mucchio selvaggio

Dagli archivi: Cymbals Eat Guitars – LOSE

Cymbals Eat Guitars – LOSE (Barsuk)

7,5

L’inizio del terzo album della band di Staten Island ci riporta al bell’esordio del 2009 Why There Are Mountains: “Jackson”, infatti, ricorda molto “… And the Hazy Sea”, per la sua lunghezza, per come gioca con dinamiche e cambi armonici, per l’epicità diffusa.

Ma in questo nuovo LOSE i Cymbals Eat Guitars semplificano le cose senza diminuire di potenza, e trovano un equilibrio tra strutture classiche e pezzi più articolati; “Chambers” ne è la prova, combinando un incipit molto radiofonico (basso pulsante inquadrato sulla batteria, sui quali si adagiano accordi di chitarra), con uno svolgimento assai poco banale e con dei testi intensi e centrati sul tema ricorrente del disco: la perdita della giovinezza.

Che ce ne parli un venticinquenne potrebbe sembrare quanto meno bizzarro, ma Joseph D’Agostino racconta dell’adolescenza nel New Jersey, di amici scomparsi, di bulli puniti dal fato, del seppellimento di animali domestici e di violenze familiari con una naturalezza e un’intensità lodevoli.

Se in “XR” compare una fisarmonica alla Dylan, i riferimenti musicali ricorrenti sono Pavement, Modest Mouse, Shins, Elliott Smith e Death Cab for Cutie, nomi che, dopo l’ascolto di LOSE, appaiono ancora più “classici” di quanto già non siano: i Cymbals Eat Guitars ci ricordano che, per quanto poco utili siano le etichette, può avere ancora senso parlare di un “canone” dell’indie-rock-statunitense.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di ottobre 2014 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: Cold Specks – Neuroplasticity

Cold Specks – Neuroplasticity (Mute)

6,5

Sulla carta i Cold Specks sono la band dove milita Al Spx, una canadese ventiseienne che vive a Londra: in realtà i Cold Specks sono (almeno, in buona parte) la voce di Al Spx, scelta da Moby per il primo singolo di Innocents e da Michael Gira per “Bring the Sun”, che compare nell’ultimo To Be Kind degli Swans. E come dare loro torto?

Già dal primo disco I Predict a Graceful Expulsion ci eravamo accorti dello splendore del suo timbro, vibrante, sensuale, ma non stucchevole: rispetto al debutto voce e atmosfere si fanno più cupe, più doom che soul, per riprendere una definizione spacciata dalla stessa Al Spx, alla quale si potrebbe accostare il neologismo (un po’ cacofonico, a dire il vero) gothpel.

Le canzoni sono spesso interessanti, anche grazie ai contributi di Gira alla voce (in “A Season of Doubt” e “Exit Plan”) e del trombettista Ambrose Akinmusire (che aveva chiamato Al Spx per il suo The Imagined Savior is Far Easier to Paint), che contribuisce a spargere inquietudine e mistero. È forse il disco nel suo complesso che, alla lunga, può stancare: la noia faceva capolino anche nel lavoro precedente, ma per quanto l’attenzione dell’ascoltatore si mantenga più alta e costante, i cambi di tempo, gli arrangiamenti spesso non banali e gli ospiti illustri non bastano per fare di Neuroplasticity il grande album che poteva essere.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di settembre 2014 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: Black Sabbath, Unipol Arena, Casalecchio di Reno (BO) – 18 giugno 2014

 

Black Sabbath Bologna 2014Dopo l’annullamento della data di Milano, i Black Sabbath riempiono il Palasport di Casalecchio proponendo un live potente, dall’impatto visivo tutto sommato sobrio, ma efficace. C’è la musica e la presenza. E una scaletta che guarda al primo lustro di produzione della band, o poco più.

