dagli archivi

Dagli archivi: Fufanu – Few More Days To Go

Fufanu – Few More Days To Go (One Little Indian)

6,5

fufano few more days to goPrima si chiamavano Captain Fufanu e facevano techno. Poi gli islandesi Hrafnkell Flóki Kaktus Einarsson e Guðlaugur Halldór Einarsson, meglio noti come Kaktus e Gulli, hanno lasciato da parte il Captain e le drum machine e nel 2014 si sono chiusi in studio a ripassare la musica più scura di fine anni Settanta e primi anni Ottanta, tra gothic rock, post-punk, new wave e industrial. E così i due hanno sfornato, tra lo scorso gennaio e oggi, una dozzina di canzoni che hanno trovato posto in un ep uscito quest’estate, un paio di singoli e, ovviamente, questo esordio: un album non male, intendiamoci, ma che soffre di alcuni difetti.

Da un lato, la monotonia e la lunghezza di pezzi (come l’apertura “Now”) che improvvise aperture armoniche e dinamiche non sempre riescono a salvare: meglio i brani più brevi, come “Your Collection” e “Blinking”, in cui si flirta apertamente con i Sonic Youth, o la movimentata “Plastic People”, che crea interessanti dissonanze tra chitarra, synth e voce. Dall’altro l’eccessivo legame con una serie di riferimenti, dai Joy Division ai Bauhaus, dai Killing Joke a Gary Numan, che porta spesso l’ascoltatore a inevitabili déjà-vu. Peccato, perché se ci fossero state in fase di composizione, arrangiamento e editing “a few more ideas”, per parafrasare il titolo del disco, l’esordio dei Fufanu ne avrebbe sicuramente giovato.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di novembre 2015 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: Puscifer – Money Shot

Puscifer – Money Shot (Puscifer Entertainment)

6

puscifer money shotSicuri che sia corretto definire i Puscifer come il mero divertissiment solista di Maynard James Keenan? In otto anni sono ormai usciti con questa sigla due live, tre ep, quattro album di remix e tre in studio, ognuno dei quali ha definito meglio il percorso cominciato con V for Vagina: se il debutto sembrava quasi uno scherzo, Conditions of My Parole ne era una versione più pacificata e contenuta. Quattro anni dopo, Money Shot è il risultato finora più coeso di questo cammino: tra alt-rock ed elettronica, tra bordate di chitarra distorte e schemi ritmici sintetici e liquidi, l’album gira intorno alla finitezza dell’uomo rispetto allo spazio e al tempo e ridicolizza la sua posizione nell’Universo.

Argomenti tipici di alcuni testi di Tool e A Perfect Circle: e anche in queste vesti Keenan mostra il suo approccio lirico unico, con momenti di humour scurissimo e cupamente surreale. È musicalmente che il confronto non regge: per quanto in quest’ultima fatica si noti – in parti spesso preminenti – la bella voce di Carina Round, valorizzata a dovere dalla produzione di Mat Mitchell, brani ben costruiti come Galileo, la title track e Grand Canyon si alternano a momenti un po’ troppo prevedibili, appesantiti dalla ripetizione di formule timbriche e dinamiche. Il rischio, insomma, è di sfiorare qualcosa che da Keenan proprio non ci aspetteremmo mai: la convenzionalità.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di dicembre 2015 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: Kill the Vultures – Carnelian

Kill the Vultures – Carnelian (Totally Gross National Product)

8

Altri ascolti raccomandati
cLOUDDEAD – s/t
Kill the Vultures – The Careless Flame
Brandt Brauer Frick – Miami

Dopo sei anni di silenzio, l’MC Alexei Casselle e il produttore Stephen Lewis tornano con un album cupo e teso. Carnelian spinge ancora più in là l’approccio dei Kill the Vultures, che, fin dall’esordio del 2005, hanno scelto delle basi insolite sulle quali raccontare le proprie storie. In quest’ultimo capitolo della loro discografia hanno per lo più sostituito i campioni presi da cataloghi jazz (nel senso più ampio del termine) con partiture che coinvolgono di volta in volta archi, pianoforte, ottoni, flauto, vibrafono e percussioni; musiche appositamente scritte e fatte registrare, per poi essere smontate e rimontate al fine di comporre i beat sui quali si dipanano i cinquanta minuti scarsi di questo disco. Se da un lato c’è la volontà di fare piazza pulita, dall’altro è evidente la necessità di avere tutto sotto controllo, per creare il disco più completo e convincente dei quattro finora firmati dal duo di Minneapolis.

