
Il vantaggio dell’essere allo stesso tempo venditore e compratore, attaccante e terzino, cerchio e botte, è che puoi parlare male di entrambe le categorie, senza pericolo di essere smentito, come, del resto, farebbe qualsiasi persona sana di mente che non è né giornalista, né si occupa di un ufficio stampa.
Considerando che questo secondo lavoro lo faccio da poco, mi sono trovato spesso ad avere a che fare (e quindi a parlare male di) uffici stampa. Il peggio che possa capitare ad un giornalista è una addetta stampa di Milano di una grande casa discografica; che detta così sembra che voglia parlare di una persona in particolare, e che ne nasconda il nome dietro uno squallido giro di parole: invece no, provate a fare qualche telefonata e vedrete che chi risponde al telefono degli uffici stampa delle grandi case discografiche (che stanno tutte a Milano) è, di solito, una donna.
Nervosissima.

Ma anche i giornalisti non sono da meno (e io lo posso dire perché per metà della giornata, bla bla bla… capito il trucchetto?).
Oggi, per esempio, ho parlato con una giornalista, che voleva delle informazioni ulteriori a quelle che le avevo mandato con il comunicato stampa e la mail, per scrivere un pezzo sulla campagna di cui mi occupo. Mi chiede di mandarle una pubblicazione legata alla campagna: quattro mega in pdf. Gliela mando, torna indietro, la richiamo. “Guarda che la tua mail non regge l’allegato. Hai un’altra mail a cui posso mandarla?” Lei è talmente stupita dalla domanda che sento il rumore che fanno i suoi occhi quando strabuzzano. Poi, come se nulla fosse, mi dà una mail alternativa, e si cautela.
“Potrei venirlo a prendere, il file”, dice. “Ma non ho un dischetto.”
“Guarda, quattro mega in un dischetto non ti ci stanno, ti ci vorrebbe una chiavetta usb”: reagisce come se le avessi detto che avere un dispositivo portatile di teletrasporto tornerebbe utile. La telefonata si chiude con lei che mi dice “Se avessi bisogno di altre informazioni, ti chiamo: è il tuo lavoro, no?”
Sì, è il mio lavoro del pomeriggio, e ancora manca un sacco alla fine del pomeriggio. Quanto meno abbastanza da ricevere un’altra telefonata della giornalista. Mi inizia a fare delle domande che hanno risposta nel comunicato, ma lungi da me dirle: “Ma allora manco l’hai letto”, quindi rispondo educatamente. Mi chiede quando inizia la campagna, e le dico la data. “Quanto va avanti?”, continua lei. “Eh, dipende”, dico io, e spiego che, sebbene sia una campagna nazionale, è organizzata autonomamente anche dagli enti che vi aderiscono a livello locale. “Quindi, fino a quando va avanti?”, insiste. “Di solito gli eventi locali sono organizzati fino alla metà di agosto circa, ma non credo ci sia bisogno di essere così precisi”, dico tentando di chiosare.
Pare si sia placata, ma è solo un’apparenza. “Che spettacoli sono legati alla campagna?” Stavolta sono io che strabuzzo gli occhi: non c’è alcuno spettacolo legato alla campagna, dico, ma lei insiste: “Eh, mica me lo sono inventato, l’ho letto nei comunicati.” “I comunicati li ho scritti io, giuro che non c’è alcuno spettacolo.” Niente, non è convinta, mi dice di aspettare in linea, e va a leggere le mail che le ho mandato. Torna al telefono. “Ah, no, mi sono confusa: avete dei personaggi dello spettacolo come testimonial.”
Un momento di silenzio.
“Senti, ma quando inizia e quando finisce, la campagna?”

E domani mattina, di nuovo a fare il collega di questa qua.

* E mi rendo conto di avere usato un’altra volta un titolo simile, in un posto che aveva sempre a che fare con giornalisti.

