mucchio selvaggio

Dagli archivi: La Batteria – ST

La Batteria – ST (Penny Records)

6

la batteriaEmanuele Bultrini, Paolo Pecorelli, Stefano Vicarelli e David Nerattini sono musicisti romani con un bel curriculum alle spalle: i primi tre suonano anche ne La Fonderia che, come questa neonata band, è principalmente strumentale. La Batteria si rifà alla musica italiana da film e da library prodotta tra la fine dei ’60 e i primi anni ’80: un periodo ultimamente più che sfruttato, a cui i musicisti guardano con fin troppo rispetto. Strumentazione d’epoca, progressioni armoniche filologicamente corrette e, tutto sommato, poche sorprese. Colpiscono “Chimera”, traccia iniziale con echi folk, e “Formula”, che si apre e si chiude con un synth quasi carpenteriano. Speriamo che le influenze più variegate di cui parla il comunicato stampa erompano con più coraggio in una seconda prova.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di febbraio 2015 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: Zun Zun Egui – Shackles’ Gift e intervista a Kushal Gaya

Zun Zun Egui – Shackles’ Gift (Bella Union)

7

Altri ascolti raccomandati
Zun Zun Egui – Katang
Melt Yourself Down – S/T
Talking Heads – Fear of Music

Anche nel secondo disco gli Zun Zun Egui spostano il baricentro della loro musica lontano dall’Europa, pur non dimenticandosi della terra britannica che li ha fatti incontrare. Kushal Gaya (voce e chitarra), Matthew Jones (batteria e percussioni), Yoshino Shigihara (tastiere), e i nuovi acquisti Adam Newton (basso) e Stephen Kerrison (chitarra) riversano nelle nove tracce dell’album tantissime suggestioni, come era accaduto nel primo disco, ma con maggiore maturità e consapevolezza. Da un lato c’è un passo avanti rispetto a Katang (Bella Union, 2011), dall’altro Shackles’ Gift soffre di alcuni momenti di pesantezza.

Le chitarre sono in primo piano: spesso tendono al noise, con corde tiratissime e suoni distorti appoggiati su ritmiche massicce e serrate, che vagano tra sapori tropicali, quadrature rock e fantasie venate di dub e “irregolarità” africaneggianti. Si sente la mano del produttore Andrew Hung dei Fuck Buttons nell’uso dei tempi e, chiaramente, quando compare l’elettronica (vedi il finale di “The Sweetest Part of Life”). Tuttavia il vero motore della band è il dotatissimo leader Gaya, in prima linea anche nei Melt Yourself Down. Il musicista, nato e cresciuto in Madagascar, ha fatto tesoro della prospettiva unica che si acquista tornando nei luoghi della formazione dopo avere vissuto altrove per diversi anni, nel suo caso tra Londra e Bristol (vedi intervista a pag. XX). La distanza ha permesso di scoprire nuove storie del suo popolo e nuove musiche, prontamente incluse nell’album.

“Soul Scratch” è una canzone seggae, un neonato genere musicale dell’arcipelago tra Africa e Asia che mette insieme la sega (musica popolare mauriziana) e il reggae. “Late Bloomer” è uno degli episodi più trascinanti del disco, dove la matrice tropicale è in primo piano. Tuttavia ci sono episodi decisamente più “occidentali”, come “Ruby” o il secondo singolo “African Tree”, dove, a dispetto del titolo, tornano momenti quasi stoner che facevano parte anche del ricettario dell’esordio.


