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Dagli archivi: Sleaford Mods – Key Markets e intervista

Sleaford Mods – Key Markets (Harbinger Sound)

8

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Suicide – Suicide (1977)

L’ottavo disco in studio del duo di Nottingham arriva dopo un anno d’oro in cui la notorietà di Jason Williamson e Andrew Fearn è cresciuta notevolmente. Ma Key Markets (si chiamava così un supermercato frequentato dal piccolo Jason nella natale Grantham) non si limita a ripetere le formule del recente e fortunatissimo Divide and Exit. Le basi di Fearn cercano altre soluzioni, per esempio: il basso-e-batteria pulsanti che si ritrovano in molte tracce diventano ancora più ipnotici e paranoici (Bronx in a Six), o quasi hardcore (No Ones Bothered), ma hanno anche modo di rallentare (Tarantula Deadly Cargo) e di tingersi di sfumature esotiche (Arabia). Musicalmente anche Williamson si espande, lanciandosi talvolta in minimali escursioni melodiche che ricordano il salmodiare crudele e ironico di Lydon.

Ma ogni riferimento è vano: gli Sleaford Mods sono unici, nella loro musica c’è tanto il post punk quanto la cultura rave, il minimalismo elettronico, l’hardcore e, chiaramente, l’hip hop. Tuttavia anche quest’ultimo genere è semplicemente strumentale alle narrazioni di Williamson, che affina ancora di più penna e lingua: l’uso di un lessico sempre più preciso, infuocato e caustico, gli permette di essere amaramente satirico e credibile pur prendendosela praticamente con tutti. Con i ricchi e i tories, principalmente, facendo spesso nomi e cognomi; ma anche con chi accetta passivamente, giorno dopo giorno, la subordinazione, lo schiacciamento sociale.

Il duo attacca chi la musica la fa e la diffonde (c’è una notevole frecciata alla popolare dj della BBC Lauren Laverne), ma anche chi si concia alla moda: “You live in Carlton, you twat, you’re not Snake fucking Plissken!” (“Vivi a Carlton, idiota, non sei un cazzo di Snake [in italiano “Iena”, ndr] Plissken”), urla in Cunt Make It Up. Una rabbia travolgente domina Key Markets, accompagnandosi alla consueta ironia che è ancora più scura e urticante del solito: ma qua e là affiorano altre sensazioni legate a un tempo ormai irrimediabilmente perso, quando, se non altro per disperazione, aveva ancora senso lottare.

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Sono in due: Andrew Fearn si occupa delle basi dal 2012, Jason Williamson dei testi dalla nascita degli Sleaford Mods, sancita nel 2007 con il primo self-titled arrivato quando Williamson (dopo svariati progetti musicali “tradizionali”) ha deciso di dedicarsi completamente al nuovo progetto. Sono quindi seguiti altri sette album, due ep e tre raccolte, una delle quali data alle stampe dalla Ipecac di Mike Patton nel 2014, l’anno che li ha visti esplodere. Negli ultimi mesi hanno incendiato i club e i festival di mezza Europa con live preceduti da soundcheck di cinque minuti scarsi, visto che sul palco hanno solo un portatile, un microfono e delle birre. Non fanno rap né davvero post punk, sebbene siano questi gli unici generi in cui si potrebbero provare a contenere gli Sleaford Mods, tanto minimali quanto abrasivi. Sono la quintessenza del Made in Britain, lontani dal posh e vicini ai pub, orgogliosi delle loro origini, ma fieramente e storicamente anti-establishment. Una voce unica nel panorama musicale odierno e in via di evoluzione: l’ultimo disco Key Markets (vedi recensione sopra) è il segno che i due quarantacinquenni (più o meno) di Nottingham non si siedono sugli allori. Non che l’avessimo mai pensato, eh. Abbiamo chiesto a Williamson come siano arrivati a questa diversificazione di ritmi, suoni e temi. “È successo spontaneamente”, ci ha scritto. “Avevamo in mente l’idea di provare nuovi approcci, ma non ci siamo troppo agitati al riguardo. Siamo semplicemente andati in studio e abbiamo registrato come sempre. Siamo una band molto essenziale e così dev’essere anche il processo di registrazione dei nuovi pezzi. Se complicassimo troppo le cose, si perderebbe la forza primaria”.

