intervista

Trilocane (con servizi esterni)

Puntata ricca, quella di Monolocane di stasera. Intanto ci sarà un’intervista registrata a Paolo Nori, che ci parlerà del suo ultimo libro Ente nazionale della cinematografia popolare.
Poi parleremo anche delle elezioni britanniche, forse con in studio il diretùr della radio e fors’anche con un inviato da Londra. Quindi, state composti.
Ma la cosa più difficile sarà scegliere le due tracce da farvi sentire dall’ultimo bel disco dei Nine Inch Nails, With Teeth.

Stasera, dalle 2230 sui bolognesissimi 96.3 e 94.7 Mhz o in streaming su Città del Capo Radio Metropolitana (o anche su Radionation).

Aggiornamento: l’intervista a Paolo Nori è qua (vi serve, come al solito, Real Player).

L’intervista è anche qua!

Ani Difranco a Monolocane!

Stasera, a Monolocane, riproporrò l’intervista telefonica che ho fatto martedì a Ani Difranco, già andata in onda a Patchanka. Una chiacchierata di una decina di minuti, in cui si è parlato molto di Knuckle Down, l’ultimo disco di Ani, ma anche della difficoltà di rendere poetica l’espressione “corporazione multinazionale”.
Dalle 2230 alle 0030 sui 96.3 o 94.7 MHz di Città del Capo – Radio Metropolitana, se stasera siete nei regi confini bononiensi. Se no, potete sentire il tutto in streaming dal sito della radio o su RadioNation.
(Se stasera andate a sentirla a Milano, beati voi. Potrete recuperare l’intervista da venerdì sulla pagina del programma, come al solito.)

Ora qui!

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Nicoletti reloaded: waiting for the (blog) revolution

Stasera a Monolocane, intervista con Gianluca Nicoletti, l’uomo che fece incazzare i bloggers. Cioè, spero di intervistarlo. Nel senso che ho un appuntamento telefonico intorno alle undici, quindi tra meno di due ore. Se avete domande, suggerimenti di domande o risposte, fatevi sotto nei commenti.
A stasera, quindi. Dalle 2230 alle 0030 sui 96.3 o 94.7 MHz di Città del Capo – Radio Metropolitana, se vivete a Bologna. Se no, potete sentire il tutto in streaming dal sito della radio o su RadioNation.

Aggiornamento. Sulla pagina del mio programma potete sentire l’intervista completa, in Real Audio.

Ecco l’intervista!

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Tutta la Farina del suo sacco (sapevo che non avrei resistito)

Stasera a Monolocane, intervista esclusiva (sì? Mah, non so, mica sono il primo che lo intervista…) a Geoff Farina, il leader dei Karate. Una decina di minuti di chiacchierata, in cui abbiamo parlato, tra le altre cose, di Bob Dylan, Ernest Hemingway, Chris Brokaw, Leonard Cohen, Frank O’Hara, del concetto di “indie”, della soluzione al non saper cantare.
Dalle 2230 alle 0030 sui 96.3 o 94.7 MHz di Città del Capo – Radio Metropolitana, se per voi Sirio non è solo una stella. Se no, potete sentire il tutto in streaming dal sito della radio o su RadioNation.
Ah, per voi che non potete sentire la trasmissione in diretta, ma vi piacerebbe tanto sentire l’intervista: tranquilli. Entro un paio di giorni sarà pubblicata qua.

Ecco l’intervista!

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Excuses

L’ultima volta che ho visto i Karate era il febbraio di due anni fa. Li aspettavo con ansia, anche se il disco che stavano portando in tour era (ed è) quello che mi piace di meno, Some Boots. Il concerto era stato bello, con Geoff Farina che cantava e suonava senza guardare niente e nessuno. I Karate erano usciti, poi erano stati richiamati sul palco del Covo e avevano iniziato il bis. Ma al secondo pezzo era successo qualcosa, Farina se n’era andato senza dire praticamente nulla, lasciando bassista e batterista senza parole, letteralmente ghiacciati. E così il pubblico.
Arrivare ieri al TPO con l’idea di intervistare lo stesso Farina mi agitava. Mi ero preparato le domande, guardando altre interviste, cercando di non ripetere sempre le stesse cose, provando a misurare le parole, con il terrore di “sbagliare”, e che lui si girasse e se ne andasse, senza una parola. Quella era la sua ultima immagine nei miei occhi. E invece no, è stato gentile, carino e moderatamente chiacchierone, ma soprattutto rilassato (potrete sentire l’intervista giovedì).