“I can’t fuckin’ hear you”, ripete infinite volte Ozzy Osbourne agli undicimila che affollano il palasport alle porte di Bologna: insieme a lui i fedeli Geezer Butler al basso e Tony Iommi alla chitarra, dietro il tecnicissimo e potente Tommy Klufetos, batterista tra gli altri anche di Rob Zombie e dello stesso Ozzy. Il leader di una delle band più influenti e importanti degli ultimi cinquant’anni o giù di lì cerca continuamente il coinvolgimento della folla, non sempre caldissima, per quanto estasiata di vedere tre quarti dei Black Sabbath suonare bene per un’ora e quaranta.

A partire da “Iron Man”, per finire con “Paranoid”, impressiona infatti vedere quanto la band regga la prova con il tempo. La scaletta percorre i primi titoli della discografia degli inglesi, scegliendo tra le ultime canzoni solo il primo singolo di 13, “God Is Dead”: un’anomalia, confrontando le setlist di questo tour. Ma è confermato, anche nell’unica data italiana, il trittico “Black Sabbath”, “Behind the Wall of Sleep” e “N.I.B.”: una triade che segna il picco assoluto del concerto, suonata benissimo e cantata bene.

Già, perché, se proprio vogliamo trovare un problema, sta nella voce di Ozzy, ovviamente, spesso non all’altezza (anche nel senso proprio di intonazione) delle prove degli altri tre, davvero eccellenti. D’altro canto, l’ex-macellaio di Birmingham non è mai stato un cantante vero, no? Fa quello che deve fare: compare vestito di nero mantello, che abbandona presto, introduce “Snowblind” (quella che fa cantare a tutti “Cocaine”) rassicurandoci che quelle cose non le fa più, agita le braccia (non proprio agilmente), abusa di f-words, ci dice che siamo i numeri uno. E ripete che non ci sente urlare abbastanza, appunto. Arriva quasi a essere minaccioso, verso la fine del live: ma quando parte “Children of the Grave”, non c’è bisogno che ci ordini che dobbiamo diventare matti. Lo diventiamo.

Un “Let’s go fuckin’ crazy” introduce anche “Paranoid”: no, a dire la verità la canzone, creata come riempitivo del secondo album e diventata il più grande successo della band, è preceduta dall’intro di “Sabbath Bloody Sabbath”. Come a dire: “Abbiamo un repertorio talmente vasto di grandi pezzi che possiamo farne ciò che vogliamo”. Chapeau.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di luglio 2014 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: Veivecura – Goodmorning Utopia

Veivecura – Goodmorning Utopia (La Vigna Dischi), 15 maggio 2014

7,5

Chissà cos’è successo di felice al siciliano Davide Iacono: il titolare del nome Veivecura, infatti, ha pubblicato quattro anni fa Sic Volvere Parcas, primo capitolo piuttosto scuro di una trilogia che è proseguita nel 2012 con le aperture di Tutto è vanità e si conclude oggi con Goodmorning Utopia. Ce lo chiediamo perché i toni di questo ultimo bel disco sono decisamente più solari e pacificati di quanto siamo stati abituati a sentire. Costruito intorno a sei canzoni più tre suite divise in parti e intitolate “Utopia”, l’album si concede derive decisamente più libere e leggere del solito, come in “Utopia I-II-III” dove compare anche un sax, o nella riuscita (e pop) “Oxymoron”.

Nel disco si colgono i segnali della maturità del suo principale artefice, che ha costruito in questi anni una narrazione non banale e decisamente sui generis. Sì, il modello è quello in filigrana di band diversissime tra loro, come per esempio Sigur Rós, Explosions in the Sky e Goodspeed! You Black Emperor: una lenta sovrapposizione di linee melodiche (qui affidate a voce, piano e chitarra e supportate da archi e fiati) che conducono a un climax e quindi (spesso) a una ripresa calma del tema iniziale. Tuttavia Iacono ha misura, sia nelle singole canzoni che nel disco stesso, che, tracciando un percorso ragionato e concettuale, ma non cerebrale, affascina e riscalda.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di luglio 2014 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: Bo Ningen – III