Il titolo, tradotto, vuol dire “corniola”: è una pietra – ci insegna Wikipedia – dalla forte valenza allegorica, in particolare per gli Egizi: nei loro culti simboleggiava la vita ed era indispensabile per garantire ai defunti il passaggio tra i due mondi. Di riferimenti a questa transizione il disco è pieno, a cominciare da The River, in cui le parole di Crescent Moon – accompagnate da campane e contrabbasso – si muovono suadenti per narrare in maniera astratta e figurata uno stato tra la vita e la morte molto più quotidiano di quanto possa sembrare. I Kill the Vultures raccontano, non denunciano; declamano, non divertono. Da sempre. La sfida è quella di entrare nel loro mondo, notturno e minaccioso, descritto da immagini fortemente allegoriche (“Nothing but a white wall, lightbulb and a serpent”, nella citata The River), in cui il diavolo “danza sotto i lampioni” (Topsoil). Il senso di morte è a tratti opprimente e domina uno dei pezzi chiave del disco, quella Coins on the Open Eyes, dove il testo ripete il titolo nel ritornello, aggiungendoflies in the open mouth” e si chiede, sardonico, se un boia “ever gets stage fright”.

Sebbene i richiami al jazz ci siano (l’inizio di Simmer in questo è chiaro), le musiche di Carnelian si rifanno a melodie e armonie tipiche della cosiddetta avanguardia, sin dal singolo – e prima traccia dell’album – Shake Your Bones: le improvvisazioni che la chiudono si rincorrono sui registri più alti di archi e ottoni e fanno scivolare l’ascoltatore nel clima di tensione che vivrà per i successivi quaranta minuti. Tuttavia, per quanto “avant” o “sperimentali” possano essere considerati, i Kill the Vultures fanno comunque hip-hop e in questa ultima produzione non si rinuncia del tutto ai tratti più riconoscibili del genere, pur personalizzandoli. Il flow non è mai virtuosistico in termini di velocità o di metrica interna: ha un andamento solenne e declamatorio, è sicuro nel descrivere storie allo stesso tempo note e difficilmente riconducibili in maniera inequivocabile a scenari reali.

Eppure non è difficile rintracciare certi temi abituali della doppia H – razzismo, potere, denaro, crimine – lungo le dozzina di tracce del disco: in Vandal tutto ciò è più esplicito che in altri pezzi, ma le parole in Carnelian, dal potente senso immaginifico, lasciano all’ascoltatore la decisione di entrare nel mondo quasi orrorifico che si crea e il successivo piacere di definirne i dettagli. Non c’è la chiamata alle armi strombazzata da ritornelli da stadio, l’affiliazione sfacciata a cui brama, tra un ammiccamento e l’altro, il rap più comune e diffuso. Allo stesso modo le basi di Smoke in the Temple e del dittico finale Amnesia / The Last Time evocano strutture hip-hop usando altri mezzi rispetto ai beat pompati e compressi, senza mai fare sentire la mancanza di un uso massiccio di macchine e campionatori. E c’è spazio anche per filastrocche letteralmente agghiaccianti come quella di Crown, un girotondo allucinato di gemiti, pianoforte e batteria, il momento più estremo di un album davvero riuscito.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di dicembre 2015 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: Cheatahs – Mythologies

Cheatahs – Mythologies (Wichita Recordings)

7,5

 Cheatahs - MythologiesAllo shoegaze sporcato di alt-rock del pur riuscito disco d’esordio la band dalle plurime nazionalità di casa a Londra aggiunge tantissime contaminazioni, per lo più efficaci, sperimentate nei due recentissimi ep “Sonne” e “Murasaki”. Soprattutto quest’ultimo, con i suoi richiami letterari (Murasaki Shibitu è l’autrice di Genji Monogatari, capolavoro della letteratura giapponese) e con la ricchezza di suoni che lo contraddistingue, è la vera introduzione a “Mythologies”, il cui titolo è ripreso dalla nota raccolta di articoli di Roland Barthes sui miti del mondo contemporaneo. La partenza è affidata a “Red Lakes (Sternstunden)”, in cui le voci parlate e cantate si rincorrono sugli strati di suono marchio di fabbrica del quartetto.

