cena

Imponi un posto a tavola – 3

Arriviamo alla cena dell’ultimo giorno pronti a tutto. O almeno, così credevamo. Alle otto e un minuto sono già tutti a tavola: abbiamo perso l’ultima occasione per capirci qualcosa delle dinamiche temporali di assalto alla mensa serale. Troviamo posto accanto a un gruppo di quattro persone: le sedie accanto alle nostre non saranno mai occupate durante tutta la cena, a differenza dei nostri padiglioni auricolari, invasi per due ore dalle chiacchiere delle due coppie al tavolo con noi.

La coppia A è formata da due persone più che sovrappeso di 35 e 33 anni, di vicino Milano, che stanno insieme da 11 e sono sposati da cinque; lui ha un nipote che fa 10 anni a luglio, ama lavorare e mangiare. Anche lei ama mangiare (ma dai), ma quella sera è a dieta, ha una predilezione per il viola (colore che domina le pareti del loro appartamento) e, in quel momento, male ai polpacci e pochissimo appetito, poiché ha mangiato un biscotto (in parte: è rimasto sul comodino per dopo), che consiste in cioccolato ripieno di nutella.
Capirete che questi dati non sono inventati.

Nella coppia B lui può avere una quarantina d’anni e vive a Milano. Lei di anni ne ha 35 e fa l’educatrice in una scuola materna.
Oh, la coppia B parlava decisamente di meno, che ci posso fare?

Dall’antipasto (a buffet) al dolce è stato un susseguirsi ininterrotto di conversazioni piatte e banali: dal colore delle pareti a come si vive a Milano, da quanti quintali di carne il maschio-A ha arrostito per la tal sagra, al tentativo di battere il record di persone che formano una catena umana intorno a un lago. La coppia A ha invitato la coppia B a unirsi alla prova: lei-B quasi quasi ci stava. Si è poi parlato di traffico, di stile “rusticato” (di cui Maschio-A sapeva tutto), di orari di lavoro, di souvenir (seriamente), di educazione dei figli con annesse prove che alla fine si può anche stare senza cellulare. A quel punto il maschio-B ha detto che “Non si può tornare indietro” e ho avuto l’impressione che si riferisse alla scelta dei posti per la sera.

Il tono della conversazione si è mantenuto così per un po’: era tale che se qualcuno avesse parlato di uova fritte, si sarebbe impennato l’interesse in maniera vertiginosa. Io, dentro di me, pensavo da un lato che gli argomenti erano di una noia letale, ma che sarebbe stato peggio se avessero tirato fuori…

E dal nulla Maschio-A ha detto che Pisapia se ne sarebbe prese, di critiche. Così. Sua moglie ha detto che non sapeva chi fosse. Lui l’ha subito informata della carica recentemente conquistata, aggiungendo con poca sicurezza: “È un avvocato”. Da lì all’argomento extracomunitari il passo è breve, dire che danno tutte le case a loro è una logica conseguenza. Mentre mi infilavo della cotenna di porco nelle orecchie, ho percepito le parole “rubare”, “gli danno trenta euro al giorno e stanno in albergo” e “Lampedusa”. Poi la sugna ha fatto il suo dovere, ottundendomi dolcemente dentro e fuori.

“Siete sopravvissuti?” ci ha chiesto il cuoco campano fuori dalla sala da pranzo.
Abbiamo annuito col capo e siamo corsi in camera: da lì a qualche ora i nostri vicini e i loro bambini ci avrebbero avvisato, a modo loro, che era tempo di partire. Il ponte era ormai agli sgoccioli.

fine

Imponi un posto a tavola – 2

La seconda cena viene affrontata con il bagaglio di conoscenze del giorno prima: sappiamo che per sopravvivere dovremo evitare ogni contatto con i campani, altrimenti è provocazione, e tentare di trovare un posto alla fine di un tavolo, per sentirci meno oppressi della sera precedente. Decidiamo quindi di presentarci alla sala da pranzo prima dell’ora concordata: se nel giorno prima alle otto e sei minuti i posti liberi erano già pochissimi, forse l’orario di cena non è così rigido.

Lo è: alle otto meno dieci B., io e altri sette o otto ospiti ronziamo intorno alle porte chiuse della sala da pranzo come coyote. Mi viene in mente il film Sette chili in sette giorni, e quello sarà l’inizio di una serie continua di rimandi tra quello che sto vivendo e alcune scene di commedie italiane. Appena si aprono le porte, sciami di persone iniziano a confluire sul buffet da ogni direzione. Mentre prendiamo posto (in angolo!) a un tavolo, ci nota un cuoco (pure lui campano) che commenta sornione la nostra immobilità: “Fate bene ad aspettare…”.