Pagherò, in ginocchio da te

Sono iscritto a diversi siti di lavoro. Sapete, JobOnLine.com, FuckThePrecariat.net, cose del genere. Funziona così: tu metti il tuo profilo, le tue esperienze di lavoro, i tuoi obiettivi, e poi ti arriva una mail alla settimana con delle offerte di lavoro.
Ho scoperto che io corrispondo al profilo di sbobinatore di nastri. Cosa fa lo sbobinatore di nastri? Semplice: mette su una cassetta e trascrive quello che c’è registrato sul nastro. Una pratica abbastanza comune per un “giornalista freelance” (vi prego, notate le virgolette) come me, che magari fa un’intervista per la radio e poi la trascriva sperando che venga pubblicata da prestigiose testate come “L’eco di Roccasecca inferiore” o “Il corriere di Baranzate”.
Ho risposto alla mail che mi offriva un lavoro da sbobinatore con il dovuto entusiasmo. Una settimana dopo mi hanno chiamato, per dirmi che stavano valutando il mio profilo per cinque ore di nastro. Nella scala degli sbobinatori penso che equivalga alla valutazione del conduttore di San Remo per uno showman.
Mi hanno richiamato ieri, dalla stessa agenzia di servizi (ah, signora mia, il terziario avanzato… Avanzato nel senso che nessuno ha avuto il coraggio di mangiarselo ed è rimasto lì, prendete pure). Ma non per le cinque ore, bensì per un lavoro di un paio d’ore di nastro. Ottanta euro netti, da consegnare entro lunedì. Stavo per accettare, quando ho chiesto: “Sì, ma quando mi pagate?” Musica d’attesa. Poi la signorina riprende la linea e mi dice: “Dall’amministrativo mi dicono che noi facciamo sessanta giorni fine mese”, una formula che vuol dire che se fatturano lunedì prossimo il mio lavoro mi pagano alla fine di luglio. Ottanta euro. Una somma che io, sebbene sia tutt’altro che ricco, non rifiuterei di prestare ad un amico di un amico.
Non ho saputo dire altro che “No, vabbè, dai, per ottanta euro un sessanta giorni a fine mese, no, dai.”
La gentile signorina mi ha ricordato che viviamo in un regime libero e democratico, e mi ha detto che posso rifiutare.
E appena ho chiuso la telefonata ho capito che no, non avrei sbobinato il festival di San Remo neanche quest’anno.

Attendere, prego

Ultimamente il mio lavoro si sta riducendo ad una cosa soltanto: attendere. Aspetto che salgano percentuali di trasferimento. Che si carichino pagine. Che file vengano copiati. Vedo scorrere barre di completamento, avanzare rettangolini blu, verdi, rossi, neri, grigi, che tendono alla fine dell’alloggiamento dove scorrono (ed è meglio non pensare, in questi casi, al paradosso di Zenone).
Attendo, attendo, attendo. E, tra un’attesa e un’altra, un clic. Poi un altro.
Poi un altro.

Voi potreste dirmi: fa’ qualcosa, mentre aspetti i vari caricamenti, scorrimenti, trasferimenti. Lo faccio. Controllo la posta, di solito. Ma la mente è comunque rivolta alla parte di operazione che sto facendo, a quello che ha preceduto e quello che seguirà il caricamento. Rischio quindi di pubblicare i cavoli miei e di mandare via mail notizie, quando va bene, o blocchi di html. In quel caso, va male. Lo stesso vale per il blog. Non l’ho aggiornato per più di qualche giorno, ma stavo aspettando che si completassero alcuni caricamenti, upload, render, copie, processi.

Ma perché questo non rimanga solo un post lamentoso, vi regalo due canzoncine. Si tratta di due pezzi dei The Subways, un gruppo che ha vinto la sezione “emergenti” del Festival di Glastonbury due anni fa (credo), e che finora ha pubblicato solo un disco, uscito l’anno scorso: Young for Eternity. Ed è proprio con quello spirito che i fanciulli suonano. Tutto e subito, senza pensare troppo alle parole, ma mettendoci l’anima. Ovviamente sono inglesi. Ovviamente il loro secondo disco sarà del tutto dimenticabile, se mai ci sarà. Però mi fa strano che alcuni dei miei blog musicali di riferimento non ne abbiano dato notizia. O forse mi sono perso qualche post. O forse ad alcuni dei miei blog musicali di riferimento questo disco fa schifo. Va’ a sapere.