La traccia di apertura del nuovo disco, Live Tonight, comincia con i vostri fan che urlano scandendo il vostro nome. Quanto la dimensione live influenza la vostra musica e viceversa?
La musica detta la performance live e la cambia di continuo. Andare in tour è tanto importante quanto per me non proprio piacevole, ma modella ciò che la band è davvero. Il processo di registrazione è comunque del tutto separato e non penso che migliori il live

Hai detto molte volte che gli Sleaford Mods sono nati perché non ne potevi più della forma canzone e che non volevi più cantare. Tuttavia nei vostri dischi, e nell’ultimo in particolare, ci sono accenni a strutture più convenzionali e ogni tanto canti pure! Cos’è che ti fa cambiare idea in questi casi e perché?
Credo di avere trovato un modo per incorporare tutto ciò in maniera interessante e che funzioni anche con ciò che sono gli Sleaford Mods. Key Markets rappresenta per noi un nuova fase.

Uno dei vostri bersagli è la scena musicale e fate nomi e cognomi. Avete ancora dei problemi con i passaggi radio delle vostre canzoni? Cosa pensi che, diciamo, non vada nei vostri pezzi, parolacce a parte? Ve ne importa qualcosa?
No, delle parolacce non mi importa: funzionano. Abbiamo un sacco di passaggi radio. Iggy Pop manda i nostri pezzi ogni settimana, insieme a grandi dj come Tom Robinson e Gideon Cole. Quest’ultimo, poi, scende molto nei dettagli dal punto di vista delle parole, spiega alcuni particolari dei testi recitandoli dalla raccolta Grammar Wanker [pubblicata alla fine dell’anno scorso e ampiamente esaurita, contiene tutti i testi degli Sleaford Mods dal 2007 al 2014 ndr].

Hai scritto una canzone senza parolacce, Tiswas, che comunque non ha avuto il successo che forse auspicavate. Ne è valsa la pena? Qual è il vostro rapporto con il compromesso?
Spingere un disco costa e solo le grandi compagnie possono permettersi di mantenere un pezzo in rotazione. E’ tutta una questione di soldi. Ma anche qualche passaggio può essere significativo: li abbiamo avuti, continuiamo ad averli e ne sono felice. Il compromesso non c’entra: semplicemente ci sono canzoni che funzionano meglio senza volgarità.

C’è qualche band o musicista che sentite vicino per spirito o senso della verità?
No.

E allora le ospitate che avete fatto nei dischi di Leftfield e Prodigy?
Pensavo che intendessi nuove band, roba contemporanea: i nomi che citi sono in giro da anni. Sono più di parte nei confronti di Prodigy e Leftfield perché sono grandi gruppi e icone della mia generazione. Non mi pare che ci siano tante band valide oggi, tra quelle nuove nel Regno Unito. Ascolto Wiley, finita lì.

L’inglese che usi spesso è difficile per gli stranieri che pur conoscono la lingua, ma anche per i madrelingua. In Rupert’s Trousers dici “We are dreadful ignored by the well spoken few” (“Siamo completamente ignorati dai pochi che parlano bene”). Come ti servi del linguaggio e fino a che punto è infuenzato dal flow del rap statunitense?
Quel verso dice, in pratica, che le masse sottosviluppate sono burattini nelle mani dei ricchi, ignorati dal lusso dell’elitismo. Ci sono due mondi sul pianeta Terra: il nostro e il loro. Non mi preoccupo se le persone afferrino o meno i testi: faccio ciò che mi sembra appropriato, canzone per canzone. E sì, in parte è influenzato dal rap: il ritmo della parola scorre all’interno del genere.

Il modo che hai di comportarti sul palco e di raccontare storie deriva dai pub e dalla strada, dove ironia, riferimenti sessuali e aggressività sono ben miscelati. Esiste ancora un cultura della strada e dei pub nel Regno Unito?
Certo che sì, è ben radicata.

Ma il Paese di cui parli è molto lontano dalle luci della capitale: che relazione ha con Londra il Regno Unito che ci racconti?
È Londra anche quello, ma non Soho o Brick Lane: parlo delle aree più periferiche della città. È’ da qui che arrivano gli ingredienti principali, il tessuto del Paese.

Nelle tue parole emerge la rabbia quotidiana delle periferie. Nella traccia finale dici “Every house used to have one [a garden] in 1965 now look at us oh what a fucking life” (“Ogni casa un tempo aveva un giardino nel 1965, ora guarda che vita del cazzo”). Secondo te qual è stato l’ultimo periodo in cui la vita di tutti i giorni nel Regno Unito aveva ancora una parvenza di umanità?
Probabilmente fino ai primi anni ’80, ma direi con più certezza fino a tutti gli anni ’70.

