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Non pensate di fare i fotografi: un consiglio di Kevin Cummins

Alla galleria Ono Arte di Bologna, fino al 20 novembre, sono esposte le foto di Kevin Cummins, uno dei nomi che meglio ha saputo raccontare il rock per immagini. Attivo dalla fine degli anni ’70, si fa prima a dire chi Cummins non abbia fotografato, negli ultimi quarant’anni: davanti alle sue lenti sono passati in tanti, da Bowie ai Pistols, dai Joy Division ai Buzzcocks, dai Fall ai New Order. L’ho intervistato per Maps: oggi pomeriggio potrete ascoltare la chiacchierata che abbiamo fatto, ma se siete curiosi, è pubblicata ora sul sito della trasmissione, doppiata e in lingua originale.

Parliamo degli inizi della tua carriera: quando hai scattato quella che secondo te è la prima delle fotografie per cui sei diventato famoso?
Quando studiavo arte a Manchester andavo ai concerti e scattavo delle foto per me stesso: era un modo per entrare gratis, nei primi anni ’70. Scattai una foto a David Bowie durante il tour di Ziggy Stardust: credo che sia stata quella a farmi pensare che fotografare poteva essere un modo per guadagnarmi da vivere. Quindi il mio prima scatto fu proprio Bowie dal vivo.

Com’era passare la barriera del palco? Il backstage è probabilmente uno dei luoghi in cui si può costruire un rapporto più intimo con il musicista.
Quando iniziò il punk, molta della scena era a Manchester. Io avevo sempre la macchina con me e Paul Morley, che scriveva per il New Musical Express, andava a tutti i concerti. Abbiamo pensato di dare alla stampa musicale inglese foto e parole per testimoniare il momento e credo che i Buzzcocks siano stati i primi con cui abbia lavorato a stretto contatto. Andavo spesso a trovarli, scattavo loro molte foto e provavo soluzioni diverse: loro non erano abituati a essere fotografati, io non lavoravo molto nel mondo del rock, quindi sia io che loro abbiamo sperimentato, cercando strade diverse. Un po’ alla volta ho così creato un portfolio. Quindi sì, penso che tutto sia cominciato con i Buzzcocks.

C’erano ostacoli tra te e gli artisti? Voglio dire che un giovane fotografo può incontrare delle difficoltà nell’accedere a luoghi privati…
No, in realtà credo che ci siano più ostacoli ora, in un periodo in cui chiunque può usare il cellulare e fare delle foto. All’epoca ce n’erano meno, anche perché eravamo tutti coetanei e perché avevo studiato fotografia: questo permise a molte band di avere da subito delle foto professionali e i gruppi erano contenti del mio lavoro. Quando ho cominciato a fotografare i Joy Division, ho avuto modo di dare loro qualcosa che allora non si potevano permettere.

Sei molto famoso per le tue fotografie dal vivo, ma hai scattato molte serie di bellissimi ritratti. Qual era il tuo metodo quando dovevi lavorare su quel tipo di fotografia, incontrando un musicista e fotografandolo a lungo?
Credo che il primo passo sia riconoscere quanto valga il loro tempo: intendiamoci, è prezioso quello di tutti, ma i musicisti hanno un’idea abbastanza idiosincratica del tempo. Talvolta si possono aspettare anche tre o quattro giorni prima di fare il primo scatto, fino a che sono felici di averti intorno: allora tiri finalmente fuori la macchina fotografica, rompendo allo stesso tempo la barriera che crea. I musicisti iniziano a reagire a una persona, non più a un obiettivo e non c’è problema se si gira intorno a loro non scattando una foto per ore. Può capitare che sia necessario aspettare una settimana per un grande scatto, ma talvolta ne vale la pena.

C’è qualcuno che hai dovuto fotografare e ne avresti fatto volentieri a meno e, viceversa, c’è qualche musicista che sei sempre felice di riprendere?
Di solito non sono costretto a fotografare persone che non mi piacciono: la mia è una posizione privilegiata. Ho avuto modo di lavorare con tante persone che apprezzavo, instaurando con loro un bel rapporto professionale. Se la band con cui lavori non ha rispetto di te come artista e, allo stesso modo, tu non rispetti loro, non verrà mai fuori una foto decente. L’unica band con la quale ho dovuto lavorare per un servizio del New Musical Express sono stati i Duran Duran: credo che non ri rispettassero l’un l’altro, quindi figuriamoci che rispetto potevano avere per me.