Il debutto degli Zun Zun Egui, Katang(Bella Union, 2011), è stato uno dei dischi più interessanti usciti di recente. Inclassificabile dal punto dei vista dei generi, mischiava rock, dub, afro, indie con risultati sorprendentemente omogenei e personali: la band portava l’ascoltatore in lande riconosciute e riconoscibili solo in apparenza. Le canzoni erano il risultato di ingredienti noti, ma mischiati in maniera sapiente al fine di dare risultati inediti e freschi. Ecco un aggettivo ambitissimo che la band, originariamente di base a Bristol, può fare suo senza discussioni: un obiettivo raggiunto in maniera assai poco scontata, considerando che la pratica del crossover è ormai comune da tempo nella musica in toto. Eppure gli Zun Zun Egui sono riusciti a mescolare in maniera convincente la musica ascoltata e vissuta dai singoli componenti del gruppo, cosmopolita come non mai. La pratica è stata mantenuta nel nuovo album con qualche abilità in più dettata sicuramente dalla produzione di Andrew Young, metà dei Fuck Buttons, così come dall’esperienza che i musicisti hanno fatto tanto insieme, quanto lavorando ad altri progetti musicali: in particolare il cantante, Kushal Gaya, fa anche parte dei Melt Yourself Down, un altro prodotto musicale di Sua Maestà Elisabetta II, ma che sa di isole britanniche così come di altre terre che i sudditi della Regina hanno raggiunto per mare, visitato e, talvolta, conquistato e soggiogato. Abbiamo parlato del nuovo disco degli Zun Zun Egui proprio con Gaya, nato e cresciuto alle Mauritius, un arcipelago di confine sperduto nell’Oceano, tra Africa e Asia, che, lo vedremo, ha influenzato molto Shackles’ Gift.

Cosa avete fatto tra la fine della promozione di Katang e la registrazione di Shackles’ Gift?
La band ha cambiato parte della formazione e ci è voluto del tempo per scegliere i nuovi membri: volevamo che il gruppo prendesse forma in maniera appropriata. Alla fine abbiamo voluto Adam Newton al basso e Stephen Kerrison alla chitarra. Ora sono membri a tutti gli effetti e scriviamo i pezzi insieme. Siamo persino andati a suonare in Vietnam e alle Mauritius, posti poco comuni per un tour, ma queste esperienze hanno davvero contribuito a plasmare il nuovo disco. Infine, per quanto mi riguarda, sono stato impegnato con i Melt Yourself Down e altri progetti.

Perché avete scelto Andrew Hung dei Fuck Buttons ? Com’è andata?
Tutto è stato abbastanza diretto, naturale. Conosco Andrew di persona, amo la sua musica e andiamo molto d’accordo. Sono stato a un concerto a Brixton, credo che tra gli altri suonasse Luke Abbott, e ho visto Andy: lo conoscevo perché eravamo di spalla ai Fuck Buttons in un tour britannico nel 2009. Abbiamo cominciato a chiacchierare prima del concerto e ci siamo raccontati i piani che avevamo per quell’anno. Ho accennato al fatto che stavamo cercando qualcuno che ci aiutasse a produrre il disco e lui ha immediatamente replicato: “Ci penso io”. Non sapevo neanche che fosse un produttore, ma per qualche ragione mi piaceva tantissimo l’idea che supervisionasse le registrazioni. La sua presenza è davvero bella: è discreto, ma può essere molto diretto in ciò che pensa. Quindi ci siamo incontrati un po’ di volte e questa sensazione positiva si è fatta ancora più forte: alla fine ci siamo detti “Sì, prenotiamo qualche sessione in studio”.

Con quali basi di partenza avete iniziato a lavorare al nuovo disco?
Eravamo alle Mauritius per i concerti a cui ho accennato e, in un giorno libero, ho incontrato questo vecchio pescatore, col quale ho cominciato a parlare della musica del posto. Mi ha raccontato una storia meravigliosa, spiegandomi che una parte della nostra musica locale era stata creata dai lavoratori delle piantagioni ascoltando il rumore che facevano le canne da zucchero nello zuccherificio quando venivano spezzate, e usando il ritmo della fabbrica per una nuova forma di musica. Per me era incredibile: ho vissuto per tanto tempo là, ma non avevo mai saputo nulla di ciò. Ho pensato quindi che si trattasse di una delle più antiche forme di musica industriale… Questo mi ha molto influenzato per dare forma al suono del nuovo disco. Volevamo anche che il disco avesse delle controparti dub e che il tutto fosse molto ritmato. Il nostro scopo era che gli oggetti suonassero come macchine e noi, invece, che apparissimo molto umani. Ci ha aiutato notevolmente in questo un tipo di motore, il Fairbanks Morse Diesel [un motore a due pistoni sviluppato negli anni ’30 e nei decenni immediatamente successivi, montato su sottomarini elettrici e nucleari statunitensi, NdR]. Inoltre, scrivere i testi e avere per le canzoni un punto di partenza diverso da un riff di chitarra sono state sfide sulle quali ho voluto mettermi alla prova. Volevo essere più concentrato e preciso in quello che stavo facendo, e questo processo è ancora in corso: non vedo l’ora di scrivere nuove canzoni!

