Dagli archivi: Fufanu – Few More Days To Go
Fufanu – Few More Days To Go (One Little Indian)
6,5
Prima si chiamavano Captain Fufanu e facevano techno. Poi gli islandesi Hrafnkell Flóki Kaktus Einarsson e Guðlaugur Halldór Einarsson, meglio noti come Kaktus e Gulli, hanno lasciato da parte il Captain e le drum machine e nel 2014 si sono chiusi in studio a ripassare la musica più scura di fine anni Settanta e primi anni Ottanta, tra gothic rock, post-punk, new wave e industrial. E così i due hanno sfornato, tra lo scorso gennaio e oggi, una dozzina di canzoni che hanno trovato posto in un ep uscito quest’estate, un paio di singoli e, ovviamente, questo esordio: un album non male, intendiamoci, ma che soffre di alcuni difetti.
Da un lato, la monotonia e la lunghezza di pezzi (come l’apertura “Now”) che improvvise aperture armoniche e dinamiche non sempre riescono a salvare: meglio i brani più brevi, come “Your Collection” e “Blinking”, in cui si flirta apertamente con i Sonic Youth, o la movimentata “Plastic People”, che crea interessanti dissonanze tra chitarra, synth e voce. Dall’altro l’eccessivo legame con una serie di riferimenti, dai Joy Division ai Bauhaus, dai Killing Joke a Gary Numan, che porta spesso l’ascoltatore a inevitabili déjà-vu. Peccato, perché se ci fossero state in fase di composizione, arrangiamento e editing “a few more ideas”, per parafrasare il titolo del disco, l’esordio dei Fufanu ne avrebbe sicuramente giovato.
Recensione pubblicata originariamente sul numero di novembre 2015 de Il Mucchio Selvaggio
Sicuri che sia corretto definire i Puscifer come il mero divertissiment solista di Maynard James Keenan? In otto anni sono ormai usciti con questa sigla due live, tre ep, quattro album di remix e tre in studio, ognuno dei quali ha definito meglio il percorso cominciato con V for Vagina: se il debutto sembrava quasi uno scherzo, Conditions of My Parole ne era una versione più pacificata e contenuta. Quattro anni dopo, Money Shot è il risultato finora più coeso di questo cammino: tra alt-rock ed elettronica, tra bordate di chitarra distorte e schemi ritmici sintetici e liquidi, l’album gira intorno alla finitezza dell’uomo rispetto allo spazio e al tempo e ridicolizza la sua posizione nell’Universo.
Dopo sei anni di silenzio, l’MC Alexei Casselle e il produttore Stephen Lewis tornano con un album cupo e teso. Carnelian spinge ancora più in là l’approccio dei Kill the Vultures, che, fin dall’esordio del 2005, hanno scelto delle basi insolite sulle quali raccontare le proprie storie. In quest’ultimo capitolo della loro discografia hanno per lo più sostituito i campioni presi da cataloghi jazz (nel senso più ampio del termine) con partiture che coinvolgono di volta in volta archi, pianoforte, ottoni, flauto, vibrafono e percussioni; musiche appositamente scritte e fatte registrare, per poi essere smontate e rimontate al fine di comporre i beat sui quali si dipanano i cinquanta minuti scarsi di questo disco. Se da un lato c’è la volontà di fare piazza pulita, dall’altro è evidente la necessità di avere tutto sotto controllo, per creare il disco più completo e convincente dei quattro finora firmati dal duo di Minneapolis.
Allo shoegaze sporcato di alt-rock del pur riuscito disco d’esordio la band dalle plurime nazionalità di casa a Londra aggiunge tantissime contaminazioni, per lo più efficaci, sperimentate nei due recentissimi ep “Sonne” e “Murasaki”. Soprattutto quest’ultimo, con i suoi richiami letterari (Murasaki Shibitu è l’autrice di Genji Monogatari, capolavoro della letteratura giapponese) e con la ricchezza di suoni che lo contraddistingue, è la vera introduzione a “Mythologies”, il cui titolo è ripreso dalla nota raccolta di articoli di Roland Barthes sui miti del mondo contemporaneo. La partenza è affidata a “Red Lakes (Sternstunden)”, in cui le voci parlate e cantate si rincorrono sugli strati di suono marchio di fabbrica del quartetto.
Spoiler: ciò di cui ha bisogno il mondo ora è “a big fuck off”. La risposta al titolo del nuovo album in studio dei PiL è nella traccia di chiusura, l’unica che vira sull’elettronica delle undici di What The World Needs Now. Se in Shoom Lydon manda a quel paese in maniera prevedibile sesso, successo, contratti, botox (sic), arrotando le erre a più non posso e riassumendo in sei minuti e mezzo la parte più dance della storia del gruppo, nelle altre tracce torna musicalmente all’elettricità che in This Is PiL si era un persa in favore del versante dub.
Emanuele Bultrini, Paolo Pecorelli, Stefano Vicarelli e David Nerattini sono musicisti romani con un bel curriculum alle spalle: i primi tre suonano anche ne La Fonderia che, come questa neonata band, è principalmente strumentale. La Batteria si rifà alla musica italiana da film e da library prodotta tra la fine dei ’60 e i primi anni ’80: un periodo ultimamente più che sfruttato, a cui i musicisti guardano con fin troppo rispetto. Strumentazione d’epoca, progressioni armoniche filologicamente corrette e, tutto sommato, poche sorprese. Colpiscono “Chimera”, traccia iniziale con echi folk, e “Formula”, che si apre e si chiude con un synth quasi carpenteriano. Speriamo che le influenze più variegate di cui parla il comunicato stampa erompano con più coraggio in una seconda prova.
Anche nel secondo disco gli Zun Zun Egui spostano il baricentro della loro musica

L’inizio del terzo album della band di Staten Island ci riporta al bell’esordio del 2009
Sulla carta i Cold Specks sono la band dove milita Al Spx, una canadese ventiseienne che vive a Londra: in realtà i Cold Specks sono (almeno, in buona parte) la voce di Al Spx, scelta da Moby per il primo singolo di Innocents e da Michael Gira per “Bring the Sun”, che compare nell’ultimo To Be Kind degli Swans. E come dare loro torto?