La cena scorre tranquilla: possiamo chiacchierare liberamente, nessuno si è seduto al nostro fianco. Notiamo che le coppie che erano con noi al tavolo il giorno prima hanno fatto amicizia. Il sosia di Al Pacino partecipa, pur con sguardo vagamente stordito, alle conversazioni e, forse, sbircia nella scollatura della commensale di mezza età alla sua destra, incurante dello sguardo della moglie. Era quindi il nostro imbarazzato silenzio a mettersi d’ostacolo a nuove conoscenze, ma non importa, perché possiamo parlare tra noi a un tono normale, mentre le nostre parole si confondono indistinte a quelle dei gruppi (sono compagni di viaggio o si sono conosciuti all’agriturismo?) e ai silenzi di coppie intimorite come lo eravamo noi solo ventiquattr’ore prima. Andiamo a letto, quella sera, con pensieri baldanzosi sulla colazione del giorno dopo.

Alle sette e quaranta del mattino udiamo dei suoni emessi dal bambino nostro vicino, ai quali presto risponde l’altro bambino, convincendo infine ad unirsi al chiacchiericcio i quattro genitori: i campani si sono svegliati.
Quando arriviamo nella sala da pranzo, sono già in molti a fare colazione: decidiamo di sederci vicino a una coppia di ragazzi giovani che, poco dopo il nostro arrivo, hanno questo scambio di battute.
Lei: “A Miami fa troppo caldo…”
Lui: “E allora non rompermi i coglioni quando vado alle Barbados”.

Finiamo in fretta di mangiare: se sanno che al massimo ce ne andiamo in vacanza in Croazia, noialtri, va a finir male.

continua

Imponi un posto a tavola – 1

“Non si finisce mai di imparare” e “Al peggio non c’è mai fine”: se dovessi riassumere l’ultima esperienza conviviale che ho vissuto, userei questi due modi di dire. Banali quanto volete, ma veritieri. Ma cominciamo dalla cornice: un agriturismo della campagna umbra nel quale ho passato il ponte appena trascorso. Ci spiegano che la cena viene servita alle otto e ci mostrano la sala da pranzo: un refettorio, con tavoli lunghi e sedie tutte intorno ad essi. “Siamo un po’ francescani nello spirito”, ci dicono. Siamo a due passi da Assisi: cosa si vorrà mai essere?

Arriva l’ora di cena: o meglio, io e B. nella stanza attendiamo con pupille e stomaci dilatati le otto di sera. Decidiamo di presentarci alle otto e cinque: la sala da pranzo è quasi completamente piena, con un nugolo di persone che si aggira intorno al tavolo del buffet. Ci viene incontro uno dei camerieri e ci indica due posti liberi: siamo a un tavolo con altre due coppie.

Una è formata da due quasi sessantenni: lei è volgarotta nei tratti, esibisce generosa scollatura e catenina; lui è abbastanza anonimo. L’altra coppia è formata da poco più che quarantenni: lei abbastanza anonima, lui stranamente somigliante ad Al Pacino, ma in brutto, e con un’espressione stordita perennemente stampata sul volto. B. e io siamo imbarazzatissimi: non è avere un tavolo con due sconosciuti molto vicino, è condividerne uno con quattro sconosciuti.

Mormoriamo per comunicare e così fanno gli altri, ma non tutti si comportano allo stesso modo: ci sono gruppi di quattro o sei persone che chiacchierano amabilmente tra loro. Sono gruppi preesistenti, compagni di viaggio, o si sono formati spontaneamente? Molte coppie, però, hanno un’aria quasi penitenziale, mentre mangiano. Probabilmente l’abbiamo anche noi.

Il giorno dopo, a colazione, si ripete lo stesso meccanismo: troviamo però un posto più isolato così che riusciamo a scambiare qualche parola: la notte non è stata delle migliori, perché le pareti delle stanze sono sottili e dietro di noi c’è una famiglia campana con bambino piccolo.

Ci siamo capiti. Forse per la stanchezza, forse per la forza dell’inconscio, ma indovinate su chi B. ha rovesciato del latte, durante quella prima colazione? Sull’amico del nostro vicino. Anche lui campano, anche lui con figlio piccolo, che alloggia un po’ più in là della nostra stanza.

