mucchio selvaggio

Dagli archivi: Fufanu – Few More Days To Go

Fufanu – Few More Days To Go (One Little Indian)

6,5

fufano few more days to goPrima si chiamavano Captain Fufanu e facevano techno. Poi gli islandesi Hrafnkell Flóki Kaktus Einarsson e Guðlaugur Halldór Einarsson, meglio noti come Kaktus e Gulli, hanno lasciato da parte il Captain e le drum machine e nel 2014 si sono chiusi in studio a ripassare la musica più scura di fine anni Settanta e primi anni Ottanta, tra gothic rock, post-punk, new wave e industrial. E così i due hanno sfornato, tra lo scorso gennaio e oggi, una dozzina di canzoni che hanno trovato posto in un ep uscito quest’estate, un paio di singoli e, ovviamente, questo esordio: un album non male, intendiamoci, ma che soffre di alcuni difetti.

Da un lato, la monotonia e la lunghezza di pezzi (come l’apertura “Now”) che improvvise aperture armoniche e dinamiche non sempre riescono a salvare: meglio i brani più brevi, come “Your Collection” e “Blinking”, in cui si flirta apertamente con i Sonic Youth, o la movimentata “Plastic People”, che crea interessanti dissonanze tra chitarra, synth e voce. Dall’altro l’eccessivo legame con una serie di riferimenti, dai Joy Division ai Bauhaus, dai Killing Joke a Gary Numan, che porta spesso l’ascoltatore a inevitabili déjà-vu. Peccato, perché se ci fossero state in fase di composizione, arrangiamento e editing “a few more ideas”, per parafrasare il titolo del disco, l’esordio dei Fufanu ne avrebbe sicuramente giovato.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di novembre 2015 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: Puscifer – Money Shot

Puscifer – Money Shot (Puscifer Entertainment)

6

puscifer money shotSicuri che sia corretto definire i Puscifer come il mero divertissiment solista di Maynard James Keenan? In otto anni sono ormai usciti con questa sigla due live, tre ep, quattro album di remix e tre in studio, ognuno dei quali ha definito meglio il percorso cominciato con V for Vagina: se il debutto sembrava quasi uno scherzo, Conditions of My Parole ne era una versione più pacificata e contenuta. Quattro anni dopo, Money Shot è il risultato finora più coeso di questo cammino: tra alt-rock ed elettronica, tra bordate di chitarra distorte e schemi ritmici sintetici e liquidi, l’album gira intorno alla finitezza dell’uomo rispetto allo spazio e al tempo e ridicolizza la sua posizione nell’Universo.

Argomenti tipici di alcuni testi di Tool e A Perfect Circle: e anche in queste vesti Keenan mostra il suo approccio lirico unico, con momenti di humour scurissimo e cupamente surreale. È musicalmente che il confronto non regge: per quanto in quest’ultima fatica si noti – in parti spesso preminenti – la bella voce di Carina Round, valorizzata a dovere dalla produzione di Mat Mitchell, brani ben costruiti come Galileo, la title track e Grand Canyon si alternano a momenti un po’ troppo prevedibili, appesantiti dalla ripetizione di formule timbriche e dinamiche. Il rischio, insomma, è di sfiorare qualcosa che da Keenan proprio non ci aspetteremmo mai: la convenzionalità.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di dicembre 2015 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: Kill the Vultures – Carnelian

Kill the Vultures – Carnelian (Totally Gross National Product)

8

Altri ascolti raccomandati
cLOUDDEAD – s/t
Kill the Vultures – The Careless Flame
Brandt Brauer Frick – Miami

Dopo sei anni di silenzio, l’MC Alexei Casselle e il produttore Stephen Lewis tornano con un album cupo e teso. Carnelian spinge ancora più in là l’approccio dei Kill the Vultures, che, fin dall’esordio del 2005, hanno scelto delle basi insolite sulle quali raccontare le proprie storie. In quest’ultimo capitolo della loro discografia hanno per lo più sostituito i campioni presi da cataloghi jazz (nel senso più ampio del termine) con partiture che coinvolgono di volta in volta archi, pianoforte, ottoni, flauto, vibrafono e percussioni; musiche appositamente scritte e fatte registrare, per poi essere smontate e rimontate al fine di comporre i beat sui quali si dipanano i cinquanta minuti scarsi di questo disco. Se da un lato c’è la volontà di fare piazza pulita, dall’altro è evidente la necessità di avere tutto sotto controllo, per creare il disco più completo e convincente dei quattro finora firmati dal duo di Minneapolis.