E poi il concerto. Dopo un inizio in sordina (Bob Corn, lo ammetto, non l’ho sentito), il macello fatto dai Redworms’ Farm è devastante: il batterista si presenta a petto nudo, ma non ha l’aria dello sbruffone, anzi. Certo, fa una certa impressione vederlo così quando metà del pubblico ha addosso il cappotto e l’altra metà inizia a percepire netti segni di congelamento. Ma basta il primo pezzo per capire che avrà caldo anche mezzo nudo: rigido come un robot e pesante come un carroarmato è lui che guida il terzetto brano dopo brano, sparando sulla batteria con una precisione e una velocità incredibile. Mentre suonano, penso ad una dichiazione di Farina sull’inutilità dell’eccessivo volume quando si suona e immagino il cantante dei Karate riparato dietro il bancone del merchandising. I Redworms’ Farm concludono un set tiratissimo quando il batterista inizia a fumare (non nel senso che si accende una sigaretta: fuma proprio dalla testa, dalla schiena, dalle spalle). Forse è un segnale convenzionale.

Quando il palco è sgombrato, sembra che anche il rumore del concerto precedente si sia diradato: l’unica costante è il freddo. I Karate escono, e attaccano con “Alingual”, una delle canzoni più lente dell’ultimo disco Pockets. Sono così: o ci stai, o puoi andartene a bere qualcosa. Loro suonano e basta, per loro stessi e per chi li vuole ascoltare. Sì, anche per quei tre fan dei Redworms’ Farm completamente ubriachi che continuano a gridare “karate” per tutto il tempo, tanto che mi verrebbe da avvicinarmi a Geoff Farina e sussurrargli: “Oh, non ci badare, eh. Sta’ qua, finisci il concerto, su, su, dai.” Ma Farina sta bene, abbozza qualche parola in italiano, senza dire “spaghetti”, saluta, ringrazia, dice che ha il naso chiuso, continua, suona, improvvisa. Soltanto un paio di pezzi da Some Boots, più di qualcuno da Unsolved, i necessari richiami all’ultima uscita.
Prima del concerto, alla fine dell’intervista, gli avevo chiesto se in scaletta ci fosse Caffeine or me. “Sì”, mi ha detto.

excuses are okay
however senseless they might be
and senseless is to say
that they don’t make sense to me
excuses are okay
however senseless they might be
excuses are okay

Adesso te lo posso dire, Geoff: ci sono rimasto molto male, l’ultima volta che ci siamo visti. Un professionista come te che, per un errore, se ne va così. Ma prendo il vostro concerto di ieri come una meravigliosa e lunghissima scusa, priva di senso come a volte è la Musica.

Il marketing e l’arte della manutenzione radiofonica

Ce l’abbiamo fatta anche questa settimana a mettere in piedi un’altra puntata di Monolocane. Il titolo del post è solo in parte sconclusionato, nel senso che parlerò con lui, l’unico blogger che lavora per una multinazionale, di cosa significa veramente fare il mestiere che fa. Ovviamente domani il nostro sarà licenziato e citato in giudizio per miliardi.
Inoltre, se ce la faccio a prepararla, vi faccio sentire un’intervista con Faso, sì, proprio il suonatore di chitarra basso di Elio e le storie tese, che ci parla di “peer to peer” e di quando sarà possibile scaricarsi sul computer di casa una riproduzione della Venere di Milo.
Come al solito, dalle 2230 alle 0030 sui 96.3 o 94.7 MHz stereo di Città del Capo – Radio Metropolitana, se siete a Bologna. Se siete in qualsiasi altro posto, ma avete un collegamento internet, potete dilettarvi con non uno, bensì due streaming.
Se no, niente.

Update. Stasera telefoneranno a Monolocane i Micecars. Oh.

Ecco l’intervista a Faso!

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Preparàti al micidiale?

Questa sera a Monolocane un’intervista esclusiva con Alessandro Bergonzoni. Esclusiva nel senso che c’eravamo solo io e lui, questa mattina, nella sala di registrazione della radio. Mi dicono che stasera c’è anche la finale del Grande Fratello. Siccome la “Redazione GF” di Monolocane sarà molto probabilmente assente, ospito opinionisti a caso. Chiamate, scrivete, fate (voi).
Dalle 2230 alle 0030 sui 96.3 o 94.7 MHz di Città del Capo – Radio Metropolitana, se siete nella città delle tre t. Se siete altrove, o se le consonanti non corrispondono, potete sentire il tutto in streaming dal sito della radio o su RadioNation.

