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Torres: una musicista in fuga, tra musica, Dio e marijuana

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Lo ammetto senza problemi: il primo disco di TORRES non mi aveva detto molto e non mi dice moltissimo ancora adesso. Ho trovato Sprinter decisamente più interessante e maturo. E ci mancherebbe: Mackenzie Scott è del 1991, è salutare che un debutto sia, diciamo, incerto, e che la crescente maturità si mostri con il tempo. La vera sorpresa, però, è stato conoscere la musicista di persona nello scorso Primavera Sound di Barcellona. Nella mezz’ora passata insieme mi è parso di avere colto un giovane talento in fuga da tutto ciò che l’ha formata, opprimendola, dal punto di vista politico e religioso: e probabilmente non solo in quegli ambiti. Quando mi parlava di Rob Ellis, produttore di Sprinter, aveva gli occhi che brillavano; quando ha nominato la marijuana ha ridacchiato come un’adolescente colta con le mani nella bustina. E quando ha parlato di Dio, del suo Dio, lontano da quello imposto da riti e rituali, si è illuminata. In conclusione: è stata una delle interviste più intime e intense che abbia mai fatto. La potete leggere qua, ascoltare sul sito della radio o ascoltarla a Maps oggi pomeriggio intorno alle 16.

Vorrei innanzitutto parlare del suono del nuovo disco: è differente dall’esordio, per quanto ci siano dei punti in comune. Qual è stato il ruolo del produttore Rob Ellis, com’è andata con lui?
Gli ho mandato una mail dopo avere registrato le versioni demo delle canzoni. Ero alla ricerca di un produttore che mi aiutasse a registrare l’album: l’ho contattato, gli ho mandato i demo e gli ho chiesto se potesse darmi una mano in qualche modo, se avesse un po’ di tempo per me. Lui ha acconsentito e, nei due mesi successivi, abbiamo parlato della preproduzione su Skype, perché vive nel Dorset, in Inghilterra, discutendo del disco, del suono che avevo in mente. È cominciato tutto così.

All’album ha lavorato anche Adrian Utley dei Portishead: mi pare che il disco abbia un tocco decisamente britannico…
Sì, sì, è vero!

Era qualcosa che volevi oppure è semplicemente capitato?
No, io volevo lavorare con Rob, siamo amici da un paio di anni, è uno dei pochi produttori che conosco. Sapevo anche che è un batterista e volevo che suonasse la batteria nell’album. Ma non pensavo avremmo registrato in Inghilterra, all’inizio credevo che sarebbe venuto lui negli Stati Uniti. Alla fine sono andata io là e lui ha chiesto a Adrian e altri amici se volessero suonare anche loro sul disco. È stata una bella sorpresa.

Accidenti! Quindi sei entrata in studio e hai trovato là Adrian Utley?
No, no. Sono arrivata in Inghilterra e Rob mi fa: “Ho chiesto a un po’ di amici di suonare nel disco. Ci sarà Ade, Olly…”. Al che gli ho detto: “Ma chi è Ade?”, e lui “Oh, è Adrian Utley!”. Con lui a dire il vero abbiamo registrato proprio nell’ultimo giorno in cui ero là. Siamo andati a Bristol nel suo studio e Adrian ha fatto qualche chitarra…

Ti brillano gli occhi ancora oggi, mentre me lo racconti.
Oh sì, è stato un sogno!

Uno dei temi principali del disco è la religione: ho letto qualcosa sulla tua vita e mi pare che il tuo rapporto con la religione abbia sia dei pro che dei contro. Ti va di parlarmene?
Sono cresciuta nella Chiesa Battista: era tutto ciò che conoscevo. La scuola che ho frequentato fino a quando avevo 18 anni, era una scuola cristiana presbiteriana. Sono stata indottrinata per bene, ma a questo punto della mia vita il mio rapporto con la religione… Be’, è molto diverso da quello che avevo allora. Non vado più in chiesa, ma posso dire che la mia fede è migliore di prima, si è evoluta in una forma molto più personale e ne sono stata felice. A dire il vero non ne parlo molto. Invece di andare in chiesa di domenica, agitando le mani di fronte a tutti e mettendo su uno spettacolo, prego in privato.