Il titolo, tradotto, vuol dire “corniola”: è una pietra – ci insegna Wikipedia – dalla forte valenza allegorica, in particolare per gli Egizi: nei loro culti simboleggiava la vita ed era indispensabile per garantire ai defunti il passaggio tra i due mondi. Di riferimenti a questa transizione il disco è pieno, a cominciare da The River, in cui le parole di Crescent Moon – accompagnate da campane e contrabbasso – si muovono suadenti per narrare in maniera astratta e figurata uno stato tra la vita e la morte molto più quotidiano di quanto possa sembrare. I Kill the Vultures raccontano, non denunciano; declamano, non divertono. Da sempre. La sfida è quella di entrare nel loro mondo, notturno e minaccioso, descritto da immagini fortemente allegoriche (“Nothing but a white wall, lightbulb and a serpent”, nella citata The River), in cui il diavolo “danza sotto i lampioni” (Topsoil). Il senso di morte è a tratti opprimente e domina uno dei pezzi chiave del disco, quella Coins on the Open Eyes, dove il testo ripete il titolo nel ritornello, aggiungendoflies in the open mouth” e si chiede, sardonico, se un boia “ever gets stage fright”.

Sebbene i richiami al jazz ci siano (l’inizio di Simmer in questo è chiaro), le musiche di Carnelian si rifanno a melodie e armonie tipiche della cosiddetta avanguardia, sin dal singolo – e prima traccia dell’album – Shake Your Bones: le improvvisazioni che la chiudono si rincorrono sui registri più alti di archi e ottoni e fanno scivolare l’ascoltatore nel clima di tensione che vivrà per i successivi quaranta minuti. Tuttavia, per quanto “avant” o “sperimentali” possano essere considerati, i Kill the Vultures fanno comunque hip-hop e in questa ultima produzione non si rinuncia del tutto ai tratti più riconoscibili del genere, pur personalizzandoli. Il flow non è mai virtuosistico in termini di velocità o di metrica interna: ha un andamento solenne e declamatorio, è sicuro nel descrivere storie allo stesso tempo note e difficilmente riconducibili in maniera inequivocabile a scenari reali.

Eppure non è difficile rintracciare certi temi abituali della doppia H – razzismo, potere, denaro, crimine – lungo le dozzina di tracce del disco: in Vandal tutto ciò è più esplicito che in altri pezzi, ma le parole in Carnelian, dal potente senso immaginifico, lasciano all’ascoltatore la decisione di entrare nel mondo quasi orrorifico che si crea e il successivo piacere di definirne i dettagli. Non c’è la chiamata alle armi strombazzata da ritornelli da stadio, l’affiliazione sfacciata a cui brama, tra un ammiccamento e l’altro, il rap più comune e diffuso. Allo stesso modo le basi di Smoke in the Temple e del dittico finale Amnesia / The Last Time evocano strutture hip-hop usando altri mezzi rispetto ai beat pompati e compressi, senza mai fare sentire la mancanza di un uso massiccio di macchine e campionatori. E c’è spazio anche per filastrocche letteralmente agghiaccianti come quella di Crown, un girotondo allucinato di gemiti, pianoforte e batteria, il momento più estremo di un album davvero riuscito.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di dicembre 2015 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: Cheatahs – Mythologies

Cheatahs – Mythologies (Wichita Recordings)

7,5

 Cheatahs - MythologiesAllo shoegaze sporcato di alt-rock del pur riuscito disco d’esordio la band dalle plurime nazionalità di casa a Londra aggiunge tantissime contaminazioni, per lo più efficaci, sperimentate nei due recentissimi ep “Sonne” e “Murasaki”. Soprattutto quest’ultimo, con i suoi richiami letterari (Murasaki Shibitu è l’autrice di Genji Monogatari, capolavoro della letteratura giapponese) e con la ricchezza di suoni che lo contraddistingue, è la vera introduzione a “Mythologies”, il cui titolo è ripreso dalla nota raccolta di articoli di Roland Barthes sui miti del mondo contemporaneo. La partenza è affidata a “Red Lakes (Sternstunden)”, in cui le voci parlate e cantate si rincorrono sugli strati di suono marchio di fabbrica del quartetto.