Tra tutti i concerti che hai visto in vita tua, ce ne sono un paio ancora ben presenti nella tua memoria per la loro importanza?
Penso che anche oggi i concerti possano essere interessanti, ma per dire i più ovvi, di certo quello dei Sex Pistols al Lesser Free Trade Hall di Manchester, un paio di concerti dei Joy Division e David Bowie nel periodo di Ziggy Stardust: momenti in cui pensi con enfasi che sia il giorno più bello della tua vita. In realtà, però, ce ne sono stati anche in tempi più recenti: ad esempio quando gli Oasis stavano davvero diventando grandi, andarli a vedere voleva dire esclamare “Mio Dio, c’è una stella enorme sul palco”. Sono cose che affascinano, ma talvolta è lo spettacolo stesso a fare effetto. Ricordo di avere visto Noel Gallagher a Londra un mese fa in un posto piccolissimo, da trecento persone, chiamato Dingwalls. Eppure era come se fosse grandissimo. Il punto è l’emozione: una volta che non c’è più, tanto vale non andare ai concerti.

Hai parlato di fotografia digitale, prima: che ne pensi e cosa pensi dei nuovi fotografi rock?
Io uso il digitale e non ho nulla in contrario. Non capisco però perché le persone si ostinino a usare i loro iPhone per scattare foto ai concerti. Non riusciranno mai a farne una bella così, così come non avranno mai dei video di buona qualità. Ho visto Jack White, sempre un mese fa e sempre a Londra: prima del concerto è salito uno sul palco ha detto di mettere via i cellulari, perché avrebbero pubblicato il concerto in mp3 un paio di giorni dopo insieme a delle foto del live di buona qualità. Insomma, ha detto a tutti di godersi lo spettacolo. E’ stato bellissimo, perché è davvero irritante quando vai a un concerto e davanti a te ci sono trecento persone con il loro telefono: non stanno avendo una bella esperienza live, non stanno nemmeno guardando il concerto, poiché lo fanno attraverso uno schermo. Meglio tenere il telefono in tasca e godersi il concerto.

Quale potrebbe essere un suggerimento per un giovane fotografo intenzionato a una carriera come la tua?
(ride) Non fatelo, non fatelo! Oggi è difficilissimo, perché ci sono così tanti mass media e così tanta gente che non vuole pagare per dei contenuti. Iniziare una carriera del genere per un giovane fotografo è veramente qualcosa di autodistruttivo, che non permette di sopravvivere. Io ho la fortuna di avere un archivio legato a un periodo in cui non si fotografava così tanto, ma oggi è dura, davvero dura.

Il DJ vs il Paese Reale

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La parola d’ordine era una sola, settimane prima della serata: pants down, letteralmente “giù le mutande”. Nel gergo dei dj si traduce anche con “braga calata”. Vuol dire, in sostanza, mettere pezzi “facili”, che conoscono tutti. Un esempio: “I Just Can’t Get Enough” dei Depeche Mode è “pants down” molto di più, che ne so, di “Odessa” di Caribou. Io sono un dj dilettante per tutte le stagioni, quindi non ero spaventato dal diktat: posso accontentare tutti. Questo è quello che pensavo fino a martedì.

Quando arrivo al posto deputato per il djset, la scena è surreale: la scaletta degli incontri di pugilato (sì, pugilato) previsti per quella sera ha subito un ritardo mostruoso, quindi mi trovo circondato da gong, arbitri, uomini e donne più o meno nerboruti e supporter belluini. L’organizzatore della serata mi dice che c’è un sacco di gente che è là ma non vede l’ora di ballare. Fino a quel momento gli unici a fare gioco di gambe sono gli atleti sul ring. Ultimo incontro e l’annunciatore della manifestazione sportiva dice “Rimanete con noi, perché c’è la discoteca“. Io mi rendo conto di essere la discoteca. Parto. Parto con “Bouchet Funk” dei Calibro 35, ma non è sufficiente. Allora metto “The Twist”, di Chubby Checker e…

