Il DJ vs il Paese Reale

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La parola d’ordine era una sola, settimane prima della serata: pants down, letteralmente “giù le mutande”. Nel gergo dei dj si traduce anche con “braga calata”. Vuol dire, in sostanza, mettere pezzi “facili”, che conoscono tutti. Un esempio: “I Just Can’t Get Enough” dei Depeche Mode è “pants down” molto di più, che ne so, di “Odessa” di Caribou. Io sono un dj dilettante per tutte le stagioni, quindi non ero spaventato dal diktat: posso accontentare tutti. Questo è quello che pensavo fino a martedì.

Quando arrivo al posto deputato per il djset, la scena è surreale: la scaletta degli incontri di pugilato (sì, pugilato) previsti per quella sera ha subito un ritardo mostruoso, quindi mi trovo circondato da gong, arbitri, uomini e donne più o meno nerboruti e supporter belluini. L’organizzatore della serata mi dice che c’è un sacco di gente che è là ma non vede l’ora di ballare. Fino a quel momento gli unici a fare gioco di gambe sono gli atleti sul ring. Ultimo incontro e l’annunciatore della manifestazione sportiva dice “Rimanete con noi, perché c’è la discoteca“. Io mi rendo conto di essere la discoteca. Parto. Parto con “Bouchet Funk” dei Calibro 35, ma non è sufficiente. Allora metto “The Twist”, di Chubby Checker e…