Ma è dal terzo pezzo, “In Flux”, che i Cheatahs ci danno davvero dentro: il ritmo motorik su cui poggia questo brano sorprende (anche se ce lo si potrebbe aspettare dal batterista Marc Raue, tedesco) e lancia l’album verso territori sperimentali, che mischiano l’ambient con i suoni di chitarra e i synth con aromi psichedelici. La scaletta è una trovata dopo l’altra in cui un uso intelligente di rumore elettrico, nastri, voci al contrario si sposano a soluzioni ritmiche non scontate. E c’è una sequenza, che comprende “Colorado”, “Su-pra”, il travolgente singolo “Seven Sisters”, la già citata “Murasaki” e “Mysteci”, davvero memorabile.

 

Recensione pubblicata originariamente sul numero di ottobre 2015 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: Public Image Ltd. – What the World Needs Now

Public Image Ltd. – What the World Needs Now (PiL Official)

7

Altri ascolti raccomandati
Public Image Ltd. – The Flowers of Romance
David Bowie – Let’s Dance
The Pop Group – Citizen Zombie

Public Image Ltd. - What the World Needs NowSpoiler: ciò di cui ha bisogno il mondo ora è “a big fuck off”. La risposta al titolo del nuovo album in studio dei PiL è nella traccia di chiusura, l’unica che vira sull’elettronica delle undici di What The World Needs Now. Se in Shoom Lydon manda a quel paese in maniera prevedibile sesso, successo, contratti, botox (sic), arrotando le erre a più non posso e riassumendo in sei minuti e mezzo la parte più dance della storia del gruppo, nelle altre tracce torna musicalmente all’elettricità che in This Is PiL si era un persa in favore del versante dub.

Molti testi hanno un taglio “autobiografico”, ma non aspettatevi chissà quali confessioni: non saranno quelle a stupirvi, quanto i coretti “auuu” in The One (questa è una canzone d’amore) e le celestiali aperture armoniche in Big Blue Sky (non c’entrano gli ELO: il cielo del titolo è “quello che vedrò quando morirò”). Due brani che stridono se confrontati con la coppia formata dal potente singolo Double Trouble e dalla caustica B-side Betty Page, in cui c’è una specie di parodia del Bowie di Let’s Dance e gli USA (tornati a sorridere al Duca Bianco nei primi anni ’80, proprio quando Lydon era ai ferri corti con il membro fondatore Levene) vengono definiti “the most pornographic country of the world”. Probabilmente Lydon un po’ ci fa e un po’ ci è con queste uscite: tuttavia, pur invecchiando, diverte; meno quando va sull’autobiografico.

La scaletta infatti piazza di fila due doppiette tematicamente un po’ scontate: la prima formata dalla litanica C’est la Vie e da Spice of Choice (dove ovviamente la choice è of life); la seconda da Whole Life Time e I’m Not Satisfied (“Then the drugs to ease the pain, but the drugs didn’t work and I’m back again”). Però la musica funziona: d’altro canto se l’album è il primo in assoluto nella storia della band in cui l’organico (il chitarrista Lu Edmonds, Bruce Smith alla batteria, Scott Firth al basso e Steve Winwood alla produzione) è lo stesso del disco che lo precede, qualcosa vorrà pur dire.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di settembre 2015 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: La Batteria – ST

La Batteria – ST (Penny Records)

6

la batteriaEmanuele Bultrini, Paolo Pecorelli, Stefano Vicarelli e David Nerattini sono musicisti romani con un bel curriculum alle spalle: i primi tre suonano anche ne La Fonderia che, come questa neonata band, è principalmente strumentale. La Batteria si rifà alla musica italiana da film e da library prodotta tra la fine dei ’60 e i primi anni ’80: un periodo ultimamente più che sfruttato, a cui i musicisti guardano con fin troppo rispetto. Strumentazione d’epoca, progressioni armoniche filologicamente corrette e, tutto sommato, poche sorprese. Colpiscono “Chimera”, traccia iniziale con echi folk, e “Formula”, che si apre e si chiude con un synth quasi carpenteriano. Speriamo che le influenze più variegate di cui parla il comunicato stampa erompano con più coraggio in una seconda prova.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di febbraio 2015 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: Zun Zun Egui – Shackles’ Gift e intervista a Kushal Gaya

Zun Zun Egui – Shackles’ Gift (Bella Union)

7

Altri ascolti raccomandati
Zun Zun Egui – Katang
Melt Yourself Down – S/T
Talking Heads – Fear of Music