Ma è dal terzo pezzo, “In Flux”, che i Cheatahs ci danno davvero dentro: il ritmo motorik su cui poggia questo brano sorprende (anche se ce lo si potrebbe aspettare dal batterista Marc Raue, tedesco) e lancia l’album verso territori sperimentali, che mischiano l’ambient con i suoni di chitarra e i synth con aromi psichedelici. La scaletta è una trovata dopo l’altra in cui un uso intelligente di rumore elettrico, nastri, voci al contrario si sposano a soluzioni ritmiche non scontate. E c’è una sequenza, che comprende “Colorado”, “Su-pra”, il travolgente singolo “Seven Sisters”, la già citata “Murasaki” e “Mysteci”, davvero memorabile.

 

Recensione pubblicata originariamente sul numero di ottobre 2015 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: Public Image Ltd. – What the World Needs Now

Public Image Ltd. – What the World Needs Now (PiL Official)

7

Altri ascolti raccomandati
Public Image Ltd. – The Flowers of Romance
David Bowie – Let’s Dance
The Pop Group – Citizen Zombie

Public Image Ltd. - What the World Needs NowSpoiler: ciò di cui ha bisogno il mondo ora è “a big fuck off”. La risposta al titolo del nuovo album in studio dei PiL è nella traccia di chiusura, l’unica che vira sull’elettronica delle undici di What The World Needs Now. Se in Shoom Lydon manda a quel paese in maniera prevedibile sesso, successo, contratti, botox (sic), arrotando le erre a più non posso e riassumendo in sei minuti e mezzo la parte più dance della storia del gruppo, nelle altre tracce torna musicalmente all’elettricità che in This Is PiL si era un persa in favore del versante dub.

Molti testi hanno un taglio “autobiografico”, ma non aspettatevi chissà quali confessioni: non saranno quelle a stupirvi, quanto i coretti “auuu” in The One (questa è una canzone d’amore) e le celestiali aperture armoniche in Big Blue Sky (non c’entrano gli ELO: il cielo del titolo è “quello che vedrò quando morirò”). Due brani che stridono se confrontati con la coppia formata dal potente singolo Double Trouble e dalla caustica B-side Betty Page, in cui c’è una specie di parodia del Bowie di Let’s Dance e gli USA (tornati a sorridere al Duca Bianco nei primi anni ’80, proprio quando Lydon era ai ferri corti con il membro fondatore Levene) vengono definiti “the most pornographic country of the world”. Probabilmente Lydon un po’ ci fa e un po’ ci è con queste uscite: tuttavia, pur invecchiando, diverte; meno quando va sull’autobiografico.

La scaletta infatti piazza di fila due doppiette tematicamente un po’ scontate: la prima formata dalla litanica C’est la Vie e da Spice of Choice (dove ovviamente la choice è of life); la seconda da Whole Life Time e I’m Not Satisfied (“Then the drugs to ease the pain, but the drugs didn’t work and I’m back again”). Però la musica funziona: d’altro canto se l’album è il primo in assoluto nella storia della band in cui l’organico (il chitarrista Lu Edmonds, Bruce Smith alla batteria, Scott Firth al basso e Steve Winwood alla produzione) è lo stesso del disco che lo precede, qualcosa vorrà pur dire.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di settembre 2015 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: Sleaford Mods – Key Markets e intervista

Sleaford Mods – Key Markets (Harbinger Sound)

8

Altri ascolti raccomandati
Sleaford Mods – Chubbed Up +
Public Image Ltd – Metal Box
Suicide – Suicide (1977)

L’ottavo disco in studio del duo di Nottingham arriva dopo un anno d’oro in cui la notorietà di Jason Williamson e Andrew Fearn è cresciuta notevolmente. Ma Key Markets (si chiamava così un supermercato frequentato dal piccolo Jason nella natale Grantham) non si limita a ripetere le formule del recente e fortunatissimo Divide and Exit. Le basi di Fearn cercano altre soluzioni, per esempio: il basso-e-batteria pulsanti che si ritrovano in molte tracce diventano ancora più ipnotici e paranoici (Bronx in a Six), o quasi hardcore (No Ones Bothered), ma hanno anche modo di rallentare (Tarantula Deadly Cargo) e di tingersi di sfumature esotiche (Arabia). Musicalmente anche Williamson si espande, lanciandosi talvolta in minimali escursioni melodiche che ricordano il salmodiare crudele e ironico di Lydon.