Ti dispiace se ne parliamo?
No, no, assolutamente.

Allora ti chiedo quale sia la differenza tra il Dio nel quale credevi anni fa e quello in cui credi oggi.
In realtà è lo stesso Dio: la differenza è che le persone per tutta la vita, per la maggior parte della mia vita, mi hanno insegnato delle cose sul Dio che adoravo che non credo fossero giuste. Il Dio che ho imparato a conoscere mentre crescevo era un Dio rabbioso, che condannava, che condannava teoricamente tutti… Sono le persone che mi hanno incasinato, che hanno danneggiato il rapporto che potevo avere allora con Dio. Ma ora ho posto una distanza tra me e queste persone che hanno rovinato tutto, sto riscoprendo Dio. Ed è grande.

Nel disco parli molto di te e di come stai cambiando: sei molto giovane e si cambia molto quando si è giovani. Parli di una “nuova pelle per la quale moriresti” e di umori cangianti. Ci sono delle parti diaristiche, come quando dici esplicitamente “farò 23 anni a gennaio”. Cosa è stato per te mettere nero su bianco queste parole e cos’è cantarle ogni sera di fronte a degli sconosciuti?
A dire il vero trovo che i live abbiano un potere quasi lenitivo: è stato molto più difficile all’inizio scrivere le parole che cantarle. La parte più dura è stata metterle su carta e pubblicarle. Ora che faccio i miei concerti e canto le canzoni dal vivo è come se questi versi siano già stati liberati e appartengano a tutti. Le performance non sono più su di me, quindi suonare le canzoni è facile e perfino divertente, proprio perché non parlano solo di me.

Sono incuriosito anche dal tuo rapporto con la natura e col mito. È sorprendente, alla fine di un disco spesso duro, sentire il cinguettio degli uccellini, o scoprire che in “A Proper Polish Welcome” ci sono riferimenti diretti alla mitologia. Come combini questi elementi con la religione di cui abbiamo appena parlato? Mi sembra sia una questione molto più complessa di quanto appaia a un primo ascolto.
Grazie! Dunque… Be’… Sono stata nuovamente ossessionata dalla natura negli ultimi due o tre anni. In parte ciò è dovuto alla marijuana, ma diciamo che per alcuni versi sono tornata bambina nell’accezione migliore del termine: sto riscoprendo un sacco di cose che davo per scontate. Ho recuperato il senso di meraviglia. Insomma, deriva un po’ da questo, un po’ dal fatto che ho riletto alcuni testi con i quali sono cresciuta. Conoscevo la storia di Adamo ed Eva e del Giardino dell’Eden, quella di Noè e della sua arca: sono una specie di parabole che, negli anni, si sono annacquate. Le ho riprese in mano e le ho rilette: sono terrificanti e maestose e ho provato a leggerle nella maniera più obbiettiva possibile, dal punto di vista di chi non abbia mai conosciuto queste storie. Si è venuto a creare un misticismo, la natura è diventata mistica ai miei occhi e ho voluto mettere tutto ciò nelle canzoni.

C’è un pezzo che mi ha davvero colpito, “Cowboy Guilt”, dove parli esplicitamente del tuo Paese. Si tratta di un lato politico del tuo disco, qualcosa che magari verrà sviluppato in futuro?
Non so se esplorerò in futuro questo lato politico. Se c’è una canzone politica nel disco, be’, è proprio quella. È molto ironica, va presa così, ma… Insomma, sono cresciuta nel profondo Sud del Paese, quello che ha celebrato George W. Bush, e la canzone parla del mio trasferimento a Nashville, nel Tennessee, che è stata la prima volta per me lontano da casa. Ho cominciato a bere whisky, ho trovato per la prima volta amici che pensavano in maniera molto diversa e che avevano idee politiche assai differenti da quelle con le quali sono cresciuta. La canzone, insomma, ci vede prendere in giro l’ambiente politico nel quale siamo stati allevati. Insomma, si ride per non piangere! (ride).