Anche nel secondo disco gli Zun Zun Egui spostano il baricentro della loro musica lontano dall’Europa, pur non dimenticandosi della terra britannica che li ha fatti incontrare. Kushal Gaya (voce e chitarra), Matthew Jones (batteria e percussioni), Yoshino Shigihara (tastiere), e i nuovi acquisti Adam Newton (basso) e Stephen Kerrison (chitarra) riversano nelle nove tracce dell’album tantissime suggestioni, come era accaduto nel primo disco, ma con maggiore maturità e consapevolezza. Da un lato c’è un passo avanti rispetto a Katang (Bella Union, 2011), dall’altro Shackles’ Gift soffre di alcuni momenti di pesantezza.

Le chitarre sono in primo piano: spesso tendono al noise, con corde tiratissime e suoni distorti appoggiati su ritmiche massicce e serrate, che vagano tra sapori tropicali, quadrature rock e fantasie venate di dub e “irregolarità” africaneggianti. Si sente la mano del produttore Andrew Hung dei Fuck Buttons nell’uso dei tempi e, chiaramente, quando compare l’elettronica (vedi il finale di “The Sweetest Part of Life”). Tuttavia il vero motore della band è il dotatissimo leader Gaya, in prima linea anche nei Melt Yourself Down. Il musicista, nato e cresciuto in Madagascar, ha fatto tesoro della prospettiva unica che si acquista tornando nei luoghi della formazione dopo avere vissuto altrove per diversi anni, nel suo caso tra Londra e Bristol (vedi intervista a pag. XX). La distanza ha permesso di scoprire nuove storie del suo popolo e nuove musiche, prontamente incluse nell’album.

“Soul Scratch” è una canzone seggae, un neonato genere musicale dell’arcipelago tra Africa e Asia che mette insieme la sega (musica popolare mauriziana) e il reggae. “Late Bloomer” è uno degli episodi più trascinanti del disco, dove la matrice tropicale è in primo piano. Tuttavia ci sono episodi decisamente più “occidentali”, come “Ruby” o il secondo singolo “African Tree”, dove, a dispetto del titolo, tornano momenti quasi stoner che facevano parte anche del ricettario dell’esordio.


Il debutto degli Zun Zun Egui, Katang(Bella Union, 2011), è stato uno dei dischi più interessanti usciti di recente. Inclassificabile dal punto dei vista dei generi, mischiava rock, dub, afro, indie con risultati sorprendentemente omogenei e personali: la band portava l’ascoltatore in lande riconosciute e riconoscibili solo in apparenza. Le canzoni erano il risultato di ingredienti noti, ma mischiati in maniera sapiente al fine di dare risultati inediti e freschi. Ecco un aggettivo ambitissimo che la band, originariamente di base a Bristol, può fare suo senza discussioni: un obiettivo raggiunto in maniera assai poco scontata, considerando che la pratica del crossover è ormai comune da tempo nella musica in toto. Eppure gli Zun Zun Egui sono riusciti a mescolare in maniera convincente la musica ascoltata e vissuta dai singoli componenti del gruppo, cosmopolita come non mai. La pratica è stata mantenuta nel nuovo album con qualche abilità in più dettata sicuramente dalla produzione di Andrew Young, metà dei Fuck Buttons, così come dall’esperienza che i musicisti hanno fatto tanto insieme, quanto lavorando ad altri progetti musicali: in particolare il cantante, Kushal Gaya, fa anche parte dei Melt Yourself Down, un altro prodotto musicale di Sua Maestà Elisabetta II, ma che sa di isole britanniche così come di altre terre che i sudditi della Regina hanno raggiunto per mare, visitato e, talvolta, conquistato e soggiogato. Abbiamo parlato del nuovo disco degli Zun Zun Egui proprio con Gaya, nato e cresciuto alle Mauritius, un arcipelago di confine sperduto nell’Oceano, tra Africa e Asia, che, lo vedremo, ha influenzato molto Shackles’ Gift.

Cosa avete fatto tra la fine della promozione di Katang e la registrazione di Shackles’ Gift?
La band ha cambiato parte della formazione e ci è voluto del tempo per scegliere i nuovi membri: volevamo che il gruppo prendesse forma in maniera appropriata. Alla fine abbiamo voluto Adam Newton al basso e Stephen Kerrison alla chitarra. Ora sono membri a tutti gli effetti e scriviamo i pezzi insieme. Siamo persino andati a suonare in Vietnam e alle Mauritius, posti poco comuni per un tour, ma queste esperienze hanno davvero contribuito a plasmare il nuovo disco. Infine, per quanto mi riguarda, sono stato impegnato con i Melt Yourself Down e altri progetti.