Il disco suona molto più “British” del precedente: è una scelta conscia?
Davvero? Oh, be’, non so se si tratti di una scelta precisa, non ho mai pensato “Devi suonare più britannico…”. Ormai è tredici anni che vivo nel Regno Unito, quindi penso di avere raccolto, strada facendo, elementi che hanno un suono “British”… Sicuramente da un punto di vista vocale e dei testi. Tre componenti della band sono britannici, quindi era destino che il disco suonasse così. Ma, in fondo, in cosa consiste quest’identità? C’è un tale flusso e movimento nel Paese e specialmente a Londra, dove vivo da due anni e, a essere sincero, la società mista è il pane quotidiano, una cosa bellissima. Non sarei sorpreso se nel futuro il Primo Ministro britannico fosse cinese o indiano: il suonare britannici è qualcosa che si definisce e ridefinisce tutto il tempo, è un processo di improvvisazione infinito.

Ho notato un maggior peso delle chitarre nella composizione delle canzoni, con suoni che talvolta si avvicinano al noise. Cos’è cambiato nei nuovi pezzi da questo punto di vista?
Con Stephen [Kerrison, nuovo acquisto della band, NdR] ci siamo divertiti a lavorare con le chitarre e a fare esperimenti con suoni e grane. Il suo stile è unico e si mescola molto bene con il mio: abbiamo prima pensato di lasciare una chitarra e togliere l’altra, poi di toglierle entrambe, infine di creare più dinamiche e più momenti noise. In questo disco mi sono dedicato meno alle chitarre e più al canto.

Un’altra cosa interessante è l’uso dei pieni e dei vuoti nel disco: si va dalla ricchezza di tanti arrangiamenti al minimalismo del finale. Come avete lavorato in questo senso?
Abbiamo deciso scientemente di creare spazi nel disco, non volevamo un album sempre pieno come il precedente. Penso che questo faccia parte del processo di miglioramento del nostro lavoro e della prospettiva che abbiamo adottato rispetto all’esordio. Molto è stato fatto al momento del missaggio: è lì che ci siamo resi conto che c’era un sacco di roba. Quindi ce ne siamo sbarazzati, sai, semplicemente premendo il tasto “mute” su alcune tracce per vedere come suonavano. Eli Crews, che ha mixato il disco, è stato eccezionale. Gli abbiamo anche dato carta bianca nello sperimentare con i delay tipici del dub e con alcuni effetti: cose che desideravamo da subito! Liberarsi di alcuni elementi e andare all’essenziale è stata una delle esperienze più esaltanti che abbia fatto in vita mia.

Ci sono dei temi che legano i testi del disco?
Sì, l’esplorazione della propria natura e il darle piena voce. Probabilmente il tema ricorrente è il conoscersi. Penso che il disco parli del rivolgere al meglio situazioni nelle quali pensi di essere spacciato. Ha a che fare con la sopravvivenza e con il mantenimento di un lato selvaggio in tutto e tutti. E… c’è anche una canzone d’amore! [ride]

Ancora una volta il disco è anche un bellissimo viaggio tra i generi: ce n’è stato uno su cui Shackles’ Gift si è appoggiato più di altri?
Nella band facciamo tutti rock e, l’hai notato anche tu prima, ci sono un sacco di chitarre pesanti e rumorose. Tuttavia, per quanto mi riguarda, la maloya e la sega, le musiche delle Mauritius, La Réunion, Rodrigues e del Madagascar hanno inciso per sempre la mia pelle e la mia anima, al punto che affiorano comunque, in qualunque cosa sia coinvolto da un punto di vista musicale. C’è anche molto ritmo e un’attitudine dance nei pezzi.