Mentre noi minimizziamo l’accaduto con gli altri compari, il nostro non dice nulla. Ci fissa con occhi glaciali e noi capiamo che, per i cinque pasti che ci rimangono, avremo un nemico da cui guardarci.

continua

Metti una sera a cena – Atto unico

E quindi capita che, dopo avere visto Ti ho sposato per allegria, il vostro vada a cena con i protagonisti della commedia. Conoscenze altolocate, sapete. Mica sono milionario per meriti miei, io. Comunque. Il locale scelto è il posto più in di Bologna, roba segnalata con una profusione di palline, cappellinidacuoco, forchette e stelline su ogni tipo di guida. Io, per fortuna, ho già cenato, prima dello spettacolo, tutti gli altri no. Io bevo e basta, guardo e ascolto. Oltre ai tre attori protagonisti e C., c’è un quinto commensale: è un architetto, amico della protagonista. Persona gioviale e simpatica. Sipario.

Entra il cameriere. Molto, molto depilato in zona sopraccigliare, molto calabrofrancese. Chiama l’attrice più anziana madame. Quando capisce che io e C. non mangiamo, non ci degna di uno sguardo. Quando la meravigliosa protagonista chiede, in un posto noto per le sue ostriche, una pasta al pomodoro, io vorrei alzarmi e applaudirla. Il cameriere abbozza, e tenta di propinarle, quanto meno, non delle penne, ma delle farfalle (les pennes sont très vulgaires). Non le chiama, però, papillons. Il cameriere prende le ordinazioni alzando ritmicamente quel poco di pelo che si è lasciato sopra gli occhi. Quando annota mentalmente le pietanze dice “sì”, ma dentro di sé, forse, pensa “oui”. E gli manca la ‘nduja che faceva sua nonna.
Arriva il vino, che viene fatto assaggiare all’attore protagonista. Solo che si accorge solo dopo un paio di minuti che il cameriere è accanto a lui e gli sta mostrando l’etichetta del vino che ha scelto. L’attore mi guarda, come per dire “Sì? Va bene?”. Io lo guardo come per dire “Ma a me lo chiedi?”. Lui si gira verso il cameriere, fa un cenno con la testa, il cameriere versa un goccino di vino, l’attore gira il bicchiere un po’, odora, beve e io penso “Ti prego, ti prego, sputalo, come si fa veramente!”. Niente. Lo ingoia. Altro cenno. Il cameriere pensa “bon” e ci versa il vino.
Arrivano i primi: l’attore ha chiesto una zuppa di lenticchie. Che gli viene servita (giuro) in un Bormioli Quattro Stagioni. “Perché?”, pensiamo io e l’attore. “Pas que”, risponderebbe il cameriere, se glielo chiedessimo. Non glielo chiediamo, e ci concentriamo invece su cosa sta dicendo l’architetto alla sua amica attrice. Niente di tale, solo frasi del tipo “Sono architetto, ma mi sono sempre interessato alla psicanalisi. Ho studiato quaranta correnti diverse, ma sono un cosano [scusate, non ho preso appunti] convinto. Coso stava a New York, era ebreo, ovviamente [eh certo, ti pare uno psicanalista che sta a New York, può non essere ebreo? No]. E parlava di rebirthing [in questo punto preciso C. mi stringe la mano, io le tasto il polso, per accertarmi he non stia per avere un collasso]. Si tratta di una tecnica per cui si cerca dentro se stessi tramite l’ossigeno, andando in iperossigenazione”, conclude l’architetto. “Iperossigenazione a New York?” dico io all’attore. “Roba da prendersi un cancro ai polmoni fulminante.” L’attore ride, un po’ per la battuta, un po’ perché sta mangiando una zuppa di lenticchie carissima in un vaso di vetro.
Poi si parla di genitori, di lavoro, di psicanalisi, di architettura, di materiali di recupero, di psicanalisi, di energie negative e positive.
L’attrice protaginista sta per chiedere qualcosa al calabrofrancese, che trema. “Vorrei della frutta”, dice. “Le posso fare un misto”, replica lui. “Veramente vorrei solo un mandarino”, dice lei. Lui pensa agli anni passati alla scuola alberghiera.
Tutto viene interrotto dall’arrivo del conto.
Arriva poi lo chef: la compagnia vorrebbe che facesse una teglia di lasagne che loro vorrebbero portare a casa del figlio dell’attore, dove passeranno la vigilia. Ma non sanno quanto possa costare. Lo chef è evidentemente imbarazzato, chiede una calcolatrice, chiede aiuto con lo sguardo al calabrofrancese (che pensa “e mho sono cazzhi thuoi, io ‘u thurn’ l’ho finith”), alla fine dice: “120 euro”. E aggiunge “Però è spesso, eh”, e fa’ un gesto con due dita. Lo spazio tra il suo pollice e il suo indice corrisponde esattamente allo spessore di una mazzetta di banconote. Sorride. Sorridono.
Sorridiamo anche io e C., perché il vino che abbiamo bevuto ci viene offerto dall’attrice anziana (che, detto per inciso, è una delle pochissime persone di spettacolo che conosco che ha mantenuto una certa umanità).
Sipario.