Perché avete scelto Andrew Hung dei Fuck Buttons ? Com’è andata?
Tutto è stato abbastanza diretto, naturale. Conosco Andrew di persona, amo la sua musica e andiamo molto d’accordo. Sono stato a un concerto a Brixton, credo che tra gli altri suonasse Luke Abbott, e ho visto Andy: lo conoscevo perché eravamo di spalla ai Fuck Buttons in un tour britannico nel 2009. Abbiamo cominciato a chiacchierare prima del concerto e ci siamo raccontati i piani che avevamo per quell’anno. Ho accennato al fatto che stavamo cercando qualcuno che ci aiutasse a produrre il disco e lui ha immediatamente replicato: “Ci penso io”. Non sapevo neanche che fosse un produttore, ma per qualche ragione mi piaceva tantissimo l’idea che supervisionasse le registrazioni. La sua presenza è davvero bella: è discreto, ma può essere molto diretto in ciò che pensa. Quindi ci siamo incontrati un po’ di volte e questa sensazione positiva si è fatta ancora più forte: alla fine ci siamo detti “Sì, prenotiamo qualche sessione in studio”.

Con quali basi di partenza avete iniziato a lavorare al nuovo disco?
Eravamo alle Mauritius per i concerti a cui ho accennato e, in un giorno libero, ho incontrato questo vecchio pescatore, col quale ho cominciato a parlare della musica del posto. Mi ha raccontato una storia meravigliosa, spiegandomi che una parte della nostra musica locale era stata creata dai lavoratori delle piantagioni ascoltando il rumore che facevano le canne da zucchero nello zuccherificio quando venivano spezzate, e usando il ritmo della fabbrica per una nuova forma di musica. Per me era incredibile: ho vissuto per tanto tempo là, ma non avevo mai saputo nulla di ciò. Ho pensato quindi che si trattasse di una delle più antiche forme di musica industriale… Questo mi ha molto influenzato per dare forma al suono del nuovo disco. Volevamo anche che il disco avesse delle controparti dub e che il tutto fosse molto ritmato. Il nostro scopo era che gli oggetti suonassero come macchine e noi, invece, che apparissimo molto umani. Ci ha aiutato notevolmente in questo un tipo di motore, il Fairbanks Morse Diesel [un motore a due pistoni sviluppato negli anni ’30 e nei decenni immediatamente successivi, montato su sottomarini elettrici e nucleari statunitensi, NdR]. Inoltre, scrivere i testi e avere per le canzoni un punto di partenza diverso da un riff di chitarra sono state sfide sulle quali ho voluto mettermi alla prova. Volevo essere più concentrato e preciso in quello che stavo facendo, e questo processo è ancora in corso: non vedo l’ora di scrivere nuove canzoni!

Il disco suona molto più “British” del precedente: è una scelta conscia?
Davvero? Oh, be’, non so se si tratti di una scelta precisa, non ho mai pensato “Devi suonare più britannico…”. Ormai è tredici anni che vivo nel Regno Unito, quindi penso di avere raccolto, strada facendo, elementi che hanno un suono “British”… Sicuramente da un punto di vista vocale e dei testi. Tre componenti della band sono britannici, quindi era destino che il disco suonasse così. Ma, in fondo, in cosa consiste quest’identità? C’è un tale flusso e movimento nel Paese e specialmente a Londra, dove vivo da due anni e, a essere sincero, la società mista è il pane quotidiano, una cosa bellissima. Non sarei sorpreso se nel futuro il Primo Ministro britannico fosse cinese o indiano: il suonare britannici è qualcosa che si definisce e ridefinisce tutto il tempo, è un processo di improvvisazione infinito.

Ho notato un maggior peso delle chitarre nella composizione delle canzoni, con suoni che talvolta si avvicinano al noise. Cos’è cambiato nei nuovi pezzi da questo punto di vista?
Con Stephen [Kerrison, nuovo acquisto della band, NdR] ci siamo divertiti a lavorare con le chitarre e a fare esperimenti con suoni e grane. Il suo stile è unico e si mescola molto bene con il mio: abbiamo prima pensato di lasciare una chitarra e togliere l’altra, poi di toglierle entrambe, infine di creare più dinamiche e più momenti noise. In questo disco mi sono dedicato meno alle chitarre e più al canto.