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Terzo pezzo, ore 2330 circa: “Cousins” dei Vampire Weekend (2010). Una ragazza si presenta da me e mi fa “Ma il dj quando arriva?”. Io sono con delle cuffie al collo dietro a un mixer e con una marea di cd davanti a me. È vero, non ho un cappellino con su scritto “DIGGEI”, ma mi pare evidente il ruolo che ricopro. “Sarei io, le dico”. “Ah”, fa lei delusa. “No, perché insomma… Stai mettendo musica vecchia.” “Veramente questo pezzo è uscito l’altro ieri”, dico io. “Ah”, fa lei, ancora più delusa. “No, è che sai, qualcosa di più ballabile…”.
Il concetto di “ballabile”, amici e amiche, è qualcosa intorno alla quale bisognerebbe fare degli studi di antropologia. Gli esseri umani hanno danzato ai ritmi di tamburi di pelle di scimmia, valzer di Strauss, polke, mazurke, fino a ritmi trance e goa. Che cazzo vuol dire “ballabile”? E’ un tipico concetto che prende forma nella prassi: una cosa è ballabile se la gente ci balla.
Ma non ci penso, e la rassicuro, sfoderando il mio miglior sorriso: “Tranquilla, ora metto qualcosa di ballabile”, le dico, come se fino a quel momento avessi avuto una predilezione per Berio e John Cage (sulle cui musiche, peraltro, qualcuno ballava). “Ah”, fa lei, forse un po’ meno delusa, e se ne va.
Arriva l’organizzatore della serata. “Senti, va bene, ma ora metti un riempipista, tipo Aretha Franklin. Ricorda: pants down“. Lesto inserisco nel cdj “Respect”, e la gente inizia a ballare. Prendo nota mentalmente del fatto che posso mettere della musica black, soul e simile, quando…
Quinto pezzo, ore 2340 circa. Arriva un’altra ragazza e mi fa: “Senti, io ho qui delle ragazze di una comunità che a mezzanotte devono andare via e vorrebbero ballare la musica moderna”.
Nuova digressione: ai djset c’è sempre qualcuno in qualche situazione particolare tale per cui si richiede un certo brano. Mi sono capitate davanti donne che dicevano di aver scoperto di essere incinte quella sera stessa e volevano i Soulwax, chissà perché, laureate e laureati da una manciata di ore che non potevano non sentire i Cure, gente che si era lasciata, messa insieme e rilasciata e che quindi…
Sfodero un altro sorriso e dico “Ma certo”, decidendo implicitamente di continuare per la mia strada. Sento che si avvicina un lieve mal di testa.
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Decimo pezzo, ore 2355 circa. Arriva un’altra ragazza. “Ti posso fare una richiesta?” “Certo” “Ce l’hai ‘Waka-Waka’?”.
Panico.
Mi rendo conto che no, non ho niente di Shakira, nulla. Né un mp3 nel cellulare, né un disco, né una parodia, un video, nulla.
“No, mi dispiace”, rispondo. E lei mi guarda come se fosse entrata in una salumeria e il commesso, perplesso, le avesse detto “Prosciutto? Uhm, ma cosa intende esattamente?”. Io capisco che la mia idea di pants down equivale, agli occhi e soprattutto alle orecchie di chi ho davanti, a una selezione quasi avanguardistica.
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Sedicesimo pezzo, ore 0015 circa. L’organizzatore della serata non è contento. “Senti,” mi dice, “c’è una festa di laurea con settanta persone e altre trenta di là. Hai un pubblico potenziale di cento persone da far ballare.” E allora io calo la braga davvero e ringrazio i Culture Club per “Karma Chamaleon”, e soprattutto l’amico M. che, per due capodanni di seguito, mi ha fatto scaricare il peggio della musica del ventennio ’70-’80 con la quale ho riempito tre cd, prima di uscire di casa, dicendo “Sai mai”. Quei cd mi hanno salvato le chiappe, denudate, ovviamente. La selezione inizia a essere terribile, degna della colonna sonora di una puntata de “I ragazzi della terza C”. Metto di seguito Cyndi Lauper, Madonna, gli Wham! e poi è un tripudio: capisco di avere toccato il fondo quando attacco i Santa Esmeralda e Claudio Cecchetto. Nel frattempo almeno sei ragazze mi chiedono “Waka-Waka”, tant’è che penso di mettere un cartello con su scritto “Ci dispiace,”Waka-Waka” l’abbiamo finito. Ma l’Emmenthal è in offerta”.