Ecco l’intervista!

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If you leave me I erase you

Una puntata coi frizzi, lazzi e cotillons, stasera. Qualcuno l’aveva chiesto, beh, io l’ho trovato. In esclusiva l’intervista con chi ha deciso di fare uscire nei cinema patri Eternal Sunshine of the Spotless Mind con il titolo-che-ben-conosciamo. Sì, avete capito bene, proprio con lui, direttamente dalla Eagle Pictures.
E con me in studio Magenta&Woland.
Che volete di più? Chiedetemelo. Sintonizzatevi questa sera dalle 2230 sui 96.3 o sui 94.7 MHz se siete a Bologna o provincia. Se siete altrove, cliccate qui per lo streaming.

Update. Da oggi e per ogni giovedì la mia trasmissioncina va in onda anche su RadioNation. Ma pensa. Devo subito chiamare mia mamma.
Ariupdate. Se proprio volete, l’intervista è ascoltabile qui.

Ecco l’intervista!

Giorni indipendenti: cronaca da un festival, tra il musicale e il mondano

A me i festival musicali, di solito, non piacciono. Troppi gruppi, pericolo di distrazione e di bulimia, tempi stretti. Ma quando mi è stato proposto di fare la diretta dell’Independent Days Festival per Popolare Network insieme a Elisa, non ho avuto dubbi e ho accettato. Insomma, due giorni di concerti gratis, con pass all areas, voglio dire… E quindi eccoci, alle dodici e qualcosa del 4 settembre, entrare nell’Arena Parco Nord.

Sabato 4 settembre

Da Ginsberg ai 3 allegri ragazzi morti. Scusa, Ginsberg.
Il primo personaggio che vedo lascia il segno. Un ragazzo dal capello lungo e luccicante (non ho voluto indagare se per eccesso di sudore, acqua o strutto) si aggirava per quella landa brulla e battuta da sole, con indosso un camice bianco. Si inginocchia per terra a caso, e urla: “Il re della poesia è Ginsberg!” Quando qualcuno gli chiede delucidazioni, si rialza, si calma un po’, poi chiede: “E lo sai qual è il re della prosa?” Si inginocchia di nuovo e urla, brandendo un libretto: “Jack Kerouac!”. “Forse è il figlio della Pivano”, ho pensato.
Sul palco si avvicendano i primi gruppi e, siccome la diretta inizia alle sei, ho tutto il tempo di guardarmeli. Di solito per non più di cinque minuti.
I Ray Daytona, però, sono simpatici. A parte la mia passione smodata per il garage (fans dei Fuzztones, a me!), è sempre bello vedere delle persone mascherate sul palco. Uno da martello, uno da chiave inglese, uno con la maschera antigas e uno… da uomo. Sì, sul palco dei Ray Daytona c’era un uomo con sopra un travestimento da uomo. Coi baffi. Forse l’omino sotto era sprovvisto di peluria facciale, chissà.
I Colour of Fire quando salgono sul palco si lamentano, perché il loro “Cheeao!” non è accolto dal pubblico come si deve. Quindi il cantante esclama, stupito: “Che razza di benvenuto è questo? Veniamo dall’Inghilterra!” In quel momento ho sperato che un siciliano lo minacciasse in dialetto stretto di salire sul palco e di spaccargli la faccia, se non la smetteva di dire cazzate e non iniziava a suonare.
E poi, I tre allegri ragazzi morti, che indossano maschere e fanno proclami. E la guerra. E la pace. E l’amore. E che due palle.