Un’altra cosa interessante è l’uso dei pieni e dei vuoti nel disco: si va dalla ricchezza di tanti arrangiamenti al minimalismo del finale. Come avete lavorato in questo senso?
Abbiamo deciso scientemente di creare spazi nel disco, non volevamo un album sempre pieno come il precedente. Penso che questo faccia parte del processo di miglioramento del nostro lavoro e della prospettiva che abbiamo adottato rispetto all’esordio. Molto è stato fatto al momento del missaggio: è lì che ci siamo resi conto che c’era un sacco di roba. Quindi ce ne siamo sbarazzati, sai, semplicemente premendo il tasto “mute” su alcune tracce per vedere come suonavano. Eli Crews, che ha mixato il disco, è stato eccezionale. Gli abbiamo anche dato carta bianca nello sperimentare con i delay tipici del dub e con alcuni effetti: cose che desideravamo da subito! Liberarsi di alcuni elementi e andare all’essenziale è stata una delle esperienze più esaltanti che abbia fatto in vita mia.

Ci sono dei temi che legano i testi del disco?
Sì, l’esplorazione della propria natura e il darle piena voce. Probabilmente il tema ricorrente è il conoscersi. Penso che il disco parli del rivolgere al meglio situazioni nelle quali pensi di essere spacciato. Ha a che fare con la sopravvivenza e con il mantenimento di un lato selvaggio in tutto e tutti. E… c’è anche una canzone d’amore! [ride]

Ancora una volta il disco è anche un bellissimo viaggio tra i generi: ce n’è stato uno su cui Shackles’ Gift si è appoggiato più di altri?
Nella band facciamo tutti rock e, l’hai notato anche tu prima, ci sono un sacco di chitarre pesanti e rumorose. Tuttavia, per quanto mi riguarda, la maloya e la sega, le musiche delle Mauritius, La Réunion, Rodrigues e del Madagascar hanno inciso per sempre la mia pelle e la mia anima, al punto che affiorano comunque, in qualunque cosa sia coinvolto da un punto di vista musicale. C’è anche molto ritmo e un’attitudine dance nei pezzi.

I componenti della band vengono dai quattro angoli del mondo, ma gli Zun Zun Egui nascono a Bristol, una città molto importante, musicalmente parlando, per le commistioni che ha visto nascere. Quanto dovete alla scena musicale cittadina?
Abbiamo tutti deciso di vivere a Bristol, quindi immagino che ognuno di noi le debba qualcosa… Inoltre abbiamo avuto molto sostegno e aiuto dal pubblico e dai promoter della città, dalla Qu Junktions [agenzia musicale di Bristol. NdR], da Fat Paul dell’Exchange e prima ancora da The Croft [locali di musica dal vivo della città, NdR]. Vivendo là, inoltre, sono stato esposto moltissimo alla dance e al dub. Sebbene non siano esattamente i generi che suoniamo, andare a concerti davvero illuminanti e che ci hanno divertito sono stati fattori che ci hanno spinto a decidere di fare la nostra musica. Questo è sicuramente un modo in cui siamo stati aiutati dalla scena musicale di Bristol: se qualcosa ti spinge a creare, a suonare la chitarra e scrivere canzoni, be’, è un aiuto esterno enorme.

Parlando l’anno scorso a Londra con Peter Wareham, prima del live dell’agosto 2013 dei “tuoi” Melt Yourself Down, mi raccontò che lo stimolo per il disco d’esordio era stato l’ascolto di un cd della Rough Trade di world music. Cosa pensi del recente nuovo interesse da parte di musicisti britannici ed europei della musica che arriva da quel continente?
Mi sa che si stanno rendendo conto che c’è qualcosa di diverso al mondo, oltre alla cassa in quattro… Sebbene anche io ami la techno e la musica elettronica, per me è diverso: io guardo alla musica europea da una prospettiva “afro-asiatica”. Ho avuto un rinnovato interesse per la musica europea. Europa e America dominano il mondo, nei termini di prodotti culturali e della loro distribuzione, ma penso che in futuro si sentiranno sempre di più stili musicali europei visti attraverso prismi africani o asiatici. Non solo: penso che presto europei e americani sperimenteranno un cambio nei ritmi e nelle melodie, ma non attraverso qualche orrida fusione. E infine: credo che la musica sia qualcosa di universale e unificante; queste definizioni non fanno altro che cercare di spiegare la naturale evoluzione che il pianeta vive oggi.