I've read the news today, oh boy: pauperismo oggi

Attenzione, italiani. Il vostro stipendio non vale più niente! Lo dice una ricerca dell’Eurispes pubblicata ieri. Nessuno riesce più a risparmiare un cacchio, e qualcuno manco a comprare qualcosa. Ma il tutto è riferito a chi percepisce uno stipendio. Io non percepisco uno stipendio. Mi pagano, ogni tanto, qua e là. G. detto Peppino, manco quello. E la sua ragazza è lontano a fare l’Erasmus. G. detto Peppino non mangia, sta al telefono. La cosa mi interessa, perché io e G. detto Peppino abitiamo insieme e il telefono è spesso occupato. Abitando insieme, a volte, mangiamo insieme. E un paio di giorni fa siamo andati a fare la spesa insieme. La spesa per modo di dire. Dovevamo solo comprare del pane e della carta igienica.

“Che mangiamo a cena?” mi chiede Peppino, fiducioso.
“Cazzo vuoi mangiare? Pasta con il pomodoro. Non c’è altro e non abbiamo sold.i”
Peppino annuisce e trattiene un lacrimone tipo cartone animato giapponese. Entriamo nel supermercato. Io vado al banco carne, prendo in mano una confezione di qualcosa e guardo il prezzo: quattro euro e settanta.
“Vedi? Questo vale esattamente quanto l’intero ammontare dei miei averi depositati in banca”, dico a Peppino. Che però non capisce… Mormora cose come “mmmmbuon” e indica i grossi grani di pepe verde che decorano squallidamente la carne.
“Quattro euro…”
“…e settanta” aggiungo io.
“Però c’è anche il pepe”, mormora Peppino.
Prendiamo il pane e andiamo alla cassa. In due con un pezzo di pane e quattro rotoli di carta igienica. Neorealismo puro. Il cliente prima di noi paga con dei buoni pasto, ma la cassiera dice che non bastano. Allora, come se nulla fosse, tira fuori una banconota da cinquecento euro. Peppino ed io (e anche la cassiera) sbarriamo gli occhi. Non avevamo mai visto una banconota da cinquecento euro… Io faccio mentalmente un calcolo, paragonandola al mio conto in banca. Stavolta sono io a trattenere a stento il lacrimone. Ci passano per la mente, in maniera netta ma fugace, piani di rapina rapida che consistono, grosso modo, nel tramortire la cassiera a testate e poi fuggire col malloppo. Anzi, per un momento pensiamo di applicare la tecnica a tutti gli esercizi della zona. Già ci immaginiamo i titoli sui giornali: “La banda delle testate colpisce ancora”. Non prendiamo neanche la busta di plastica (che qui si chiama “sportina”): quindici centesimi sono quindici centesimi (e un trentesimo circa dei miei averi).

Usciamo dal supermercato, e Peppino ha un momento di insofferenza, passando davanti ad un fruttivendolo. “Compriamo anche un peperone, almeno diamo sapore al sugo”. Mi sta bene. Mentre aspettiamo il nostro turno, noto delle cipolle bruciacchiate in una cesta e, quando il negoziante si rivolge a noi, gli chiedo che cosa siano.
E lui inizia (da leggere con pesante accento bolognese): “Ah, quelle… Quelle sono zipolle cott’al forn’. Zioè, un tempo le fazevamo noi fruttivendoli, adesh le fanno quelli che producon le zipolle… Noi, quando chiudevamo, mettevamo delle grandi lashtre e poi zi mettevamo shopra le zipolle e poi andavamo nei forni a farle rishcaldare… Un profumo! E poi inveze adesh non le fazziamo mica più noi… bla bla. Ma cos’è che volevate?”
Peppino scandisce bene: “Un peperone, rosso”. Il fruttivendolo prende un peperone rosso, piuttosto piccolo, e lo pesa. “Altro?”. E qui a Bologna, se non si vuole nient’altro, bisogna dire “altro”. Ma anche se dici “no” ti capiscono. “No, grazie”, dice Peppino, che è educato. Io guardo le cipolle, rapito.
“Un euro e venticinque.”

Nel tragitto fino a casa l’unica cosa che Peppino ha detto è stata: “Un euro e venticinque. Un peperone. Un euro e venticinque”. Credo abbia mormorato anche qualcosa come: “Ma lo sai dove te le metto io le lastre per le cipolle?”, ma non ricordo bene.

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