The Subways – I want to hear what you’ve got to say
The Subways – Rock’n’Roll Queen

(Ovviamente dovrete aspettare un po’ per scaricare i pezzi. Così questo diventa un post decisamente empatico.)

Ciò che pratica Lorenzo P. (5 lingue parlate e scritte – esperto informatica – web marketing/web promotion)

curriculumCaro Lorenzo P.,

ignoro perché tu mi abbia mandato un curriculum. Io, sai, faccio parte di quelli che i cv li mandano, e sperano che qualcuno li legga. Probabilmente hai trovato il mio indirizzo insieme ad altri, o hai usato uno di quei programmini che creano le liste a cui mandare spam, non lo so. Spero per te che tu non sia messo così male da avermi mandato consciamente il tuo curriculum, ma credo sia un’ipotesi improbabile. Comunque, proprio perché spero che qualcuno legga le cose che mando in giro, ho letto quello che hai fatto, e sono rimasto sinceramente impressionato. Hai un paio di anni più di me e hai fatto e studiato una quantità di cose che io forse riuscirei a fare in due vite. Mentre lo leggevo pensavo che avrei potuto inoltrarlo a qualcuno, per darti una mano. Siamo tutti nella stessa barca, in fondo.

Poi, arrivato alla fine, ho letto i tuoi interessi, una parte del curriculum che io stesso valuto poco, sbagliando. E ho visto che, cito, pratichi musica, chitarra, canto, vela, letteratura, scrittura, poesia, volontariato internazionale, moto, tennis, pallavolo, trekking, enologia e gastronomia internazionale.

Potevi dirlo subito che volevi lavorare alla redazione di “Gusto” del TG5.

C'è posta per me: pizzo version

Ieri mi è arrivata una lettera dalla RAI, in cui mi si informava dell'”avvenuto pagamento per le prestazioni autoriali” dello scorso luglio.
Oggi mi è arrivata una lettera dell’ordine dei giornalisti, con la quale vengo invitato al pagamento della quota per il duemilasei, quota che ammonta esattamente alla metà del compenso netto ricevuto dalla RAI.

No, niente teste di cavallo bronzeo nel letto. Domani vado a pagare.

Di |2005-12-13T14:56:00+01:0013 Dicembre 2005|Categorie: We Can Work It Out|Tag: , , |6 Commenti

Crisi? Quale crisi?

Leggo questo post del pur sempre valido Inkiostro. Alle sue parole vorrei aggiungere che il concorso non è sponsorizzato, che ne so, dalle Cartiere Pigna, dal comune di Baricella o da una ACLI, bensì da MTV, una televisione che, come praticamente tutte le altre, ha sempre mostrato la ricchezza (degli altri) come qualcosa di raggiungibile e quasi tangibile. Il primo premio del prossimo concorso, probabilmente, sarà una pensione di invalidità truccata.

Poi vado al bancomat. Di solito accoppio al viaggio verso il bancomat la giocata al Superenalotto: le possibilità di vincere al gioco, infatti, stanno diventando preoccupantemente uguali a quelle che mi paghino per delle cose fatte o scritte mesi fa. Non so se ve ne siete accorti, ma ormai le schermate di attesa dei bancomat hanno delle pubblicità, che di solito riguardano particolari promozioni o vantaggi offerti dalla banca stessa. Beh, sullo schermo del bancomat dove sono andato un paio di ora fa è comparsa una scritta che diceva, più o meno:

Ricomincia la scuola! Chiedi i prestiti agevolati per i libri di testo!