Tra un “Waka Waka” e l’altro, una ragazza (tutte ragazze, quella sera) mi chiede “qualcosa di Nina Hagen”. La richiesta mi allibisce e mi rendo conto di avere davanti un pubblico che non potrà mai essere contento al 100%. Ripiego sui Cure, che insomma, almeno sono un po’ più cupi di Shakira e degli Human League (“Che musica triste”, mi dice una, senza aggiungere altro. Mi verrebbe da dirle che Chicco Lazzaretti e Bruno Sacchi non la pensavano così, ma lascio perdere).
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Intorno a mezzanotte e quarantacinque si presenta una ragazza, che si dichiara subito un’amante della musica elettronica. Io sto iniziando proprio a passare un po’ di electro dozzinale quando lei comincia a parlare del fatto che non capisce quelli che si drogano e ascoltano la musica, che però la musica elettronica è bella ma insomma, la chitarra e la batteria sono altra cosa, e inizia a chiedermi se conosco quel pezzo che fa “papapa” o quell’altro che ha un ritornello simile a “trallala”. Imbarazzato, balbetto “Eh, non so, così è un po’ vago…”, ma poi mi risollevo e dico “Ti metto i Bloody Beetroots, eh?” La ragazza si allarga in un sorriso, mentre preparo il disco. “Dai, dai, che bello, grazie!” Io minimizzo, mentre vedo scorrere il minutaggio del pezzo che sta andando. Mancano 30 secondi alla fine e lei è ancora là che mi scrive nomi di band su un foglio (e magari qualche tralalà). “Li metti, allora?” “Sì, tra venti secondi” “Dai, li metti!” “Sì, mancano dieci secondi” “Evviva, i Bloody Beetrots!”, trilla lei. Io catturo il suo sguardo e lo indirizzo verso il contatore dell’altro cdj: lei si rende conto che i secondi che enumero sono realmente sessantesimi di minuto e ai primi ticchettii di “Warp” è in pista e balla felice.
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È l’una: mi hanno chiesto i Duran Duran e li ho messi, ed è giunto un tipo con aria truce che mi ha detto: “Ma che è? I Duran Duran? Ma questa è roba di vent’anni fa” “Anche trenta”, ho detto io. “Metti i Queen, piuttosto!” Alla richiesta rimango basito. Il tipo si allarga in un sorriso: “Scherzavo”, dice, lasciandomi un’alitata di RedBull, e se ne va.
Poco dopo arriva una neolaureata in economia: mi dà una foglia di alloro direttamente dalla corona che porta in testa, e mi chiede “Waka Waka” e poi Lady Gaga (“Mi dispiace, non ce l’ho”, ho detto, restituendole la foglia). “Allora qualcosa di ballabile, movimentato…”, insiste la neodottoressa. “Ho messo i Chemical Brothers”, dico io. “Non so chi siano”, replica lei. “Non sai chi sono i Chemical Brothers?” “No”, dice lei un po’ stizzita. “Sai, nella mia vita ho fatto altre scelte: ho studiato economia.”
Il nesso mi sfugge, ma forse è colpa del mal di testa che è diventato insopportabile: chiedo all’organizzatore della serata un Moment. Poco dopo lui torna con una pasticca e io la ingollo senza chiedermi nulla: era un Moment, comunque. Si sa che la droga la mettono nella Coca-Cola.
L’una e venti: ancora risuonano i bassi e la cassa in quattro dei pezzi che metto, quando arriva un tipo: “Hai della house?” “Stiamo chiudendo, mi dispiace”, replico io. “Un pezzettino?” “Eh, mi dispiace, non ce l’ho”. “Un pezzo breve…” Mentre continuo a dire che non ho niente di house, né a casa, né con me, né a casa dei miei, penso al salumiere. “Mi è rimasto questo culetto di prosciutto crudo, glielo regalo”. Ma io non ce l’ho il prosciutto crudo, signò. “Comunque, cioè”, dico indicando le casse, “ho messo della techno…” “Ah, ma la techno fa schifo” “Invece la house”, mi lascio sfuggire. “Eh, be’, no, la house…” Prima di infilarmi in una discussione senza uscita, il tipo se ne va, per fortuna.
In coda riesco a piazzare i Beatles e David Bowie: alle schitarrate di “Ziggy Stardust”, una ragazza si alza e mi dice “Era ora”. Io guardo l’orologio: il mio scontro col paese reale è finito e, mentre metto a posto i dischi, spero che sia rimasto almeno un arbitro dai match di pugilato che sancisca un verdetto di parità. Almeno non sono andato al tappeto.