Ma ogni riferimento è vano: gli Sleaford Mods sono unici, nella loro musica c’è tanto il post punk quanto la cultura rave, il minimalismo elettronico, l’hardcore e, chiaramente, l’hip hop. Tuttavia anche quest’ultimo genere è semplicemente strumentale alle narrazioni di Williamson, che affina ancora di più penna e lingua: l’uso di un lessico sempre più preciso, infuocato e caustico, gli permette di essere amaramente satirico e credibile pur prendendosela praticamente con tutti. Con i ricchi e i tories, principalmente, facendo spesso nomi e cognomi; ma anche con chi accetta passivamente, giorno dopo giorno, la subordinazione, lo schiacciamento sociale.

Il duo attacca chi la musica la fa e la diffonde (c’è una notevole frecciata alla popolare dj della BBC Lauren Laverne), ma anche chi si concia alla moda: “You live in Carlton, you twat, you’re not Snake fucking Plissken!” (“Vivi a Carlton, idiota, non sei un cazzo di Snake [in italiano “Iena”, ndr] Plissken”), urla in Cunt Make It Up. Una rabbia travolgente domina Key Markets, accompagnandosi alla consueta ironia che è ancora più scura e urticante del solito: ma qua e là affiorano altre sensazioni legate a un tempo ormai irrimediabilmente perso, quando, se non altro per disperazione, aveva ancora senso lottare.

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Sono in due: Andrew Fearn si occupa delle basi dal 2012, Jason Williamson dei testi dalla nascita degli Sleaford Mods, sancita nel 2007 con il primo self-titled arrivato quando Williamson (dopo svariati progetti musicali “tradizionali”) ha deciso di dedicarsi completamente al nuovo progetto. Sono quindi seguiti altri sette album, due ep e tre raccolte, una delle quali data alle stampe dalla Ipecac di Mike Patton nel 2014, l’anno che li ha visti esplodere. Negli ultimi mesi hanno incendiato i club e i festival di mezza Europa con live preceduti da soundcheck di cinque minuti scarsi, visto che sul palco hanno solo un portatile, un microfono e delle birre. Non fanno rap né davvero post punk, sebbene siano questi gli unici generi in cui si potrebbero provare a contenere gli Sleaford Mods, tanto minimali quanto abrasivi. Sono la quintessenza del Made in Britain, lontani dal posh e vicini ai pub, orgogliosi delle loro origini, ma fieramente e storicamente anti-establishment. Una voce unica nel panorama musicale odierno e in via di evoluzione: l’ultimo disco Key Markets (vedi recensione sopra) è il segno che i due quarantacinquenni (più o meno) di Nottingham non si siedono sugli allori. Non che l’avessimo mai pensato, eh. Abbiamo chiesto a Williamson come siano arrivati a questa diversificazione di ritmi, suoni e temi. “È successo spontaneamente”, ci ha scritto. “Avevamo in mente l’idea di provare nuovi approcci, ma non ci siamo troppo agitati al riguardo. Siamo semplicemente andati in studio e abbiamo registrato come sempre. Siamo una band molto essenziale e così dev’essere anche il processo di registrazione dei nuovi pezzi. Se complicassimo troppo le cose, si perderebbe la forza primaria”.

La traccia di apertura del nuovo disco, Live Tonight, comincia con i vostri fan che urlano scandendo il vostro nome. Quanto la dimensione live influenza la vostra musica e viceversa?
La musica detta la performance live e la cambia di continuo. Andare in tour è tanto importante quanto per me non proprio piacevole, ma modella ciò che la band è davvero. Il processo di registrazione è comunque del tutto separato e non penso che migliori il live

Hai detto molte volte che gli Sleaford Mods sono nati perché non ne potevi più della forma canzone e che non volevi più cantare. Tuttavia nei vostri dischi, e nell’ultimo in particolare, ci sono accenni a strutture più convenzionali e ogni tanto canti pure! Cos’è che ti fa cambiare idea in questi casi e perché?
Credo di avere trovato un modo per incorporare tutto ciò in maniera interessante e che funzioni anche con ciò che sono gli Sleaford Mods. Key Markets rappresenta per noi un nuova fase.