I componenti della band vengono dai quattro angoli del mondo, ma gli Zun Zun Egui nascono a Bristol, una città molto importante, musicalmente parlando, per le commistioni che ha visto nascere. Quanto dovete alla scena musicale cittadina?
Abbiamo tutti deciso di vivere a Bristol, quindi immagino che ognuno di noi le debba qualcosa… Inoltre abbiamo avuto molto sostegno e aiuto dal pubblico e dai promoter della città, dalla Qu Junktions [agenzia musicale di Bristol. NdR], da Fat Paul dell’Exchange e prima ancora da The Croft [locali di musica dal vivo della città, NdR]. Vivendo là, inoltre, sono stato esposto moltissimo alla dance e al dub. Sebbene non siano esattamente i generi che suoniamo, andare a concerti davvero illuminanti e che ci hanno divertito sono stati fattori che ci hanno spinto a decidere di fare la nostra musica. Questo è sicuramente un modo in cui siamo stati aiutati dalla scena musicale di Bristol: se qualcosa ti spinge a creare, a suonare la chitarra e scrivere canzoni, be’, è un aiuto esterno enorme.

Parlando l’anno scorso a Londra con Peter Wareham, prima del live dell’agosto 2013 dei “tuoi” Melt Yourself Down, mi raccontò che lo stimolo per il disco d’esordio era stato l’ascolto di un cd della Rough Trade di world music. Cosa pensi del recente nuovo interesse da parte di musicisti britannici ed europei della musica che arriva da quel continente?
Mi sa che si stanno rendendo conto che c’è qualcosa di diverso al mondo, oltre alla cassa in quattro… Sebbene anche io ami la techno e la musica elettronica, per me è diverso: io guardo alla musica europea da una prospettiva “afro-asiatica”. Ho avuto un rinnovato interesse per la musica europea. Europa e America dominano il mondo, nei termini di prodotti culturali e della loro distribuzione, ma penso che in futuro si sentiranno sempre di più stili musicali europei visti attraverso prismi africani o asiatici. Non solo: penso che presto europei e americani sperimenteranno un cambio nei ritmi e nelle melodie, ma non attraverso qualche orrida fusione. E infine: credo che la musica sia qualcosa di universale e unificante; queste definizioni non fanno altro che cercare di spiegare la naturale evoluzione che il pianeta vive oggi.


Melt Yourself Down
Nati esattamente due anni fa, inglesi, di base a Londra. Due sassofoni, basso, batteria, percussioni ed elettronica. Nel curriculum dei membri della band, nomi come Heliocentrics, Zun Zun Egui, Acoustic Ladyland, Polar Bear, Sons of Kemet, Mulatu Astakte, Hello Skinny, Transglobal Underground. Anche solamente passando in rassegna questa scarna carta di identità è chiaro che i Melt Yourself Down fanno della mescolanza una cifra stilistica. L’ha dimostrato benissimo l’esordio del 2013, un fulminante self-titled da poco ristampato con un bonus disc che contiene un concerto, registrato l’anno scorso alla New Empowering Church di Londra. Ed è proprio nella dimensione live che la band raggiunge il suo massimo: i Melt Yourself Down dal vivo sono una forza mostruosa, nel vero senso del termine. Producono uno spettacolo che parte da strumenti, suoni, elementi noti per portare l’ascoltatore alla meraviglia assoluta, allo stupore di trovarsi di fronte a qualcosa di nuovo e sconosciuto. In questi tempi di rimasticazione continua, una novità. Così come è inusuale il recupero, da parte del leader Peter Wareham, della musica nubiana, appartenente alla cultura di un popolo che sta scomparendo, ma la cui stirpe regnò in Egitto per secoli. Quel tipo di ritmiche e timbri, allargati alla musica nordafricana in senso ampio, è il “germe” che si trova nella decina di canzoni che finora i Melt Yourself Down hanno prodotto. La band ci ha detto che sta registrando il secondo disco: lo attendiamo con ansia.