Melt Yourself Down
Nati esattamente due anni fa, inglesi, di base a Londra. Due sassofoni, basso, batteria, percussioni ed elettronica. Nel curriculum dei membri della band, nomi come Heliocentrics, Zun Zun Egui, Acoustic Ladyland, Polar Bear, Sons of Kemet, Mulatu Astakte, Hello Skinny, Transglobal Underground. Anche solamente passando in rassegna questa scarna carta di identità è chiaro che i Melt Yourself Down fanno della mescolanza una cifra stilistica. L’ha dimostrato benissimo l’esordio del 2013, un fulminante self-titled da poco ristampato con un bonus disc che contiene un concerto, registrato l’anno scorso alla New Empowering Church di Londra. Ed è proprio nella dimensione live che la band raggiunge il suo massimo: i Melt Yourself Down dal vivo sono una forza mostruosa, nel vero senso del termine. Producono uno spettacolo che parte da strumenti, suoni, elementi noti per portare l’ascoltatore alla meraviglia assoluta, allo stupore di trovarsi di fronte a qualcosa di nuovo e sconosciuto. In questi tempi di rimasticazione continua, una novità. Così come è inusuale il recupero, da parte del leader Peter Wareham, della musica nubiana, appartenente alla cultura di un popolo che sta scomparendo, ma la cui stirpe regnò in Egitto per secoli. Quel tipo di ritmiche e timbri, allargati alla musica nordafricana in senso ampio, è il “germe” che si trova nella decina di canzoni che finora i Melt Yourself Down hanno prodotto. La band ci ha detto che sta registrando il secondo disco: lo attendiamo con ansia.

 


Contenuti pubblicati originariamente sul numero di gennaio 2015 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: Einstürzende Neubauten – LAMENT. Teatro Manzoni, Bologna, 28 novembre 2014

Più che un live, una rappresentazione musicale, che non ha paura di essere teatro e di rivolgersi al cinema dell’epoca intorno alla Prima Guerra Mondiale. Gli Einstürzende Neubauten raccontano il conflitto di un secolo fa con senso della narrazione e capacità tecnica stupefacenti. Oltre alle tracce finite in LAMENT (il disco), due bis “a tema”: “Let’s Do It a Da Da” e “Ich Gehe Jetz”.

Foto di https://ultimavisione.wordpress.com/

Un quartetto d’archi, un tastierista e cinque uomini in nero, qualcuno scalzo: ecco il cast dello spettacolo dal quale è tratto LAMENT, per chi vi scrive uno dei dischi più importanti dell’anno appena concluso. Un disco la cui musica nasce per lo spettacolo, anzi, per la prima del sei novembre scorso a Diksmuide, in Belgio: più che un “semplice” concerto, il live di Blixa Bargeld, N. U. Unruh, Alexander Hacke, Jochen Arbeit, Rudolf Moser, Felix Gebhard e Jan Tillman Schade è una rappresentazione, in cui è fondamentale il ruolo delle musiche tanto quello delle luci, così come la gestione del palco.

Il fondo è un telo bianco, davanti al quale viene messo in scena il racconto tragico e spietato del primo conflitto mondiale. Gli EN, insieme a musicisti scelti di volta in volta nei Paesi in cui il tour ha fatto tappa, ci rendono partecipi della costruzione dello spettacolo: non c’è quasi backstage e quindi i laminati metallici, i tubi, le latte e le catene, da sempre nell’arsenale del gruppo, sono visibili nelle mani dei tecnici che agilmente costruiscono “il Leviatano”.

Foto di https://www.musiculturaonline.it/

È così che Bargeld, in più di un’intervista, ha chiamato l’insieme di metallo percosso, suonato, strofinato, strisciato e sbattuto: è il rumore della guerra, la “Kriegsmachinerie” con cui comincia lo spettacolo, un fragoroso e lancinante crescendo, parallelo all’aumento delle spese belliche che gli Stati approvarono negli anni antecedenti al 1914. LAMENT (tanto il live quanto il disco, ovviamente) rende esplicito il suo carattere narrativo (più che didattico o didascalico): Bargeld introduce diversi pezzi con brevi spiegazioni, spesso venate di nera ironia, talvolta enciclopedicamente precise nel fornire origini e criteri compositivi dei brani.