Uno dei riferimenti del vostro suono è la musica che si poteva ascoltare nel Regno Unito alla fine di quel decennio: un periodo di profonda crisi sociale e politica da cui è nata tanta bella musica insieme ad alcuni problemi di cui il Paese soffre ancora oggi. Secondo te ha senso paragonare quel periodo al presente? In Giddy on the Ciggies dici “It’s no longer 1979, you…” (“Non è più il 1979, razza di…”) e poi parte una pernacchia, ma d’altro canto due fattori importanti come il revival Mods e il supermercato che dà il titolo al vostro disco appartengono a quel periodo.
Non c’è alcun tipo di revival nel nostro disco, e se quel periodo è citato nelle canzoni è perché quei ricordi mi sono molto cari. Oggi il clima è molto diverso: noi ci limitiamo a promuovere quelle immagini, mi sa. In fondo siamo più vecchi dei nostri colleghi sulla scena musicale.

Non so perché esattamente, ma ascoltando Silly Me, mi è tornata in mente una dichiarazione dei Black Sabbath: a proposito della nascita del loro suono, dicevano che, sebbene quelli fossero gli anni “giusti”, c’era ben poco di hippy a Birmingham. I vostri continui riferimenti alla morte e alla sua ineluttabilità e a un senso di depressione hanno a che fare nello specifico con Nottingham?
No, assolutamente: hanno a che fare in generale con l’esperienza del vivere, ovunque la si faccia. Si ritrovano le stesse sensazioni in molti altri posti.

Fino a che punto diresti che gli Sleaford Mods sono politici? C’è qualche movimento o pensiero nel quale vi riconoscete?
Ci riconosciamo solo nella rabbia della gente: siamo politici in quel senso, ma non in senso partitico.

Sembrate abbastanza disillusi sulla possibilità di un reale cambiamento. Cosa pensate del futuro e dell’eventuale potere delle masse?
Qualcosa sta accadendo, a dire il vero, ma non sono sicuro da che parte provenga. Arriva dal potere dei ricchi? O dalla rabbia di quelli che stanno sotto i ricchi? Non ne sono certo, ma una ribellione di qualche tipo è alle porte.

Recensione e intervista pubblicate sul numero di agosto 2015 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: Alessandro Cortini – Risveglio

Alessandro Cortini – Risveglio (Hospital Productions)

7,5

Dopo la trilogia di Forse, ecco il secondo capitolo del nuovo percorso del musicista noto per la sua militanza nei Nine Inch Nails, ma che ha un suo seguito, di nicchia e di culto, nell’ambiente elettronico più di ricerca (e valido) degli Stati Uniti, dove Cortini vive da anni. Non è un caso che Risveglio”, come il precedente Sonno, esca per l’etichetta di Prurient: dieci brani (più una drum version di “La sveglia”, uno dei picchi del disco) per un’ora di musica creata solamente con due synth/sequencer della Roland, l’MC-202 e il TB-303, e qualche effetto. Quest’economia di equipaggiamento porta a un oscuro e cupo minimalismo che però è dolce e straniante al tempo stesso e rende Risveglio un disco originale, ipnotico e pieno di fascino.

Recensione originariamente pubblicata sul numero di agosto 2015 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: Jeanne Added – Be Sensational

Jeanne Added – Be Sensational (naïve)

7

Dopo studi avanzati di canto e violoncello a Parigi e Londra e un’intensa attività nel circuito jazz francese, Jeanne Added ha spostato il suo interesse su altre forme musicali. Dopo un ep d’esordio nel 2011, all’inizio di quest’anno ne è arrivato un altro: le tre tracce, che sanciscono il sodalizio con la naïve, sono incluse in questo primo LP della 35enne di Reims. Mischiando i generi all’insegna di un minimalismo che appare più sentito che studiato, la polistrumentista confeziona un buon album, che nella prima metà gioca le sue carte migliori.