Mi pare che tu abbia iniziato una specie di nuova vita, ma ricordi quando è uscito il tuo primo disco? Sei letteralmente esplosa, tutti i giornalisti parlavano di questa Torres, ci si chiedeva: “Ma chi è questa ragazza?”. Che ricordi hai di quel periodo?
È strano, sai, perché ora tutto sembra relativo, non sono davvero cosciente di ciò che la stampa dice di me… All’epoca semplicemente sapevo di dover fare più concerti, più viaggi: tutto era molto eccitante. In quel periodo pensavo che avrei avuto delle royalties, che avrei alloggiato in hotel splendidi… ma mi è capitato anche di suonare in locali che non avevano nemmeno il bagno. Quando sono in tour mi succede anche di starmene seduta in furgone per dieci ore di fila, quando ci spostiamo da uno Stato all’altro. È strano: per certi versi è fantastico, ma per altri, per tanti altri mi sento davvero come se avessi appena cominciato, come se non avessi nemmeno grattato la superficie della cosa.

Pensi che tornerai prima o poi a casa, nei luoghi da dove provieni? E non intendo solo i luoghi geografici, ma anche dello spirito. Te lo chiedo perché mi sembra tu abbia tracciato un confine ben preciso tra quello che eri e quello che sei ora. Uno degli insegnamenti della religione cristiana è di perdonare e di stare insieme. Che ne pensi?
La scrittura del disco è stata, per me, un processo di perdono: è una delle ragioni principali per cui l’ho prodotto. Avevo bisogno di perdonare tante persone, me compresa, per tutta una serie di problemi emotivi e spirituali che ho provocato ad altri quando ero più giovane. C’è un grande bisogno di perdono nel’album, l’ho messo brani che lo compongono. È difficile dire che succederà: tutti dicono che prima o poi si ritorna alle proprie radici, a casa, in un modo o nell’altro. Quindi, se lo intendiamo nel senso letterale, è molto probabile che io “ritorni da dove provengo”, che torni in chiesa, ma sarà a modo mio, stavolta. E solo se lo riterrò giusto. Ho tracciato una linea netta, sì: ci sono sistemi politici e sociali dei quali non vorrò mai più fare parte, e lo so con certezza. Non so però che succederà.

L’ultima domanda, dopo tutti questi discorsi profondi, è più leggera: mi dici quali sono i tuoi cinque dischi dell’isola deserta?
(ride) Ok. Allora: Strange Mercy di St Vincent, sempre. Another Green World di Brian Eno. Poi… Rumours dei Fleetwood Mac. E… aspetta, posso controllare il mio telefono? Non sono sicura di che dire, non mi ricordo! Ah sì! In Utero dei Nirvana e poi… Accidenti… Sì: Live at Folsom Prison di Johnny Cash.

L'antica arte del fare le liste musicali di fine anno

Visto che tanto tra un po’ comparirà anche sul sito di Maps (in forma più ricca), anticipo qui le due liste musicali del 2008, dischi e concerti. L’anno scorso me l’ero cavata non mettendo dischi e concerti in ordine di importanza, quest’anno non posso usare quell’escamotage, quindi…

I dischi del 2008
Una nota: per lavoro, da gennaio a oggi, ho considerato qualcosa come 200 e rotti dischi. Questo vuol dire, in media, ascoltare un disco per un giorno e mezzo e poi basta. Ovviamente capirete che questo è impossibile. I dischi sono troppi, davvero. Ma ecco la mia decina:

1. Fleet Foxes – ST (SubPop/Bella Union)
2. Portishead – Third (Island)
3. TV on the Radio – Dear Science (4AD)
4. Bon Iver – For Emma, Forever Ago (Jagjaguwar)
5. Nick Cave & the Bad Seeds – Dig! Lazarus! Dig! (Mute)
6. Vampire Weekend – ST (XL)
7. MGMT – Oracular Spectacular (Columbia)
8. Black Mountain – In the Future (Jagjaguwar)
9. Why? – Alopecia (Tomlab)
10. Blake/e/e/e – Border Radio (Unhip)

I concerti del 2008
Altra nota: siccome sono maniacale, so esattamente quanti concerti ho visto in questi dodici mesi. Sono quarantaquattro. Per il sito di Maps ne ho selezionati cinque, qui mi allargo a dieci (ma venti sono davvero da ricordare, il che non è male, no?). Tra parentesi, come da tradizione, link a set fotografici, recensioni, video.