Il primo è strumentale, ma le parole appaiono su cartelli: in questo caso si tratta di didascalie che ci hanno ricordato, più che i corsivi sotto le foto di un libro di storia, quelle di un film muto. LAMENT è una rappresentazione musicale e teatrale, che talvolta tende al cinema dell’epoca: quando le luci diventano blu o seppia, pare di essere tornati ai viraggi nei film degli anni che si srotolano davanti a noi in un 4/4 a 120 bpm (“Ogni giorno è un battito”, spiega Blixa), ritmati dal filo spinato (percosso e usato come unico accompagnamento in “In De Loopgraaf”), segnati dal ticchettare di stampelle (elettrificate e rese strumenti in “Achterland”), riprodotti su vecchi acetati.

Questo live degli Einstürzende Neubauten, magistrale da ogni punto di vista, è un’esperienza tra le più intense che una band abbia creato negli ultimi tempi.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di gennaio 2015 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: Cymbals Eat Guitars – LOSE

Cymbals Eat Guitars – LOSE (Barsuk)

7,5

L’inizio del terzo album della band di Staten Island ci riporta al bell’esordio del 2009 Why There Are Mountains: “Jackson”, infatti, ricorda molto “… And the Hazy Sea”, per la sua lunghezza, per come gioca con dinamiche e cambi armonici, per l’epicità diffusa.

Ma in questo nuovo LOSE i Cymbals Eat Guitars semplificano le cose senza diminuire di potenza, e trovano un equilibrio tra strutture classiche e pezzi più articolati; “Chambers” ne è la prova, combinando un incipit molto radiofonico (basso pulsante inquadrato sulla batteria, sui quali si adagiano accordi di chitarra), con uno svolgimento assai poco banale e con dei testi intensi e centrati sul tema ricorrente del disco: la perdita della giovinezza.

Che ce ne parli un venticinquenne potrebbe sembrare quanto meno bizzarro, ma Joseph D’Agostino racconta dell’adolescenza nel New Jersey, di amici scomparsi, di bulli puniti dal fato, del seppellimento di animali domestici e di violenze familiari con una naturalezza e un’intensità lodevoli.

Se in “XR” compare una fisarmonica alla Dylan, i riferimenti musicali ricorrenti sono Pavement, Modest Mouse, Shins, Elliott Smith e Death Cab for Cutie, nomi che, dopo l’ascolto di LOSE, appaiono ancora più “classici” di quanto già non siano: i Cymbals Eat Guitars ci ricordano che, per quanto poco utili siano le etichette, può avere ancora senso parlare di un “canone” dell’indie-rock-statunitense.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di ottobre 2014 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: Cold Specks – Neuroplasticity

Cold Specks – Neuroplasticity (Mute)

6,5

Sulla carta i Cold Specks sono la band dove milita Al Spx, una canadese ventiseienne che vive a Londra: in realtà i Cold Specks sono (almeno, in buona parte) la voce di Al Spx, scelta da Moby per il primo singolo di Innocents e da Michael Gira per “Bring the Sun”, che compare nell’ultimo To Be Kind degli Swans. E come dare loro torto?

Già dal primo disco I Predict a Graceful Expulsion ci eravamo accorti dello splendore del suo timbro, vibrante, sensuale, ma non stucchevole: rispetto al debutto voce e atmosfere si fanno più cupe, più doom che soul, per riprendere una definizione spacciata dalla stessa Al Spx, alla quale si potrebbe accostare il neologismo (un po’ cacofonico, a dire il vero) gothpel.

Le canzoni sono spesso interessanti, anche grazie ai contributi di Gira alla voce (in “A Season of Doubt” e “Exit Plan”) e del trombettista Ambrose Akinmusire (che aveva chiamato Al Spx per il suo The Imagined Savior is Far Easier to Paint), che contribuisce a spargere inquietudine e mistero. È forse il disco nel suo complesso che, alla lunga, può stancare: la noia faceva capolino anche nel lavoro precedente, ma per quanto l’attenzione dell’ascoltatore si mantenga più alta e costante, i cambi di tempo, gli arrangiamenti spesso non banali e gli ospiti illustri non bastano per fare di Neuroplasticity il grande album che poteva essere.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di settembre 2014 de Il Mucchio Selvaggio

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