Ora, ho comprato gli ultimi libri scolastici esattamente dieci anni fa. Oh, mica era una spesa fatta a cuor leggero, ma andare in banca a chiedere i soldi per comprarli, beh, sarebbe stato quanto meno bizzarro. (E lo so che c’è qualcuno tra di voi, cuore candido, che pensa a quanto sono generose le banche ad offrire questa opportunità…)

Torno a casa, controllo l’e-mail. Appena dopo la laurea mi sono iscritto ad un paio di siti che offrono lavori vari, di solito sottopagati, interinali, sodomy-friendly, eccetera. Di solito ci si iscrive a questi servizi compilando una scheda personale, una specie di curriculum, con ciò che si ha fatto e ciò che si vorrebbe fare, quanto meno approssimato ad una serie di campi di interesse.
In una mail mi offrono un posto da portiere condominiale in zona centro, a Roma. Richiesta esperienza precedente, laurea o diploma, età tra i venticinque e i trenta.
Il lavoro è per due settimane.
Non ci credete? Volevo mettere il link, ma mi sono accorto che l’offerta non è più presente sul sito.
E penso che, da qualche parte, a Roma, adesso un giovane portiere sta lì, smista la posta, saluta gli abitanti del palazzo e pensa, come tanti di noi, che così davvero non va più.

La visione della RAI da vicino

Dovevo andarci martedì, invece, causa sciopero dei treni, è stata la giornata di ieri a farmi vedere la Rai da dentro, per la prima volta.
Come un vero professionista, ho preso il mio bell’Eurostar da Bologna alle dieci meno un quarto, per arrivare a Roma alle dodici e trenta.
Come un vero professionista, l’Eurostar ha ritardato di dieci minuti.
Come nei film, c’era la coda per i taxi.
Come un vero professionista, ho varcato le soglie di via Asiago 10 alle tredici e ventinove esatte. Ho detto il mio nome, hanno fatto una scansione della mia carta d’identità, mi hanno dato un pass (che però si dice passi, congiuntivo ottativo?), ho provato a passarlo nel lettore perché si aprissero le porte, dopo qualche tentativo, finalmente, sono entrato in Rai. Detta così sembra che avessi in mano un contratto. In realtà avevo in mano solo il passi, che, non so per quale motivo, aveva scritto sopra “scadenza alle 1334”. Per un momento ho pensato che avrei finito il resto dei miei giorni nelle stanze dell’azienda, tipo The Terminal.
In Rai tutti ti guardano con interesse, forse perché pensano che tu sia qualcuno di famoso. No, lo dico perché anche a me sembrava di avere già visto da qualche parte le facce che ho incrociato: cosa assurda, visto che, con ogni probabilità, era tutta gente che lavora in radio.
Comunque, sono salito al quarto piano e lì ho incontrato Violetta e la redazione di Atlantis. Qualche chiacchiera, poi abbiamo registrato i miei pezzi, che andranno in onda la prossima settimana, credo.
Alle due del pomeriggio ero già con Violetta a mangiare un tramezzino.
Alle due e cinquanta ero già sul treno per Bologna, sì, come i veri professionisti.
Trenitalia, però, ha surclassato il professionismo dell’andata, e quindi l’Eurostar è arrivato con mezz’ora di ritardo. Non ventinove minuti, trenta: scatta il lauto rimborso, per una cifra, presumo, intorno ai nove euro.

La stessa, guarda un po’, che serve per portarvi a casa questo.
Io lunedì parto per la Slovenia, come annunciato. Ma spero, prima di regalarvi una puntata di Referrers. Non assicuro niente, anche perché se continua questo caldo mi fonderò con la tastiera, come in una versione aggiornata de Il pasto nudo.

Statemi bene.