 


Contenuti pubblicati originariamente sul numero di gennaio 2015 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: Einstürzende Neubauten – LAMENT. Teatro Manzoni, Bologna, 28 novembre 2014

Più che un live, una rappresentazione musicale, che non ha paura di essere teatro e di rivolgersi al cinema dell’epoca intorno alla Prima Guerra Mondiale. Gli Einstürzende Neubauten raccontano il conflitto di un secolo fa con senso della narrazione e capacità tecnica stupefacenti. Oltre alle tracce finite in LAMENT (il disco), due bis “a tema”: “Let’s Do It a Da Da” e “Ich Gehe Jetz”.

Foto di https://ultimavisione.wordpress.com/

Un quartetto d’archi, un tastierista e cinque uomini in nero, qualcuno scalzo: ecco il cast dello spettacolo dal quale è tratto LAMENT, per chi vi scrive uno dei dischi più importanti dell’anno appena concluso. Un disco la cui musica nasce per lo spettacolo, anzi, per la prima del sei novembre scorso a Diksmuide, in Belgio: più che un “semplice” concerto, il live di Blixa Bargeld, N. U. Unruh, Alexander Hacke, Jochen Arbeit, Rudolf Moser, Felix Gebhard e Jan Tillman Schade è una rappresentazione, in cui è fondamentale il ruolo delle musiche tanto quello delle luci, così come la gestione del palco.

Il fondo è un telo bianco, davanti al quale viene messo in scena il racconto tragico e spietato del primo conflitto mondiale. Gli EN, insieme a musicisti scelti di volta in volta nei Paesi in cui il tour ha fatto tappa, ci rendono partecipi della costruzione dello spettacolo: non c’è quasi backstage e quindi i laminati metallici, i tubi, le latte e le catene, da sempre nell’arsenale del gruppo, sono visibili nelle mani dei tecnici che agilmente costruiscono “il Leviatano”.

Foto di https://www.musiculturaonline.it/

È così che Bargeld, in più di un’intervista, ha chiamato l’insieme di metallo percosso, suonato, strofinato, strisciato e sbattuto: è il rumore della guerra, la “Kriegsmachinerie” con cui comincia lo spettacolo, un fragoroso e lancinante crescendo, parallelo all’aumento delle spese belliche che gli Stati approvarono negli anni antecedenti al 1914. LAMENT (tanto il live quanto il disco, ovviamente) rende esplicito il suo carattere narrativo (più che didattico o didascalico): Bargeld introduce diversi pezzi con brevi spiegazioni, spesso venate di nera ironia, talvolta enciclopedicamente precise nel fornire origini e criteri compositivi dei brani.

Il primo è strumentale, ma le parole appaiono su cartelli: in questo caso si tratta di didascalie che ci hanno ricordato, più che i corsivi sotto le foto di un libro di storia, quelle di un film muto. LAMENT è una rappresentazione musicale e teatrale, che talvolta tende al cinema dell’epoca: quando le luci diventano blu o seppia, pare di essere tornati ai viraggi nei film degli anni che si srotolano davanti a noi in un 4/4 a 120 bpm (“Ogni giorno è un battito”, spiega Blixa), ritmati dal filo spinato (percosso e usato come unico accompagnamento in “In De Loopgraaf”), segnati dal ticchettare di stampelle (elettrificate e rese strumenti in “Achterland”), riprodotti su vecchi acetati.

Questo live degli Einstürzende Neubauten, magistrale da ogni punto di vista, è un’esperienza tra le più intense che una band abbia creato negli ultimi tempi.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di gennaio 2015 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: Cymbals Eat Guitars – LOSE

Cymbals Eat Guitars – LOSE (Barsuk)

7,5

L’inizio del terzo album della band di Staten Island ci riporta al bell’esordio del 2009 Why There Are Mountains: “Jackson”, infatti, ricorda molto “… And the Hazy Sea”, per la sua lunghezza, per come gioca con dinamiche e cambi armonici, per l’epicità diffusa.