Bo Ningen – III (Stolen Recordings), 12 maggio 2014

6,5

C’è più psichedelia nel pur ricco elenco di ingredienti a cui attinge la musica dei Bo Ningen, quartetto giapponese di stanza a Londra: si intuiva qualcosa già dall’uscita di “DaDaDa”, uno dei brani più interessanti, nonché apertura, di III. Poliritmico, con voci che si intersecano e si richiamano, fa pensare agli Animal Collective, ma non è questa l’unica direttiva del terzo album della band, non così lontano dal precedente Line the Wall. Per esempio ritorna la voce di Jehnny Beth delle Savages, in “CC”, uno dei due brani in inglese (sì, per la prima volta un album dei Bo Ningen non è tutto in giapponese); l’altro è la bella “Silder”, dove canta Roger Robinson dei King Midas Sound.

I pezzi ci sono: a parte la noia di “Ogosokana” e i nove minuti di “Mukaeni Ikenai”, una malriuscita deriva verso i connazionali Mono, i Bo Ningen frullano bene kraut e space rock, accenni dub a episodi stoner, noise e garage. La miscela è buona, ma talvolta si viene colti da un senso di sazietà, per così dire. È il disco nel suo intero a risultare a tratti stancante: un aggettivo che sembra non appartenere ai live della band, a detta di tutti trascinanti. Ecco, canzone per canzone lo è anche questo album: ma arrivati alla fine, a quasi un’ora dal promettente antipasto, si è talmente pieni da temere anche la leggendaria sfoglia-mentina dei Monty Python.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di maggio 2014 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: PAUS – Clar​ã​o

Paus – Clarão (El Segell del Primavera), 31 marzo 2014
7,5

Il secondo disco dei portoghesi Paus nasce sotto l’egida del prestigioso Primavera Sound, che ha ospitato per due edizioni di seguito i musicisti di Lisbona e che fa uscire questo album sotto la sua etichetta. Il quartetto ha una peculiarità: ci sono due batteristi che suonano lo stesso set (“siamese”, con la cassa in comune) uno di fronte all’altro. Clarão, però, non è un disco di puri ritmi, sebbene i battiti siano al centro delle dieci tracce che lo compongono. E non è neanche un album strumentale, per quanto le voci siano filtrate, spezzettate, usate come suoni in mezzo a chitarre, bassi e synth.

I Paus fanno rock come se fosse musica elettronica e viceversa: le canzoni, dalla struttura liquida e mutevole, sono rutilanti e rumorose, con cambi di tempo e ricchi fill-in. Sebbene ricordino band come Battles, Blk Jks, Tortoise e Fuck Buttons, i portoghesi ci mettono decisamente del loro, inserendo nel disco ritmiche poco occidentali: tuttavia i Paus non si abbandonano del tutto a tropicalismi o derive afrobeat. Nelle menti e nelle braccia dei componenti della band sono ben presenti i volumi e l’attitudine punk-hardcore, terreno comune dei musicisti. Il risultato è un ibrido molto interessante che sospettiamo sia ancora più efficace dal vivo: questa prima pubblicazione in Italia anticipa un imminente tour nel nostro Paese. Non perderemo i loro concerti.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di gennaio 2015 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: Kisses from Mars – Not Yet

Kisses from Mars – Not Yet (New Model Label), 25 marzo 2014
7

Dopo due ep e un album (Birth of A New Childhood, del 2012) i ravennati Kisses from Mars si confermano con Not Yet una realtà coraggiosa e ambiziosa, per quanto immaginiamo (da ciò che abbiamo visto in rete) che la band dal vivo abbia un valore aggiunto notevole, grazie ai visual di Silvia Bigi e le coreografie e installazioni di Chiara Gamberini. L’album, con i dieci minuti dell’apertura “Dissolves”, mette subito le cose in chiaro: la voce di Massimiliano Gardini entra solo poco prima di metà pezzo, le chitarre e i synth di Luca Baldini rimandano allo shoegaze, ma non hanno paura di tornare all’inquietudine che scorreva sottile e costante nel post-rock di un paio di decenni fa.