Si parte con un bel singolo, la marziale (ovviamente) “A War Is Coming”, si prosegue con la filastrocca-electro “It” per continuare con “Look at Them”, una ballata (più o meno) che prova come la nostra abbia notevoli doti canore, oltre che interessanti idee di scrittura. Qua e là appaiono derive black (“Miss It All”) e momenti pop, che però portano agli episodi meno riusciti del disco, come “Back to Summer” e la traccia di chiusura “Suddenly”. Jeanne canta di sentimenti oscuri e notti apocalittiche, collocandosi in maniera equidistante tra Fever Ray, Soap and Skin, Sinead O’Connor e FKA Twigs, pur non citandole esplicitamente. Sebbene ogni tanto il già sentito faccia capolino, si capisce che la Added ci sa fare: la strada che ha preso, salvo qualche passo falso, ci pare buona. Vediamo dove la condurrà.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di settembre 2015 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: Sleaford Mods. Covo Club, Bologna, 2 maggio 2015

La chiusura della stagione 2014-15 del club bolognese è affidata al duo di Nottingham: un live scarno, essenziale e violento come una scazzottata in strada, con anticipazioni del nuovo disco.

“Bunch of Cunts”: con la canzone del recente Tiswas ep Jason Williamson saluta (o appella?) il pubblico di un Covo sold out, nell’ultimo live della stagione per il club bolognese. In questo incipit sta tutto il concerto degli Sleaford Mods, una delle espressioni più tipicamente “contemporary British” a cui possiate assistere oggi. Un’ora abbondante di ironia, rabbia, strafottenza, essenzialità e rigore che proviene dal Regno Unito dei pub squallidi e delle file all’ufficio di collocamento, lontanissimo da qualsiasi laccatura e compromesso.

sleaford modsTutto comincia quando un serafico Andrew Fearn fende il pubblico (il Covo non ha un vero e proprio backstage) e sale sul palco con sei bottiglie di birra e un portatile: la scenografia è tutta là, insieme a un microfono e uno sgabello su cui il laptop trova posto. L’uomo dedito ai beat del duo hip hop, punk, post punk, chi se ne frega, sta là fermo, come se stesse aspettando l’autobus. Non interagisce o quasi col pubblico, pur non sembrando altezzoso: un atteggiamento che manterrà per tutto il live, tanto da farci percepire una grottesca sovrapposizione con il ruolo live di Mauro Repetto negli 883 (ma Fearn balla di meno). Solo dopo diversi minuti la platea, ormai fittissima, accoglie Williamson, che attraversa la folla, si posiziona di tre quarti davanti al microfono e inizia a sputare rime violentissime, praticamente senza sosta. Si concede talvolta di ammiccare in maniera grottesca al pubblico, sculettando e fingendo di tenersi e offrirci i seni (sic).

I bassi profondi delle basi fanno tremare i muri del Covo, che presto paiono imbrattati dalle rabbiose storie di strada pubblicate in sette album, due ep e tre raccolte: ma nella scaletta c’è spazio anche per tre brani nuovi, “Live Tonight”, “Bronx In a Six” e “Tarantula Deadly Cargo”, anticipazioni dell’imminente nuovo LP Key Markets. Gli Sleaford Mods sembrano avere ripreso in pieno il “We Don’t Care” dei Sex Pistols, ma fregandosene davvero di tutto, compresa quell’eredità, quella pre e quella post. Ogni frammento di live comunica urgenza e necessità, ogni pezzo è una spinta interiore che sta tra un ruggito, una risata sarcastica e un conato di vomito. Un miracolo, considerando la reale povertà di mezzi, ma agli Sleaford Mods basta questo (e un po’ d’erba, chiesta dal palco a fine live). In quanto a noi, be’… in confronto a loro non siamo altro che un bunch of cunts, appunto.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di giugno 2015 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: Eels – Royal Albert Hall

Eels – Royal Albert Hall (E Works / PIAS)

7,5

Mr E e soci sono tornati alla Royal Albert Hall di Londra il 30 giugno 2014, quasi dieci anni dopo il tour “Eels with Strings”. In questo caso, però, la band ha usato – benissimo – solo le sue risorse per dare talvolta alle canzoni (per lo più tratte dall’ultimo disco) nuovi arrangiamenti, senza rimanere intimidita da quello che è uno dei templi della musica.