Ma in questo nuovo LOSE i Cymbals Eat Guitars semplificano le cose senza diminuire di potenza, e trovano un equilibrio tra strutture classiche e pezzi più articolati; “Chambers” ne è la prova, combinando un incipit molto radiofonico (basso pulsante inquadrato sulla batteria, sui quali si adagiano accordi di chitarra), con uno svolgimento assai poco banale e con dei testi intensi e centrati sul tema ricorrente del disco: la perdita della giovinezza.

Che ce ne parli un venticinquenne potrebbe sembrare quanto meno bizzarro, ma Joseph D’Agostino racconta dell’adolescenza nel New Jersey, di amici scomparsi, di bulli puniti dal fato, del seppellimento di animali domestici e di violenze familiari con una naturalezza e un’intensità lodevoli.

Se in “XR” compare una fisarmonica alla Dylan, i riferimenti musicali ricorrenti sono Pavement, Modest Mouse, Shins, Elliott Smith e Death Cab for Cutie, nomi che, dopo l’ascolto di LOSE, appaiono ancora più “classici” di quanto già non siano: i Cymbals Eat Guitars ci ricordano che, per quanto poco utili siano le etichette, può avere ancora senso parlare di un “canone” dell’indie-rock-statunitense.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di ottobre 2014 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: Cold Specks – Neuroplasticity

Cold Specks – Neuroplasticity (Mute)

6,5

Sulla carta i Cold Specks sono la band dove milita Al Spx, una canadese ventiseienne che vive a Londra: in realtà i Cold Specks sono (almeno, in buona parte) la voce di Al Spx, scelta da Moby per il primo singolo di Innocents e da Michael Gira per “Bring the Sun”, che compare nell’ultimo To Be Kind degli Swans. E come dare loro torto?

Già dal primo disco I Predict a Graceful Expulsion ci eravamo accorti dello splendore del suo timbro, vibrante, sensuale, ma non stucchevole: rispetto al debutto voce e atmosfere si fanno più cupe, più doom che soul, per riprendere una definizione spacciata dalla stessa Al Spx, alla quale si potrebbe accostare il neologismo (un po’ cacofonico, a dire il vero) gothpel.

Le canzoni sono spesso interessanti, anche grazie ai contributi di Gira alla voce (in “A Season of Doubt” e “Exit Plan”) e del trombettista Ambrose Akinmusire (che aveva chiamato Al Spx per il suo The Imagined Savior is Far Easier to Paint), che contribuisce a spargere inquietudine e mistero. È forse il disco nel suo complesso che, alla lunga, può stancare: la noia faceva capolino anche nel lavoro precedente, ma per quanto l’attenzione dell’ascoltatore si mantenga più alta e costante, i cambi di tempo, gli arrangiamenti spesso non banali e gli ospiti illustri non bastano per fare di Neuroplasticity il grande album che poteva essere.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di settembre 2014 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: Black Sabbath, Unipol Arena, Casalecchio di Reno (BO) – 18 giugno 2014

 

Black Sabbath Bologna 2014Dopo l’annullamento della data di Milano, i Black Sabbath riempiono il Palasport di Casalecchio proponendo un live potente, dall’impatto visivo tutto sommato sobrio, ma efficace. C’è la musica e la presenza. E una scaletta che guarda al primo lustro di produzione della band, o poco più.

“I can’t fuckin’ hear you”, ripete infinite volte Ozzy Osbourne agli undicimila che affollano il palasport alle porte di Bologna: insieme a lui i fedeli Geezer Butler al basso e Tony Iommi alla chitarra, dietro il tecnicissimo e potente Tommy Klufetos, batterista tra gli altri anche di Rob Zombie e dello stesso Ozzy. Il leader di una delle band più influenti e importanti degli ultimi cinquant’anni o giù di lì cerca continuamente il coinvolgimento della folla, non sempre caldissima, per quanto estasiata di vedere tre quarti dei Black Sabbath suonare bene per un’ora e quaranta.