Richiedono tempo, i Kisses from Mars, e un ascoltatore attento, concentrato e disponibile affinché i sei lunghi brani del disco gli si stratifichino lentamente intorno, stringendolo in una morsa di tensione e malinconia. Le dinamiche non si accontentano di crescere e esplodere: spesso c’è un su e giù continuo e pericoloso, perché se l’album si aggancia all’ascoltatore (e le possibilità ci sono, eccome) è fatta, altrimenti si rischia di arrivare ai quindici minuti della title-track che chiude il disco un po’ annoiati, più che tesi. Insomma, un lavoro per pochi (ma buoni), che necessita impegno nel riceverlo, tanto quanto è stato messo nell’idearlo.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di settembre 2014 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: MiceCars – A S I M O / I

MiceCars – A S I M O / I (Black Lodge), 24 febbraio 2014

7

Dieci anni fa un ep, quindi l’album I’m the Creature, premio Fuori dal Mucchio per il migliore esordio. Poi nulla fino allo scorso giugno, quando è comparsa “Volunteer”, ora posta a chiusura di A S I M O / I, l’atteso ritorno dei MiceCars. “You should not play with my heart tonight / And praise our love with another lie”, dice la canzone: le parole e il cantato in falsetto rimandano al 2004, ma Little P. e Peter T. (che suonano insieme ad Andrea Mancin, Oliviero Farneti, Pasquale Citera e Marco Caizzi) sono ancora più disillusi e amaramente ironici sin dall’apertura “Mutual Destruction Assistance”, che riporta alla sfera intima e relazionale l’annientamento reciproco paventato nell’era nucleare richiamato dal titolo.

Nell’album, prodotto dal duo insieme a Andrea Sologni, si percepisce un senso di isolamento e abbandono nei confronti di se stessi e dell’umanità. Un concetto su cui i MiceCars sperimentano a modo loro, per fortuna: se alcuni finali sono prolissi e stride un po’ il rap di “In da Ghetto”, convincono gli arrangiamenti su “Interlude”, i richiami “mellotronici” alla “Mr Kite” beatlesiana in “Sloth” e quel senso di torpore psichedelico à la MGMT, mischiato con l’Albarn più agrodolce, di cui il disco è intriso. I MiceCars sono tornati più disincantati, consapevoli della vita e della loro musica; questa maturazione in A S I M O / I si sente tutta. Attendiamo quindi il secondo capitolo, sempre simbolicamente ispirato al robottino della Honda.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di aprile 2014 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: Depeche Mode, Unipol Arena, Casalecchio di Reno (Bologna), 22 febbraio 2014

La band torna nel nostro Paese dopo le due date estive del luglio 2013: ecco quello che è accaduto nella terza e ultima serata italiana dell’European Winter Leg del tour di Delta Machine, a Bologna. Può bastare un grande nome, un frontman iconico e dei pezzi immortali per rendere un live indimenticabile?

Foto da Flickr @sybell3

Tre schermi con visual spesso di ottima qualità, file e file di luci, piattaforme e proiezioni: è imponente la scenografia del palco montato all’Unipol Arena di Casalecchio di Reno, appena fuori Bologna. Una delle venue indoor più capienti del Paese ospita i Depeche Mode per l’ultima data italiana del tour invernale di Delta Machine, dopo i concerti tenuti a Torino e Milano nei giorni immediatamente precedenti.

Il live è sold out, come il 99% delle date dei Depeche: più di undicimila persone sono pronte ad acclamare Dave Gahan, Martin Gore e Andy Fletcher, che salgono sul palco (insieme a Peter Gordeno e Christian Eigner) poco dopo le 21. L’inizio è dedicato all’ultimo album: “Welcome to My World” è una canzone che pare scritta anche come opener perfetto per il tour. Da quel momento in poi la scaletta (una ventina di tracce, uguali data dopo data in questa parte di tournée) è un mix calibratissimo di estratti dagli ultimi dischi e grandi classici, con una precisione matematica quasi prevedibile.