Free

Tra tutte le parole importanti, care e cari, “free” ha un posto particolare. Comprensibile a chiunque, spesso legato al sostantivo “freedom”, questo aggettivo è una ventata d’aria  per il dissidente imprigionato, per il consumatore squattrinato, per il pensiero oppresso. E anche per il lavoratore atipico.
Ne inizio a comprendere i diversi significati con il passare del tempo, e con l’esperienza. Eccone alcuni.
Letteralmente “stampa libera”, in realtà il “free press” è un giornale o giornalino o giornaletto che viene diffuso gratuitamente per strada o nei locali. Può essere informativo (City, Leggo, Metro), con tendenze di costume (Urban) o semplicemente pieno di appuntamenti ed eventi che si svolgono nella città in cui viene distribuito. Un paio di mesi fa mi contatta un free press di quest’ultimo tipo, con sede a Bologna, e mi chiede di scrivere di cinema per loro. Nella mail si intende chiaramente che non potrò essere pagato. Ed ecco il duplice significato della parola gratis. Non paghi per prenderlo, non paghi per scriverci sopra. Siccome è una vita che lavoro gratis, tento al primo colloquio che ho con il direttore di ottenere qualche vantaggio materiale dalla mia eventuale collaborazione con il giornale. Dopo avere scartato un pagamento in termini di “visibilità” (visto che, sebbene la mia firma in fondo all’articolo sia in grassetto, sempre di carattere in corpo tre si tratta), dopo avere rifiutato un compenso in forma di caciotta venuta direttamente dalla Sicilia, fatta con le pecore della prozia della redattrice, riesco a piegare i vertici del free press per farmi avere una tessera che mi permetterebbe di andare a vedere tutte le proiezioni di un noto multisala cittadino gratis, free. E quindi accetto.
Per scoprire che la tessera è sospesa durante i primi dieci giorni di programmazione di qualsiasi film. Qualsiasi. Ora, dovendo guardare i film al massimo entro una settimana dall’uscita, per assolvere i miei doveri radiofonici, la tessera si rivela fondamentalmente inutile.
Rimane, quindi, il problema di fare dei soldini da qualche parte, per sfruttare il tempo libero che il lavoro part time mi lascia. Scartando alcune attività a me poco consone (tipo carpentiere, maestro d’asilo, fisico nucleare e, soprattutto, capo del mondo, che richiederebbe – ne sono certo – un full time che non mi posso permettere), penso ad un’altra tessera che ho e mi butto verso il giornalismo free-lance.
Il giornalista free-lance, spesso, è un piazzista. Tenta di vendere a chiunque qualsiasi cosa che ha scritto in vita sua, dalla lista della spesa ai dossier segreti del KGB (in questo caso, ovviamente, non appare la sua firma in calce). Fondamentalmente tutti cercano un giornalista free lance. O meglio, tutti sono disposti ad avere servizi incredibili, magari da zone delle quali gli inviati dei giornali non frequentano neanche gli alberghi. Io, al massimo, potrei fare un servizio dal Pilastro*, ma comunque mando lo stesso il mio curriculum qua e là, dovunque si richiedano delle collaborazioni di qualche tipo. Ed ecco la mail che ho ricevuto stamattina.

Gentile Utente,
la ringraziamo per averci contattato e per averci inviato il suo curriculum via mail, l’annuncio pubblicato nelle offerte di lavoro di XXX, in realtà riguarda la nostra ricerca di collaboratori free lance disposti a scrivere recensioni a titolo gratuito e volontaristico, naturalmente tutti i collaboratori usufruiranno degli accrediti stampa per seguire gli eventi da recensire, se questa offerta dovrebbe essere di suo gradimento e le interesserebbe collaborare con la nostra testata giornalistica, la invitiamo a contattare il nostro direttore responsabile, drt. YYY che le spiegherà tutte le modalità per l’inizio della collaborazione.
Ringraziandola ancora per la sua disponibilità e complimendomi con lei per il suo brillante curriculum, le porgo i nostri più cordiali saluti.

Quello che mi ha comunicato questa lettera, di nuovo, è il senso di libertà. Di un mercato del lavoro flessibile, mobile, elastico, volontaristico, libero da costrizioni, sindacalismi, burocrazie contrattuali. E, soprattutto, libero da regole grammaticali.

* Quartiere periferico di Bologna, dotato di fama sinistra e malavitosa (ma secondo me non è male).

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