Everett bacia le assi del palco calcate da John Lennon, si fa amabili beffe del botta e risposta incomprensibile tra band e pubblico, si getta in abbracci senza fine con la gente in platea e si lamenta che per ben due volte gli è stato vietato di suonare l’imponente organo a canne della venue londinese. Sarà vero? La sorpresa finale è una delle chicche di questo settimo live degli Eels, fornito integralmente su due cd e un dvd.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di aprile 2015 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: Alessio Bondì – Sfardo

Alessio Bondì – Sfardo (Malintenti Dischi / 800A Records)

7,5

L’esordio di Alessio Bondì comincia con una giocosa filastrocca che pare venire da epoche antiche: però quando il musicista palermitano rassicura il bambino a cui “Di cu si” è rivolta cantando che se batte le mani “veni puru spaidermè”, il tempo fa una capriola in avanti, il vecchio diventa il nuovo e anche noi ascoltatori veniamo sorpresi da un risolino di pura gioia. Ecco, Sfardo è un disco che fa bene, anche nei momenti più lirici e dolenti che pure ci sono: del resto il titolo vuol dire “strappo” in palermitano, la lingua delle dodici tracce dell’album.

Sebbene il libretto riporti accuratamente la traduzione dei testi (con note!), non è indispensabile conoscere il dialetto per godere del disco: per Bondì la lingua dev’essere usata con la stessa accortezza riservata ai suoni che sono tanti, ma mai fini a se stessi. Sfardo rende struggenti sogni angoscianti (“In funn’o mare”) e dà credibilità e senso comico a una situazione da Fred Buscaglione in trasferta alla “Vucciria” usando intelligentemente i generi: la quasi psichedelia di “Un pisci rintr’a to panza”, i numerosi richiami alla musica brasiliana e portoghese, così come gli ovvi rimandi al folk, non sono mai semplici sostegni o imitazioni. Insieme alla lingua, sono i mezzi necessari, gli unici vestiti possibili per canzoni che vi sembrerà di conoscere da quando eravate piccoli.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di giugno 2015 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: Nils Frahm – Solo

Nils Frahm – Solo (Erased Tapes)

7,5

Il primo Piano Day della storia è un’idea del musicista berlinese che ha deciso di festeggiare “fino a che il sole esploderà” l’ottantottesimo giorno dell’anno (il numero non è casuale, tanti sono i tasti del pianoforte), regalando il 29 marzo via Twitter un nuovo disco solista, l’undicesimo in dieci anni. I tre quarti d’ora dell’album sono l’estratto di nove ore di improvvisazione registrate nel gennaio 2014 su un M370, prototipo di pianoforte verticale alto più di tre metri e mezzo. E i ricavi della vendita delle copie fisiche di Solo servono a finanziare un’altra impresa del costruttore David Klavins, l’M450, che raggiunge i quattro metri e mezzo di altezza.

Frahm rimane insomma un sognatore e uno sperimentatore che tuttavia non perde mai di vista la musica: gli otto brani del disco (più placidi i primi, più incalzanti gli ultimi) proseguono la ricerca sul suono (stavolta senza elettronica) e sulla forma. Richiami impressionisti si intrecciano a momenti percussivi, la melodia talvolta si sposta dalla ribalta, lasciando lo spazio ad accordi distesi e all’ambiente. La peculiarità del pianoforte gigante è sfruttata al massimo, i microfoni ci fanno sentire scricchiolii, armonici e ogni minima variazione dinamica. E Nils Frahm, seguitando a non sbagliare un colpo, si conferma uno dei musicisti migliori dell’ultimo decennio.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di luglio 2015 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: Inventions – Maze of Woods

Inventions – Maze of Woods (Bella Union)

7,5

“I wanted to do something that I don’t know how to do”, si sente nella traccia d’apertura del nuovo disco degli Inventions: ma Mark T. Smith (Explosions in the Sky) e Matthew Cooper (meglio conosciuto come Eluvium) sanno il fatto loro, tanto da produrre un lavoro più riuscito dell’esordio di poco meno di un anno fa. Il duo prefigura strade nuove, prendendo spunto da ciò che ha consolidato (il singolo “Springworlds” è in linea con il self-titled), senza paura di continuare a sperimentare con i beat (“Escapers”) o di esprimere in maniera più definita i propri caratteri timbrici peculiari. Ecco quindi scorrere l’una nell’altra parti più basate sul rumore e il piano di Eluvium (“Moanmusic”) e altre in cui le chitarre spaziali di Smith prendono il comando.