A partire da “Iron Man”, per finire con “Paranoid”, impressiona infatti vedere quanto la band regga la prova con il tempo. La scaletta percorre i primi titoli della discografia degli inglesi, scegliendo tra le ultime canzoni solo il primo singolo di 13, “God Is Dead”: un’anomalia, confrontando le setlist di questo tour. Ma è confermato, anche nell’unica data italiana, il trittico “Black Sabbath”, “Behind the Wall of Sleep” e “N.I.B.”: una triade che segna il picco assoluto del concerto, suonata benissimo e cantata bene.

Già, perché, se proprio vogliamo trovare un problema, sta nella voce di Ozzy, ovviamente, spesso non all’altezza (anche nel senso proprio di intonazione) delle prove degli altri tre, davvero eccellenti. D’altro canto, l’ex-macellaio di Birmingham non è mai stato un cantante vero, no? Fa quello che deve fare: compare vestito di nero mantello, che abbandona presto, introduce “Snowblind” (quella che fa cantare a tutti “Cocaine”) rassicurandoci che quelle cose non le fa più, agita le braccia (non proprio agilmente), abusa di f-words, ci dice che siamo i numeri uno. E ripete che non ci sente urlare abbastanza, appunto. Arriva quasi a essere minaccioso, verso la fine del live: ma quando parte “Children of the Grave”, non c’è bisogno che ci ordini che dobbiamo diventare matti. Lo diventiamo.

Un “Let’s go fuckin’ crazy” introduce anche “Paranoid”: no, a dire la verità la canzone, creata come riempitivo del secondo album e diventata il più grande successo della band, è preceduta dall’intro di “Sabbath Bloody Sabbath”. Come a dire: “Abbiamo un repertorio talmente vasto di grandi pezzi che possiamo farne ciò che vogliamo”. Chapeau.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di luglio 2014 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: Veivecura – Goodmorning Utopia

Veivecura – Goodmorning Utopia (La Vigna Dischi), 15 maggio 2014

7,5

Chissà cos’è successo di felice al siciliano Davide Iacono: il titolare del nome Veivecura, infatti, ha pubblicato quattro anni fa Sic Volvere Parcas, primo capitolo piuttosto scuro di una trilogia che è proseguita nel 2012 con le aperture di Tutto è vanità e si conclude oggi con Goodmorning Utopia. Ce lo chiediamo perché i toni di questo ultimo bel disco sono decisamente più solari e pacificati di quanto siamo stati abituati a sentire. Costruito intorno a sei canzoni più tre suite divise in parti e intitolate “Utopia”, l’album si concede derive decisamente più libere e leggere del solito, come in “Utopia I-II-III” dove compare anche un sax, o nella riuscita (e pop) “Oxymoron”.

Nel disco si colgono i segnali della maturità del suo principale artefice, che ha costruito in questi anni una narrazione non banale e decisamente sui generis. Sì, il modello è quello in filigrana di band diversissime tra loro, come per esempio Sigur Rós, Explosions in the Sky e Goodspeed! You Black Emperor: una lenta sovrapposizione di linee melodiche (qui affidate a voce, piano e chitarra e supportate da archi e fiati) che conducono a un climax e quindi (spesso) a una ripresa calma del tema iniziale. Tuttavia Iacono ha misura, sia nelle singole canzoni che nel disco stesso, che, tracciando un percorso ragionato e concettuale, ma non cerebrale, affascina e riscalda.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di luglio 2014 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: Bo Ningen – III

Bo Ningen – III (Stolen Recordings), 12 maggio 2014

6,5

C’è più psichedelia nel pur ricco elenco di ingredienti a cui attinge la musica dei Bo Ningen, quartetto giapponese di stanza a Londra: si intuiva qualcosa già dall’uscita di “DaDaDa”, uno dei brani più interessanti, nonché apertura, di III. Poliritmico, con voci che si intersecano e si richiamano, fa pensare agli Animal Collective, ma non è questa l’unica direttiva del terzo album della band, non così lontano dal precedente Line the Wall. Per esempio ritorna la voce di Jehnny Beth delle Savages, in “CC”, uno dei due brani in inglese (sì, per la prima volta un album dei Bo Ningen non è tutto in giapponese); l’altro è la bella “Silder”, dove canta Roger Robinson dei King Midas Sound.