Un panino con la mortadella, grazie – Riflessioni e resoconti inutili su un fine settimana come-si-deve

Sabato. Ebbene sì, c’ero anche io a vedere i Franz Ferdinand. Un concerto pieno di VIP, tra l’altro: tra il pubblico abbiamo riconosciuto un redivivo Brian Jones, con i capelli tinti di nero per non farsi riconoscere. In più uno dei roadie dei FF era niente poco di meno che James Hetfield dei Metallica. Avremmo tanto voluti sentirli suonare insieme “I Can’t Get No Sanitarium”. Sarà per la prossima volta. Tra il pubblico anche i Micecars, con i quali ho parlato di chirurgia plastica e nuove correnti negli studi comparati sul wrestling.
Ma insomma, ‘sti FF come sono come non sono. Una sottile (o spessa, o a cubetti, a seconda dei gusti) metafora.
Uno ha fame, voglia di una cosa sfiziosa. Entra da un salumiere che fa panini e gli chiede un panino con la mortadella. Eccolo. Cosa si spera da un panino alla mortadella? Che sia gustoso, che la mortadella sia tagliata bene, che il pane sia fragrante. Punto.
Avevo voglia di ballare come un cretino e cantare le loro canzoni. I FF mi hanno dato esattamente quello che volevo, e forse anche di più. Perché dal vivo suonano forti e potenti, sono coinvolgenti e il loro atteggiarsi non è assolutamente credibile. Il cantante per certe mossette ricorda uno dei Pulp. O anche qualsiasi altro cantante inglese non depressissimo (niente a che fare, quindi, con Ian Curtis e Nick Drake). Ma, finite le mossette, si mette a ridere con gli altri e con il pubblico. Come per dire: “Allora, sono stato bravo stavolta o no?”. Pare, insomma, che ‘sti FF si divertano a suonare (cosa fondamentale), lo facciano bene e siano loro i primi ad essersi meravigliati del loro successo. Tanto per cambiare, lasciatemi divagare.

Flashback. Casa di Franz. Arriva Ferdinand.
Ferdinand: Franz, non puoi capire.
Franz: Cosa?
Ferdinand: Ce l’abbiamo, sfondiamo di brutto. Senti qua (fa un riff di chitarra).
Franz: Cos’è, i Duran Duran?
Ferdinand: No, senti bene (lo ripete).
Franz: Ah, no, sono gli Interpol.
Ferdinand: Ma no, cioè, non hai capito: l’ho scritto io, ‘sto riff.
Franz: Sì, come no. Senti questo (attacca i primi accordi di “Love Will Tear Us Apart”). Che ne dici, eh? Roba mia. Ma va’.
Suonano alla porta.
Franz: Chi è?
Voce: Sono il capo della Domino Records. Passavo di qua per caso e vi ho sentiti. Vi faccio incidere un disco.
Ferdinand: Vedi? Te l’avevo detto, io.

Che poi, diciamolo, le cose in realtà non sono andate molto diversamente. I FF mi inizieranno a stare sulle scatole nel momento in cui rilasceranno dichiarazioni spocchiose e non rideranno più dopo le loro mossettine.
Dopo il concerto dancefloor scatenata. Per quanto ci si possa scatenare ballando in dodici in mezzo metro quadro. Mi sono divertito tantissimo, anche se la legge fisica dell’impenetrabilità dei corpi non mi ha permesso di esibirmi al meglio durante “Surfin’ Safari”. Poco dopo il sapiente dj ha messo di seguito una canzone delle Hole e “Anarchy in the UK” dei Sex Pistols. Un segnale inequivocabile per andarsene.
P.S. Considerando il numero dipersonechehannounblog che ho visto (senza contare le altre qua sotto), comincio una petizione per eliminare la parola blog-meeting (e affini e derivati): che senso ha?

Domenica. Il ritrovo dei blogger (e vivaddio non blogger) presentialconcertodelgiorno prima (enonsolo) è fissato all’una davanti ad un ristorante del centro. Riprendendo la metafora della mortadella, cosa ti aspetti da un ritrovo di persone di cui leggi spesso con piacere e sghignazzamenti vari le parole? Che si stia bene insieme e si chiacchieri amabilmente. Se l’incontro avviene in un ristorante, poi, ci si aspetta che si mangi bene. Secondo la signora del ristorante “tutto era una meraviglia”. Ah, cosa non fanno i tortellini al Prozac mangiati tutti i giorni. Il pranzo non ha suscitato clamori, ma la compagnia è stata bella, sì. Poi ci siamo speziati l’anima e abbiamo mostrato ai non-bolognesi le solite cose. No, non la triade tette-torri-tortellini. Le tette no, per motivi di pudore (io, al massimo, avevo una serie di foto di tette che porto sempre con me, a volte servono). Non le torri, tanto quelle le hanno viste tutti. Non i tortellini, perché quelli se li è mangiati, ridendo come una pazza, la signora tossicomane del ristorante. Al massimo, sfruttando la sua euforia, avremmo potuto convincerla a mostrare le sue tette. Meglio di no. Abbiamo mostrato loro altre cose, insomma. Poi li abbiamo portati a mangiare il gelato in un posto buono. E poi li abbiamo portati in piazza Santo Stefano. Tutto qua? Tutto qua. Niente di speciale, infatti. Ma volete mettere il godimento massimo che dà un panino alla mortadella quando è fatto bene?

(grazie a tutti, di cuore!)

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