E forse la prevedibilità del set è uno dei punti dolenti del concerto bolognese della band: per quanto infatti i Depeche suonino bene (nonostante la pessima qualità del primo terzo di concerto) e concedano un paio di versioni alternative e remixate (“Halo” è notevole) non c’è un momento in cui si rimanga davvero sorpresi. Anche gli intermezzi acustici (“Slow” e “Blue Dress”) sono funzionali: lasciano il palco a Gore per fare riprendere fiato a Gahan, il vero protagonista della serata. Il frontman sfoggia anello con teschio e gilet nero d’ordinanza e, onore al merito, non si risparmia: suda copiosamente, struscia il pacco sull’asta del microfono, dirige il pubblico in cori infiniti su “Enjoy the Silence” e mostra tutto il repertorio da rockstar qual è.

Ma appunto è tutto come ci si aspetta, come se le quinte (nonostante la scenografia) fossero nascoste maldestramente e si percepisse il necessario lato “business” dello show a cui abbiamo assistito. I fan duri e puri dei Depeche non ce ne vogliano, ma ci aspettavamo qualcosa di più. O qualcosa di meno. Insomma, una sorpresa, che sia una, perché per quanto sia bello cantare insieme a migliaia di persone “Just Can’t Get Enough”, c’è un problema se si pensa che, a un certo punto, “enough is enough”.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di aprile 2014 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: Bombino + Above the Tree & Drum Ensemble Du Beat, Locomotiv Club, Bologna, 13 febbraio 2014

Una serata all’insegna di musiche ancestrali e desertiche, dei loro mescolamenti e delle loro naturali proiezioni, quella di giovedì 13 febbraio al Locomotiv Club di Bologna: due set del musicista tuareg, uno acustico e uno elettrico, e la nuova incarnazione di Above the Tree per oltre due ore di musica di buonissima qualità.

Bombino live

“È molto bello suonare in Italia”, dice Omara Moctar e forse il ringraziamento sentito del musicista va oltre il cliché, visto che il nome d’arte Bombino è la storpiatura del nostro “bambino”: Omara in effetti ha un viso giovanissimo, luminoso e felice, che pare non soffra il caldo del club che ospita una delle date italiane del tour invernale di Nomad, uscito l’anno scorso per la Nonesuch.

Prima dei musicisti tuareg, però, c’è spazio per un support act di tutto rispetto: Marco Bernacchia, cioè Above the Tree, presenta il nuovo album Cave_Man insieme a Enrico “Mao” Bocchini e Edoardo Grisogani. Above the Tree & Drum Ensemble Du Beat affascina il pubblico mischiando con intelligenza percussioni “primitive”, suggestioni tribali, linee di elettronica e chitarra, risultando originale e personale, antico e modernissimo allo stesso tempo.

Non poteva esserci introduzione migliore ai set di Bombino: insieme ai suoi tre musicisti, Moctar sale sul palco per un raffinato live acustico che mostra subito la padronanza che il nostro ha del suo strumento. Una chitarra che, già nell’introduzione al secondo brano, scivola verso il blues: il concerto svela da subito il leit motiv della serata, banalissimo a parole, ma non nei fatti. E cioè che dobbiamo all’Africa la stragrande maggioranza della musica che ascoltiamo.

Se, infatti, il primo set è più tradizionale, quando gli strumenti (due chitarre, basso, batteria) vengono collegati agli amplificatori, veniamo trasportati in un vortice che si allontana e torna continuamente al Sahara, sporcandosi di reggae e garage e, talvolta, diventando quel misto di blues e rock che ha fatto andare in brodo di giuggiole Dan Auerbach, produttore di Nomad, da cui proviene una buona parte dei brani in scaletta. I pezzi, rispetto al disco, si allargano e viaggiano liberi, vanno da ritmi in battere a quelli in levare; la chitarra di Bombino chiacchiera, urla, sputa grappoli di note che vibrano tra la musica tradizionale tuareg e tutte le contaminazioni attuate e subite in secoli di storia e migrazioni.

Talvolta, forse, c’è troppa indulgenza in alcune code o passaggi, ma quando uno è bravissimo a suonare è facile perdonare che possa provare piacere e divertimento nell’ascoltarsi tanto quanto chi lo acclama sotto il palco.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di marzo 2014 de Il Mucchio Selvaggio

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