I pezzi ci sono: a parte la noia di “Ogosokana” e i nove minuti di “Mukaeni Ikenai”, una malriuscita deriva verso i connazionali Mono, i Bo Ningen frullano bene kraut e space rock, accenni dub a episodi stoner, noise e garage. La miscela è buona, ma talvolta si viene colti da un senso di sazietà, per così dire. È il disco nel suo intero a risultare a tratti stancante: un aggettivo che sembra non appartenere ai live della band, a detta di tutti trascinanti. Ecco, canzone per canzone lo è anche questo album: ma arrivati alla fine, a quasi un’ora dal promettente antipasto, si è talmente pieni da temere anche la leggendaria sfoglia-mentina dei Monty Python.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di maggio 2014 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: PAUS – Clar​ã​o

Paus – Clarão (El Segell del Primavera), 31 marzo 2014
7,5

Il secondo disco dei portoghesi Paus nasce sotto l’egida del prestigioso Primavera Sound, che ha ospitato per due edizioni di seguito i musicisti di Lisbona e che fa uscire questo album sotto la sua etichetta. Il quartetto ha una peculiarità: ci sono due batteristi che suonano lo stesso set (“siamese”, con la cassa in comune) uno di fronte all’altro. Clarão, però, non è un disco di puri ritmi, sebbene i battiti siano al centro delle dieci tracce che lo compongono. E non è neanche un album strumentale, per quanto le voci siano filtrate, spezzettate, usate come suoni in mezzo a chitarre, bassi e synth.

I Paus fanno rock come se fosse musica elettronica e viceversa: le canzoni, dalla struttura liquida e mutevole, sono rutilanti e rumorose, con cambi di tempo e ricchi fill-in. Sebbene ricordino band come Battles, Blk Jks, Tortoise e Fuck Buttons, i portoghesi ci mettono decisamente del loro, inserendo nel disco ritmiche poco occidentali: tuttavia i Paus non si abbandonano del tutto a tropicalismi o derive afrobeat. Nelle menti e nelle braccia dei componenti della band sono ben presenti i volumi e l’attitudine punk-hardcore, terreno comune dei musicisti. Il risultato è un ibrido molto interessante che sospettiamo sia ancora più efficace dal vivo: questa prima pubblicazione in Italia anticipa un imminente tour nel nostro Paese. Non perderemo i loro concerti.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di gennaio 2015 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: Kisses from Mars – Not Yet

Kisses from Mars – Not Yet (New Model Label), 25 marzo 2014
7

Dopo due ep e un album (Birth of A New Childhood, del 2012) i ravennati Kisses from Mars si confermano con Not Yet una realtà coraggiosa e ambiziosa, per quanto immaginiamo (da ciò che abbiamo visto in rete) che la band dal vivo abbia un valore aggiunto notevole, grazie ai visual di Silvia Bigi e le coreografie e installazioni di Chiara Gamberini. L’album, con i dieci minuti dell’apertura “Dissolves”, mette subito le cose in chiaro: la voce di Massimiliano Gardini entra solo poco prima di metà pezzo, le chitarre e i synth di Luca Baldini rimandano allo shoegaze, ma non hanno paura di tornare all’inquietudine che scorreva sottile e costante nel post-rock di un paio di decenni fa.

Richiedono tempo, i Kisses from Mars, e un ascoltatore attento, concentrato e disponibile affinché i sei lunghi brani del disco gli si stratifichino lentamente intorno, stringendolo in una morsa di tensione e malinconia. Le dinamiche non si accontentano di crescere e esplodere: spesso c’è un su e giù continuo e pericoloso, perché se l’album si aggancia all’ascoltatore (e le possibilità ci sono, eccome) è fatta, altrimenti si rischia di arrivare ai quindici minuti della title-track che chiude il disco un po’ annoiati, più che tesi. Insomma, un lavoro per pochi (ma buoni), che necessita impegno nel riceverlo, tanto quanto è stato messo nell’idearlo.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di settembre 2014 de Il Mucchio Selvaggio

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