Uno dei vostri bersagli è la scena musicale e fate nomi e cognomi. Avete ancora dei problemi con i passaggi radio delle vostre canzoni? Cosa pensi che, diciamo, non vada nei vostri pezzi, parolacce a parte? Ve ne importa qualcosa?
No, delle parolacce non mi importa: funzionano. Abbiamo un sacco di passaggi radio. Iggy Pop manda i nostri pezzi ogni settimana, insieme a grandi dj come Tom Robinson e Gideon Cole. Quest’ultimo, poi, scende molto nei dettagli dal punto di vista delle parole, spiega alcuni particolari dei testi recitandoli dalla raccolta Grammar Wanker [pubblicata alla fine dell’anno scorso e ampiamente esaurita, contiene tutti i testi degli Sleaford Mods dal 2007 al 2014 ndr].

Hai scritto una canzone senza parolacce, Tiswas, che comunque non ha avuto il successo che forse auspicavate. Ne è valsa la pena? Qual è il vostro rapporto con il compromesso?
Spingere un disco costa e solo le grandi compagnie possono permettersi di mantenere un pezzo in rotazione. E’ tutta una questione di soldi. Ma anche qualche passaggio può essere significativo: li abbiamo avuti, continuiamo ad averli e ne sono felice. Il compromesso non c’entra: semplicemente ci sono canzoni che funzionano meglio senza volgarità.

C’è qualche band o musicista che sentite vicino per spirito o senso della verità?
No.

E allora le ospitate che avete fatto nei dischi di Leftfield e Prodigy?
Pensavo che intendessi nuove band, roba contemporanea: i nomi che citi sono in giro da anni. Sono più di parte nei confronti di Prodigy e Leftfield perché sono grandi gruppi e icone della mia generazione. Non mi pare che ci siano tante band valide oggi, tra quelle nuove nel Regno Unito. Ascolto Wiley, finita lì.

L’inglese che usi spesso è difficile per gli stranieri che pur conoscono la lingua, ma anche per i madrelingua. In Rupert’s Trousers dici “We are dreadful ignored by the well spoken few” (“Siamo completamente ignorati dai pochi che parlano bene”). Come ti servi del linguaggio e fino a che punto è infuenzato dal flow del rap statunitense?
Quel verso dice, in pratica, che le masse sottosviluppate sono burattini nelle mani dei ricchi, ignorati dal lusso dell’elitismo. Ci sono due mondi sul pianeta Terra: il nostro e il loro. Non mi preoccupo se le persone afferrino o meno i testi: faccio ciò che mi sembra appropriato, canzone per canzone. E sì, in parte è influenzato dal rap: il ritmo della parola scorre all’interno del genere.

Il modo che hai di comportarti sul palco e di raccontare storie deriva dai pub e dalla strada, dove ironia, riferimenti sessuali e aggressività sono ben miscelati. Esiste ancora un cultura della strada e dei pub nel Regno Unito?
Certo che sì, è ben radicata.

Ma il Paese di cui parli è molto lontano dalle luci della capitale: che relazione ha con Londra il Regno Unito che ci racconti?
È Londra anche quello, ma non Soho o Brick Lane: parlo delle aree più periferiche della città. È’ da qui che arrivano gli ingredienti principali, il tessuto del Paese.

Nelle tue parole emerge la rabbia quotidiana delle periferie. Nella traccia finale dici “Every house used to have one [a garden] in 1965 now look at us oh what a fucking life” (“Ogni casa un tempo aveva un giardino nel 1965, ora guarda che vita del cazzo”). Secondo te qual è stato l’ultimo periodo in cui la vita di tutti i giorni nel Regno Unito aveva ancora una parvenza di umanità?
Probabilmente fino ai primi anni ’80, ma direi con più certezza fino a tutti gli anni ’70.

Uno dei riferimenti del vostro suono è la musica che si poteva ascoltare nel Regno Unito alla fine di quel decennio: un periodo di profonda crisi sociale e politica da cui è nata tanta bella musica insieme ad alcuni problemi di cui il Paese soffre ancora oggi. Secondo te ha senso paragonare quel periodo al presente? In Giddy on the Ciggies dici “It’s no longer 1979, you…” (“Non è più il 1979, razza di…”) e poi parte una pernacchia, ma d’altro canto due fattori importanti come il revival Mods e il supermercato che dà il titolo al vostro disco appartengono a quel periodo.
Non c’è alcun tipo di revival nel nostro disco, e se quel periodo è citato nelle canzoni è perché quei ricordi mi sono molto cari. Oggi il clima è molto diverso: noi ci limitiamo a promuovere quelle immagini, mi sa. In fondo siamo più vecchi dei nostri colleghi sulla scena musicale.