Ma la vera novità del disco è la presenza dell’elemento vocale in quasi tutte le tracce: la voce-strumento (spesso sotto forma di campionamenti e loop) è usata in maniera estremamente versatile e si limita a fare da punteggiatura, diventa aria d’opera o si tramuta in un dolce ululato (“Wolfkids”). Maze of Woods documenta in maniera affascinante la ricerca sonora di due musicisti che continuano a dimostrare una coesione e un affiatamento invidiabili, anche e soprattutto quando gli intrecci che creano formano labirinti sonori verso i quali l’ascoltatore è irrimediabilmente attratto e nei quali si perde piacevolmente.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di marzo 2015 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: Matthew E. White – Fresh Blood

Matthew E. White – Fresh Blood (Domino)

8

Altri ascolti raccomandati
Matthew E. White – Big Inner
Dusty Springfield – Dusty in Memphis
AA VV – Atlantic Rhythm & Blues 1947-1974

Tre anni dopo Big Inner, Matthew E. White ci regala un altro bel disco: Fresh Blood è più pensato del debutto, ogni brano è lavorato finemente e arrangiato con gusto. Ciononostante il nuovo lavoro del musicista di Richmond non suona laccato o falso: rischi che poteva correre ognuna di queste dieci tracce che si muovono tra americana, soul e r’n’b, con pochissima elettricità e senza un briciolo di elettronica. In fondo, ogni disco che mostra chiaramente quali siano i suoi antenati (l’albero di famiglia è ben rappresentato in dieci ore dalla splendida raccolta Atlantic Rhythm & Blues) può risultare una goffa imitazione del passato. White e i suoi musicisti (la house band dell’etichetta, Trey Pollard, Cameron Ralston e Pinson Chanselle) invece ci credono davvero, dimostrano la maturità raggiunta insieme e usano sapientemente ogni singolo elemento di ogni canzone, dalle dinamiche alle partiture per archi, dai raddoppi delle voci alle linee di basso, per creare una narrazione fluida e coesa.

Dall’apertura con “Take Care My Baby”, in cui la voce di White mormora incerta parallelamente al lento entrare degli strumenti (archi e fiati, oltre a piano, basso, chitarra e batteria: gli ingredienti sono questi), fino alla chiusura con il rhythm and blues classico e gentile di “Love Is Deep”, l’album regala momenti più divertenti (il singolo “Rock and Roll Is Cold”), altri più scuri (“Holy Moly”), sposando un soul orchestrale che si concede precise punte di elettricità, come in “Tranquillity”, uno dei pezzi chiave del disco. Sembra di esplorare le stanze di una casa, che, com’era accaduto nell’esordio, ci ricorda quella che sembra dischiudersi all’ascoltatore di What’s Going On di Marvin Gaye: una casa che odora di legno e polvere, tra le cui solide pareti si parla più d’amore che di politica. I tempi sono cambiati, del resto, ma il presente, se ci offre dischi del genere, non è poi così male.

Dagli archivi: Cannibal Ox – Blade of the Ronin

Cannibal Ox – Blade of the Ronin (IGC Records)

5,5

Basta confrontare la prima traccia del debutto del duo di Harlem con la intro di questo nuovo disco per capire che i 14 anni intercorsi tra lo splendido The Cold Vein e il fiacco Blade of the Ronin hanno decisamente cambiato le cose per Vordul Mega e Vast Aire (qui decisamente in primo piano rispetto al partner). Ciò che manca, soprattutto, è la ricerca dei suoni: nel 2001 i due raccontavano la loro NYC con distorsioni, squittii elettronici e bordoni inquietanti.

Le musiche del nuovo album, invece, sono un impasto troppo pacificato e poco convinto tra il tentativo di ricreare beat e basi del passato (che però allora erano, perdonateci il gioco di parole, all’avanguardia) e di tendere un orecchio ai suoni d’oggi. Il tutto sotto la produzione di Bill Cosmiq che, non ce ne voglia, fa il suo, ma non è l’El-P a cui The Cold Vein deve molto. Diciannove tracce che si srotolano lungo un’ora di disco, che avrebbe guadagnato molto da una sfoltitura, anche della guest-list: tra i featuring di Double A.B., Kenyattah Black, The Artifacts, U-God, eLZhi, Swave Sevah, Space, Elohem Star, IRealz, forse solo quello di MF Doom in “Iron Rose” si fa ricordare in qualche modo. Ma quella canzone, che vorrebbe riprendere la prima traccia con cui abbiamo conosciuto i Cannibal Ox, “Iron Galaxy”, ne è una pallidissima parente. Insomma, speravamo qualcosa di più.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di aprile 2015 de Il Mucchio Selvaggio

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