Gente, gente, gente, divertente (ma che bella situazione)
Avete presente le barzellette della Settimana Enigmistica dove si vedono i padroni dei cani uguali ai loro animali? Ecco, ai festival è così. L’Arena, sabato, era piena zeppa soprattutto di fan-sosia di Nick Oliveri. Omoni baffuti e con cappellino da camionista, che li vedi e sogni le grandi highway del Midwest. Poi li senti parlare e sono al massimo di Savona.
Stare vicino alla postazione mixer con il pass di cui sopra, inoltre, fa sì che si venga visti dal pubblico come degli oracoli, prodighi di saggezza e sapere. Mi è stata chiesta la scaletta circa settanta volte. E una quarantina di persone mi hanno chiesto “Ma i dEUS non suonano?” Ogni volta che ho confermato la triste notizia, le reazioni sono state da “Ah, vabbè, ma tanto piacevano solo a quello stronzo del mio ex”, fino al tentativo di suicidio. Dopo un po’ mi si avvicina un tizio e mi chiede “Oh, ma i Keane?”. Ho fermato un paio di fan dei dEUS che lo stavano per incaprettare.
L’altra gettonatissima domanda era: “Ma dov’è la tenda Estragon?” La mia risposta brevettata era un “là” accompagnato da ampio movimento del braccio, a comprendere tutto l’orizzonte. Ho smesso di indicarla quando uno mi ha chiesto se ci volesse la macchina, per raggiungerla.
Evidentemente il fatto che ci fossero due palchi non visibili l’uno dall’altro ha gettato nel panico tutti. In particolare una coppia, presumo piemontese, quarant’anni circa a capoccia. Lei mi approccia, da dietro le transenne, e mi inizia a chiedere dei due palchi, ma non chiamandoli “palchi”, bensì “situazione”. “Senti, ma in questa situazione qua suona Mark Lanegan? Ma quell’altra situazione dov’è?”. Ho ripreso immediatamente a sbracciarmi verso l’orizzonte e le ho fatto credere che Mark Lanegan fosse con i dEUS a bere pinte di Stella Artois a casa mia.
Dopo l’esibizione del suddetto Mark, si avvicina l’uomo della coppia. “Come ti è sembrato Lanegan? No, perché l’ho visto a Urbino, qualche anno fa, e mi sembrava meglio”. Io faccio la faccia del che-ne-so. Poi si avvicina, e mi sussurra: “Ma che c’è qualcosa che non va a Lanegan? No, lo chiedo a te, perché magari lo sai” e mulina la manina come per dire “birra e salsicce”. Io faccio la faccia di prima. “Ah, non sai un cazzo, eh?” E se ne va, con la sua compagna, verso nuove ed entusiasmanti situazioni.

Bloggerz (e non solo)
Poco tempo per stare con loro, peccato, perché finalmente ne ho visto qualcuno che aspettavo da tempo di vedere!

La musica che non conta e non riempie, quella che conta e ti fa saltellare, quella che commuove
Spiegatemi perché esistono The Libertines. No, veramente. Proprio come l’acqua fresca quando non hai sete. Mah, magari sono gretto io.
I Franz Ferdinand li avevo già visti, e li aspettavo alla prova del grande pubblico da festival, dopo l’abbraccio accademico virtuale del pubblico del Covo. Beh, ce l’hanno fatta anche stavolta. E voci fidate del backstage mi hanno detto che sono tranquilli, modesti e proprio tanto gentili e simpatici. Mando un sms a Karol, che dite? Quattro più, quattro meno…
E infine loro, i Sonic Youth. Ecco, quando hanno iniziato con “I love you golden blue”, ho maledetto il fatto di non potermi gettare nel pubblico, sbattendomene della diretta nazionale. Un’esibizione bellissima, con un inizio incerto su “100%” che l’ha resa ancora più preziosa. Sono andato ovviamente a fare una foto, durante “Teenage Riot”. Beh, vedete qua che è venuto fuori. Si può fotografare il rumore del feedback? Forse sì.
I Sonic Youth finiscono il concerto verso mezzanotte e qualcosa, noi abbiamo la diretta fino a mezzanotte e mezzo. Ma qualcuno dell’organizzazione non lo sa, quindi ci toglie la corrente prima. Le mie ultime parole sono state: “Allora, Elisa”. Bel titolo per una canzone. Mi chiedo se qualcuno ci abbia già pensato.

Domenica 5 settembre

Fashion Nuggets
La cara Bea non ne avrà a male se rubo il nome del suo blog per questa parte di post. Del resto lei l’ha rubato ai Cake, quindi… Si perpetra una catena di furti. Insomma, il pubblico del giorno indipendente numero due è spettacolare: ci sono adolescenti brufolosi e quarantenni che non si rassegnano, un po’ come molti dei gruppi in programma. E le magliette, di tutti i tipi, dai Metallica ai Thin Lizzy, dai Led Zeppelin ai Nirvana, dagli Ska-P a Piero Pelù. Ehm. Scusatea. Ma soprattutto non vedevo tante magliette dei Guns’N’Roses dal 1992. Incredibile quanto siano attesi i Velvet Revolver e soprattutto Slash. Sì, lo Slash che io e Elisa avevamo in programma di intervistare. Arriva un sms dall’organizzazione: “Niente domande sui GNR e sugli STP”. Io e Elisa ci guardiamo: “E mo’ che cazzo gli chiediamo?”. Ma in fondo stiamo per tornare indietro di dieci anni, senza neanche avere bisogno della DeLorean di Doc.