Non so perché esattamente, ma ascoltando Silly Me, mi è tornata in mente una dichiarazione dei Black Sabbath: a proposito della nascita del loro suono, dicevano che, sebbene quelli fossero gli anni “giusti”, c’era ben poco di hippy a Birmingham. I vostri continui riferimenti alla morte e alla sua ineluttabilità e a un senso di depressione hanno a che fare nello specifico con Nottingham?
No, assolutamente: hanno a che fare in generale con l’esperienza del vivere, ovunque la si faccia. Si ritrovano le stesse sensazioni in molti altri posti.

Fino a che punto diresti che gli Sleaford Mods sono politici? C’è qualche movimento o pensiero nel quale vi riconoscete?
Ci riconosciamo solo nella rabbia della gente: siamo politici in quel senso, ma non in senso partitico.

Sembrate abbastanza disillusi sulla possibilità di un reale cambiamento. Cosa pensate del futuro e dell’eventuale potere delle masse?
Qualcosa sta accadendo, a dire il vero, ma non sono sicuro da che parte provenga. Arriva dal potere dei ricchi? O dalla rabbia di quelli che stanno sotto i ricchi? Non ne sono certo, ma una ribellione di qualche tipo è alle porte.

Recensione e intervista pubblicate sul numero di agosto 2015 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: Alessandro Cortini – Risveglio

Alessandro Cortini – Risveglio (Hospital Productions)

7,5

Dopo la trilogia di Forse, ecco il secondo capitolo del nuovo percorso del musicista noto per la sua militanza nei Nine Inch Nails, ma che ha un suo seguito, di nicchia e di culto, nell’ambiente elettronico più di ricerca (e valido) degli Stati Uniti, dove Cortini vive da anni. Non è un caso che Risveglio”, come il precedente Sonno, esca per l’etichetta di Prurient: dieci brani (più una drum version di “La sveglia”, uno dei picchi del disco) per un’ora di musica creata solamente con due synth/sequencer della Roland, l’MC-202 e il TB-303, e qualche effetto. Quest’economia di equipaggiamento porta a un oscuro e cupo minimalismo che però è dolce e straniante al tempo stesso e rende Risveglio un disco originale, ipnotico e pieno di fascino.

Recensione originariamente pubblicata sul numero di agosto 2015 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: Jeanne Added – Be Sensational

Jeanne Added – Be Sensational (naïve)

7

Dopo studi avanzati di canto e violoncello a Parigi e Londra e un’intensa attività nel circuito jazz francese, Jeanne Added ha spostato il suo interesse su altre forme musicali. Dopo un ep d’esordio nel 2011, all’inizio di quest’anno ne è arrivato un altro: le tre tracce, che sanciscono il sodalizio con la naïve, sono incluse in questo primo LP della 35enne di Reims. Mischiando i generi all’insegna di un minimalismo che appare più sentito che studiato, la polistrumentista confeziona un buon album, che nella prima metà gioca le sue carte migliori.

Si parte con un bel singolo, la marziale (ovviamente) “A War Is Coming”, si prosegue con la filastrocca-electro “It” per continuare con “Look at Them”, una ballata (più o meno) che prova come la nostra abbia notevoli doti canore, oltre che interessanti idee di scrittura. Qua e là appaiono derive black (“Miss It All”) e momenti pop, che però portano agli episodi meno riusciti del disco, come “Back to Summer” e la traccia di chiusura “Suddenly”. Jeanne canta di sentimenti oscuri e notti apocalittiche, collocandosi in maniera equidistante tra Fever Ray, Soap and Skin, Sinead O’Connor e FKA Twigs, pur non citandole esplicitamente. Sebbene ogni tanto il già sentito faccia capolino, si capisce che la Added ci sa fare: la strada che ha preso, salvo qualche passo falso, ci pare buona. Vediamo dove la condurrà.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di settembre 2015 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: Django Django – Born Under Saturn

Django Django – Born Under Saturn (Because Music)

7,5

Nei tre anni passati dall’acclamatissimo esordio, Vinnie Neff, Jim Dixon, Tommy Grace e Dave Maclean non sono stati fermi: oltre a una massiccia serie di concerti, gli scozzesi hanno lavorato a colonne sonore e installazioni. Una volta tornati in studio, si sono da subito resi conto che il nuovo Born Under Saturn, avrebbe avuto un suono ancora più imponente del precedente: l’apertura “Giant” è perfetta per questo disco, con una intro che ricorda i Depeche Mode meno oscuri (ripresi anche nel primo singolo “Found You”) e uno sviluppo che fonde elementi pop con le sfumature psichedeliche che paiono siano obbligatorie in ogni produzione recente.