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Terzo pezzo, ore 2330 circa: “Cousins” dei Vampire Weekend (2010). Una ragazza si presenta da me e mi fa “Ma il dj quando arriva?”. Io sono con delle cuffie al collo dietro a un mixer e con una marea di cd davanti a me. È vero, non ho un cappellino con su scritto “DIGGEI”, ma mi pare evidente il ruolo che ricopro. “Sarei io, le dico”. “Ah”, fa lei delusa. “No, perché insomma… Stai mettendo musica vecchia.” “Veramente questo pezzo è uscito l’altro ieri”, dico io. “Ah”, fa lei, ancora più delusa. “No, è che sai, qualcosa di più ballabile…”.
Il concetto di “ballabile”, amici e amiche, è qualcosa intorno alla quale bisognerebbe fare degli studi di antropologia. Gli esseri umani hanno danzato ai ritmi di tamburi di pelle di scimmia, valzer di Strauss, polke, mazurke, fino a ritmi trance e goa. Che cazzo vuol dire “ballabile”? E’ un tipico concetto che prende forma nella prassi: una cosa è ballabile se la gente ci balla.
Ma non ci penso, e la rassicuro, sfoderando il mio miglior sorriso: “Tranquilla, ora metto qualcosa di ballabile”, le dico, come se fino a quel momento avessi avuto una predilezione per Berio e John Cage (sulle cui musiche, peraltro, qualcuno ballava). “Ah”, fa lei, forse un po’ meno delusa, e se ne va.
Arriva l’organizzatore della serata. “Senti, va bene, ma ora metti un riempipista, tipo Aretha Franklin. Ricorda: pants down“. Lesto inserisco nel cdj “Respect”, e la gente inizia a ballare. Prendo nota mentalmente del fatto che posso mettere della musica black, soul e simile, quando…
Quinto pezzo, ore 2340 circa. Arriva un’altra ragazza e mi fa: “Senti, io ho qui delle ragazze di una comunità che a mezzanotte devono andare via e vorrebbero ballare la musica moderna”.
Nuova digressione: ai djset c’è sempre qualcuno in qualche situazione particolare tale per cui si richiede un certo brano. Mi sono capitate davanti donne che dicevano di aver scoperto di essere incinte quella sera stessa e volevano i Soulwax, chissà perché, laureate e laureati da una manciata di ore che non potevano non sentire i Cure, gente che si era lasciata, messa insieme e rilasciata e che quindi…
Sfodero un altro sorriso e dico “Ma certo”, decidendo implicitamente di continuare per la mia strada. Sento che si avvicina un lieve mal di testa.
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Decimo pezzo, ore 2355 circa. Arriva un’altra ragazza. “Ti posso fare una richiesta?” “Certo” “Ce l’hai ‘Waka-Waka’?”.
Panico.
Mi rendo conto che no, non ho niente di Shakira, nulla. Né un mp3 nel cellulare, né un disco, né una parodia, un video, nulla.
“No, mi dispiace”, rispondo. E lei mi guarda come se fosse entrata in una salumeria e il commesso, perplesso, le avesse detto “Prosciutto? Uhm, ma cosa intende esattamente?”. Io capisco che la mia idea di pants down equivale, agli occhi e soprattutto alle orecchie di chi ho davanti, a una selezione quasi avanguardistica.
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Sedicesimo pezzo, ore 0015 circa. L’organizzatore della serata non è contento. “Senti,” mi dice, “c’è una festa di laurea con settanta persone e altre trenta di là. Hai un pubblico potenziale di cento persone da far ballare.” E allora io calo la braga davvero e ringrazio i Culture Club per “Karma Chamaleon”, e soprattutto l’amico M. che, per due capodanni di seguito, mi ha fatto scaricare il peggio della musica del ventennio ’70-’80 con la quale ho riempito tre cd, prima di uscire di casa, dicendo “Sai mai”. Quei cd mi hanno salvato le chiappe, denudate, ovviamente. La selezione inizia a essere terribile, degna della colonna sonora di una puntata de “I ragazzi della terza C”. Metto di seguito Cyndi Lauper, Madonna, gli Wham! e poi è un tripudio: capisco di avere toccato il fondo quando attacco i Santa Esmeralda e Claudio Cecchetto. Nel frattempo almeno sei ragazze mi chiedono “Waka-Waka”, tant’è che penso di mettere un cartello con su scritto “Ci dispiace,”Waka-Waka” l’abbiamo finito. Ma l’Emmenthal è in offerta”.
Tra un “Waka Waka” e l’altro, una ragazza (tutte ragazze, quella sera) mi chiede “qualcosa di Nina Hagen”. La richiesta mi allibisce e mi rendo conto di avere davanti un pubblico che non potrà mai essere contento al 100%. Ripiego sui Cure, che insomma, almeno sono un po’ più cupi di Shakira e degli Human League (“Che musica triste”, mi dice una, senza aggiungere altro. Mi verrebbe da dirle che Chicco Lazzaretti e Bruno Sacchi non la pensavano così, ma lascio perdere).
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Intorno a mezzanotte e quarantacinque si presenta una ragazza, che si dichiara subito un’amante della musica elettronica. Io sto iniziando proprio a passare un po’ di electro dozzinale quando lei comincia a parlare del fatto che non capisce quelli che si drogano e ascoltano la musica, che però la musica elettronica è bella ma insomma, la chitarra e la batteria sono altra cosa, e inizia a chiedermi se conosco quel pezzo che fa “papapa” o quell’altro che ha un ritornello simile a “trallala”. Imbarazzato, balbetto “Eh, non so, così è un po’ vago…”, ma poi mi risollevo e dico “Ti metto i Bloody Beetroots, eh?” La ragazza si allarga in un sorriso, mentre preparo il disco. “Dai, dai, che bello, grazie!” Io minimizzo, mentre vedo scorrere il minutaggio del pezzo che sta andando. Mancano 30 secondi alla fine e lei è ancora là che mi scrive nomi di band su un foglio (e magari qualche tralalà). “Li metti, allora?” “Sì, tra venti secondi” “Dai, li metti!” “Sì, mancano dieci secondi” “Evviva, i Bloody Beetrots!”, trilla lei. Io catturo il suo sguardo e lo indirizzo verso il contatore dell’altro cdj: lei si rende conto che i secondi che enumero sono realmente sessantesimi di minuto e ai primi ticchettii di “Warp” è in pista e balla felice.
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È l’una: mi hanno chiesto i Duran Duran e li ho messi, ed è giunto un tipo con aria truce che mi ha detto: “Ma che è? I Duran Duran? Ma questa è roba di vent’anni fa” “Anche trenta”, ho detto io. “Metti i Queen, piuttosto!” Alla richiesta rimango basito. Il tipo si allarga in un sorriso: “Scherzavo”, dice, lasciandomi un’alitata di RedBull, e se ne va.
Poco dopo arriva una neolaureata in economia: mi dà una foglia di alloro direttamente dalla corona che porta in testa, e mi chiede “Waka Waka” e poi Lady Gaga (“Mi dispiace, non ce l’ho”, ho detto, restituendole la foglia). “Allora qualcosa di ballabile, movimentato…”, insiste la neodottoressa. “Ho messo i Chemical Brothers”, dico io. “Non so chi siano”, replica lei. “Non sai chi sono i Chemical Brothers?” “No”, dice lei un po’ stizzita. “Sai, nella mia vita ho fatto altre scelte: ho studiato economia.”
Il nesso mi sfugge, ma forse è colpa del mal di testa che è diventato insopportabile: chiedo all’organizzatore della serata un Moment. Poco dopo lui torna con una pasticca e io la ingollo senza chiedermi nulla: era un Moment, comunque. Si sa che la droga la mettono nella Coca-Cola.
L’una e venti: ancora risuonano i bassi e la cassa in quattro dei pezzi che metto, quando arriva un tipo: “Hai della house?” “Stiamo chiudendo, mi dispiace”, replico io. “Un pezzettino?” “Eh, mi dispiace, non ce l’ho”. “Un pezzo breve…” Mentre continuo a dire che non ho niente di house, né a casa, né con me, né a casa dei miei, penso al salumiere. “Mi è rimasto questo culetto di prosciutto crudo, glielo regalo”. Ma io non ce l’ho il prosciutto crudo, signò. “Comunque, cioè”, dico indicando le casse, “ho messo della techno…” “Ah, ma la techno fa schifo” “Invece la house”, mi lascio sfuggire. “Eh, be’, no, la house…” Prima di infilarmi in una discussione senza uscita, il tipo se ne va, per fortuna.
In coda riesco a piazzare i Beatles e David Bowie: alle schitarrate di “Ziggy Stardust”, una ragazza si alza e mi dice “Era ora”. Io guardo l’orologio: il mio scontro col paese reale è finito e, mentre metto a posto i dischi, spero che sia rimasto almeno un arbitro dai match di pugilato che sancisca un verdetto di parità. Almeno non sono andato al tappeto.