Slash: un simpatico quarantenne un po’ bolso
Quando veniamo chiamati dalla produzione del festival, io e Elisa siamo in fibrillazione. Slash, rendiamoci conto. Mica cavoli. Lo so, dimentichiamoci dello Slash Snakepit, tutti fanno degli errori. Mi viene in mente la mia compagna di scuola Silvia, perennemente in lotta ormonale e interiore tra le bellezze del chitarrista nicotinomane (tanto per citare una mania) e il biondo Axl. Stiamo per andare indietro nel tempo.
Per andare indietro nel tempo, però, ci vuole un’ora e un quarto di preparazione, durante la quale l’eccitazione si stempera in sentimento d’attesa e quindi in nervosismo. Intanto vediamo gli altri nel backstage. Appena vedo Slash penso: “Madonna, quanto è invecchiato”. Poi mi deprimo pensando che, poco prima, un ragazzino mi ha fatto la solita domanda della scaletta dandomi del lei. Nel frattempo mi siedo vicino alla truccatrice (?) dei Velvet Revolver, che sta appuntando una croce sul berretto militare che indosserà Scott Weiland. Il dialogo tra me e lei è surreale.
Io: “Posso sedermi qua?”
Lei: “Non lo so, tra un po’ arrivano”
Io: “Va bene, quando arrivano, tanto, devo intervistarli, quindi, per il momento, posso sedermi qua?”
Lei, dopo un minuto di pausa: “Non lo so, tra un po’ arrivano”
Per evitare il loop, mi siedo, e la guardo. Cuce questa croce sul cappello nero, e intanto tira su col naso. Ha gli occhi lucidi e il viso congestionato. Evidentemente ha pianto. Cosa nasconde nell’animo una costumista di un gruppo composto da vecchie glorie? Forse anche lei si è accorta, come me, che il tempo passa e non siamo più adolescenti?
I miei pensieri vengono interrotti dall’arrivo di Slash. Ci sediamo nel suo camerino, un’altra ragazza gli prepara un beverone energetico dal colore torbido, lui si siede, accende una sigaretta (Gitanes blu con filtro: e quando lo vedo che se la porta alla bocca penso solo “minchia”) e iniziamo l’intervista.
Slash è allegro e gioviale, parla con voce bassa e calda, sorride, ridacchia, non è avido di parole. Insomma: Slash è felice. Ed è lui a parlarci dei Guns’N’Roses, forse stimolato da una mia domanda un po’ rischiosa, su come è cambiato il pubblico in tutti questi anni.
Sei minuti intensissimi. Poi ci facciamo la foto che avete visto nel trailer, dove io ed Elisa lo imitiamo abbastanza bene, come si può notare.

Ecco l’intervista a Slash!

Kick Out the Jams
Avevo comprato il biglietto per il quattro, non per il cinque, senza pentimenti. Ma mi incuriosiva tantissimo sentire gli MC5, anzi DKT MC5, come si fanno chiamare adesso. Mi sono chiesto che tipo di operazione ci fosse dietro la reunion di un gruppo che ha fatto sì la storia del rock, ma che, in fondo, non è universalmente conosciuto. Ho risentito Kick Out the Jams, più volte, e non ne sono mai riuscito a cogliere l’essenza, in quel miscuglio di hard rock con influenze soul, ma dannatamente potente (adoro scrivere “dannatamente”). Alle 2005 di domenica 5 settembre 2004, quarant’anni dopo la loro formazione, ho capito. Ho capito che cos’è il rock-e-basta, dal vivo. Ho capito perché gli MC5 vengono da Detroit, come la Motown, ho capito vagamente che cosa doveva essere sentire quella musica nell’aria qualche decina di anni fa. Secondo momento in cui ho maledetto il mio lavoro (ballare “Kick Out the Jams” suonata da loro dietro un mixer è molto peggio dell’interruzione dell’amplesso) e decisamente miglior concerto della due giorni. Semplicemente splendidi.