Ma i Django Django non attingono solo a queste tavolozze; ritroviamo sia le cavalcate ritmiche (talvolta africaneggianti, come in “Vibrations”) accoppiate alle chitarre surf del primo album, sia momenti vicini a stilemi house: è lì, per esempio, che va a parare il break di tastiere del secondo singolo “Reflections”. C’è spazio anche per derive West Coast (“High Moon”) e per accenni più solenni, come nella versione del mito di Faust raccontata in “Found You”, in cui si usano suoni d’organo e si nota una certa (ironica?) sacralità nel ritornello. Quello che traspare, in generale, è la voglia di divertirsi e fare divertire: possiamo assicurarvi che i quattro, nonostante la lunghezza dell’album, ci riescono.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di aprile 2015 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: Sleaford Mods. Covo Club, Bologna, 2 maggio 2015

La chiusura della stagione 2014-15 del club bolognese è affidata al duo di Nottingham: un live scarno, essenziale e violento come una scazzottata in strada, con anticipazioni del nuovo disco.

“Bunch of Cunts”: con la canzone del recente Tiswas ep Jason Williamson saluta (o appella?) il pubblico di un Covo sold out, nell’ultimo live della stagione per il club bolognese. In questo incipit sta tutto il concerto degli Sleaford Mods, una delle espressioni più tipicamente “contemporary British” a cui possiate assistere oggi. Un’ora abbondante di ironia, rabbia, strafottenza, essenzialità e rigore che proviene dal Regno Unito dei pub squallidi e delle file all’ufficio di collocamento, lontanissimo da qualsiasi laccatura e compromesso.

sleaford modsTutto comincia quando un serafico Andrew Fearn fende il pubblico (il Covo non ha un vero e proprio backstage) e sale sul palco con sei bottiglie di birra e un portatile: la scenografia è tutta là, insieme a un microfono e uno sgabello su cui il laptop trova posto. L’uomo dedito ai beat del duo hip hop, punk, post punk, chi se ne frega, sta là fermo, come se stesse aspettando l’autobus. Non interagisce o quasi col pubblico, pur non sembrando altezzoso: un atteggiamento che manterrà per tutto il live, tanto da farci percepire una grottesca sovrapposizione con il ruolo live di Mauro Repetto negli 883 (ma Fearn balla di meno). Solo dopo diversi minuti la platea, ormai fittissima, accoglie Williamson, che attraversa la folla, si posiziona di tre quarti davanti al microfono e inizia a sputare rime violentissime, praticamente senza sosta. Si concede talvolta di ammiccare in maniera grottesca al pubblico, sculettando e fingendo di tenersi e offrirci i seni (sic).

I bassi profondi delle basi fanno tremare i muri del Covo, che presto paiono imbrattati dalle rabbiose storie di strada pubblicate in sette album, due ep e tre raccolte: ma nella scaletta c’è spazio anche per tre brani nuovi, “Live Tonight”, “Bronx In a Six” e “Tarantula Deadly Cargo”, anticipazioni dell’imminente nuovo LP Key Markets. Gli Sleaford Mods sembrano avere ripreso in pieno il “We Don’t Care” dei Sex Pistols, ma fregandosene davvero di tutto, compresa quell’eredità, quella pre e quella post. Ogni frammento di live comunica urgenza e necessità, ogni pezzo è una spinta interiore che sta tra un ruggito, una risata sarcastica e un conato di vomito. Un miracolo, considerando la reale povertà di mezzi, ma agli Sleaford Mods basta questo (e un po’ d’erba, chiesta dal palco a fine live). In quanto a noi, be’… in confronto a loro non siamo altro che un bunch of cunts, appunto.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di giugno 2015 de Il Mucchio Selvaggio

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