L’oscurità senza fuochi d’artificio
Sono tamarri, fuori tempo massimo, commerciali e cantano in falsetto. Ma diciamolo: pur con tutti questi limiti, un paio di canzoni i The Darkness le hanno azzeccate. Quando una delle ragazze dell’organizzazione ci ha portato la scaletta della loro esibizione, e ho visto come finale prima del bis “Friday Night” e “I Believe in a Thing Called Love”, mi sono detto: “Ecco a cosa servono le prove denominate “Pyro” che ho visto su un foglio attaccato nel backstage”. E mi ha anche confortato che i case del gruppo fossero ventisei, ognuno grande come un’utilitaria. E invece niente: i Darkness hanno soprattutto usato le luci, il cantante si è cambiato d’abito solo tre volte, ha preso per il culo il pubblico e i Queen. E non è stato sparato neanche un fuoco d’artificio, niente. Che delusione.
Almeno, alla fine, nessuno ci ha staccato la corrente. Quindi abbiamo potuto salutare e concludere degnamente le nostre brave undici ore di diretta (che sono sempre meno, a vedere bene, del tempo che ci avete messo per leggere tutta ‘sta roba. Grazie.)

"Cose piccole e piccoli sentimenti"

Oggi ho avuto un crollo, ben mascherato dal mutismo, in redazione.
Appena avuta la notizia del rapimento sono schizzato via da casa, proprio mentre rispondevo a delle mail, scrivendo che dopo quattro giorni di delirio questo era il primo pomeriggio tranquillo (avrei dovuto dire “una tensione stabile”). Sono arrivato in radio, ho cercato Scaccia. Le solite domande. “Hai qualcosa da dirmi? Quali sono le reazioni là?”. Pino si è dimostrato, ancora una volta, una persona splendida. “Francesco, che ti devo dire? Troppo presto perché ti possa dire qualcosa. E poi, che reazioni? Ero io, qua, uno dei suoi amici.” Nonostante incombesse la diretta del TG2, ha trovato come sempre il modo di dirmi qualcosa e mi ha parlato un po’ del gruppo terroristico che ha rapito Enzo. Ho chiuso la telefonata, ringraziandolo (e non sarà mai abbastanza), sono andato a scrivere il pezzo. Stampato, consegnato. Poi mi sono seduto e ho visto un’altra, l’ennesima edizione di un telegiornale. Enzo è stato rapito.
Mi sono reso conto allora che, in fondo, speravo che fosse nascosto da qualche parte. Perché sono stato male, è venuta fuori tutta la tristezza e l’ansia per questa vicenda che i ritmi di lavoro serrati degli ultimi giorni avevano relegato da qualche parte, in fondo. Una tristezza che era stata sfiorata, ieri, quando ho dovuto scegliere un brano di una delle “Cartoline” che avevamo fatto, e risentire la sua voce dai file grezzi, con le risate e le battutacce in mezzo, mi aveva fatto un certo effetto. Ma ieri bisognava essere veloci, scegliere i brani, ripulirli, montarli. Oggi, no. E allora mi sono venute in mente le prime e-mail che ci siamo scambiati, sette anni fa, quando lui per me era Zio Zonker e io per lui Il Malva. Beh, veramente io sono ancora per lui “Il Malva”. In una mail, addirittura, dopo un sacco che non mi facevo sentire, mi appellava “Malva, vecchia troia!” tutto in maiuscolo.
Enzo è stato uno dei primi a leggere la mia prima raccolta di racconti. Appena l’ebbe finita mi scrisse.

Oggetto: Tempi diversi
Data: Sun, 5 Dec 1999 21:55:49 +0100
Da: egb
A: francesco

Ieri sera mi sono portato a letto “Tempi diversi”.
L’ho letto tutto d’un fiato.
Belli gli attacchi, giusti ritmi e misure, non casuale il pezzettino di Raymond Carver.
Il mio preferito e’ probabilmente “Il bagno del primo piano”, delicatissimo, vagamente surreale.
L’unico punto debole che ho trovato e’ forse strutturale alla tua generazione, che non ha avuto in genere grandi tragedie ne’ grandi epopee, e che quindi e’ costretta a parlare di cose piccole e di piccoli sentimenti. Non amo il minimalismo, e Leavitt mi fa cagare. Ma i tuoi racconti non sono, secondo me, da considerare minimalisti. Mi piace considerarli dei bei pezzi di artigianato, fatti con amore, tecnica e buona capacita’ di rifinitura.
Bravo.

Enzo

Questa è una delle mail di complimenti più belle che abbia mai avuto. E da cinque anni, lo giuro, continuo a riflettere sulla debolezza della mia generazione, “che non ha avuto in genere grandi tragedie né grandi epopee”.

Ho scritto un romanzo, Enzo. E voglio fartelo leggere. Quindi, vedi di tornare presto.

La tua vecchia troia, il Malva

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