1. Bruce Springsteen & the E-Street Band (Stadio Meazza, Milano, 25.06.08) (foto, video, video, blog)
2. Fleet Foxes (Magazzini Generali, Milano, 15.11.08) (foto, blog)
3. Portishead (Saschall, Firenze, 31.03.08) (foto, video, blog)
4. Battles (Estragon, Bologna, 07.05.08) (foto)
5. Singer (Knitting Factory, New York, 29.04.08) (foto, blog)
6. Einstürzende Neubauten (Estragon, Bologna, 12.04.08)
7. Mondo Cane (Piazza Santo Stefano, Bologna, 18.07.08) (foto)
8. Explosions in the Sky (Estragon, Bologna, 26.05.08) (foto, blog)
9. R.E.M. (Futurshow Station, Bologna, 26.09.08) (foto, video)
10. Massimo Volume e Blake/e/e/e (Estragon, Bologna, 07.11.08) (foto, foto, blog)

Et voilà. Scannatevi nei commenti, dai.

1994

Jar of Flies degli Alice in Chains, Ill Communication dei Beastie Boys, One Foot in the Grave, ma anche Mellow Gold, entrambi di Beck, Parklife dei Blur, il primo disco omonimo dei Future Sound of London e dei Korn, il disco omonimo (ma non primo) dei Kyuss, il primo disco di Marilyn Manson, Far Beyond Driven dei Pantera, Crooked Rain Crooked Rain dei Pavement e poi Dummy dei Portishead, Superunknown dei Soundgarden e Experimental Jet Set, Trash and No Stars dei Sonic Youth. E, ovviamente, come dimenticare lo “sdoganamento” “punk” di NOFX e Green Day (Punk in Drublic e Dookie) e il viaggio nel corpo umano di Vitalogy dei Pearl Jam. Il primo disco dei Weezer. L’ultimo concerto dei Nirvana. La nuova edizione di Woodstock.
Basterebbero questi titoli e questi eventi, e chissà quanti me ne sono dimenticati, per stabilire l’importanza di un anno cardine per la musica, la società e la cultura del decennio. Ma ne aggiungiamo un altro, The Downward Spiral, il capolavoro dei Nine Inch Nails.
Trent Reznor ha fatto uscire alla fine dello scorso novembre una versione deluxe del suo TDS dieci anni dopo la sua pubblicazione. A guardare bene, però, Reznor non celebra soltanto il decennale del disco, ma del suo 1994. Nel secondo cd della confezione, infatti, troviamo tracce pubblicate in quell’anno dai NIN con demo, remix, b-sides e pezzi scritti per o finiti nella colonna sonora de Il corvo e di Natural Born Killers (se dovessimo parlare anche dell’importanza extra-cinematografica di alcuni film di quell’anno non la finiremmo più). Quindi non solo una celebrazione di un disco, ma proprio di un momento nella musica popolare in senso lato.
Si dovrebbe fare un discorso lungo e articolato sulla forma di remixing che Reznor ha dei suoi pezzi: si tratta spesso, anche se non sempre, di vere e proprie seconde lavorazioni, come se il pezzo “normale” fosse materiale grezzo, e il mix (o il remix) sia il prodotto finito. Il remix a cui è stato sottoposto TDS per questa nuova versione deluxe non è stato assolutamente invasivo (visto che l’album del 1995 dei NIN, Further Down the Spiral, è già un remix di TDS), ma ha sfruttato le possibilità tecniche per fare del disco ancora di più un’esperienza sonora.
Molti, infatti, hanno definito TDS un concept album sulla follia, o meglio, sugli ultimi momenti della vita di un pazzo. I testi, in effetti, lasciano poco spazio ad altre interpretazioni. Già dalla prima “Mr Self Destruct” (che riprende il campionamento di un pestaggio del film THX 1138), si parla di uno sdoppiamento psicotico: “I am the voice inside your head / And I control you”. Ma la spirale del titolo la percorriamo anche noi ascoltatori: Reznor ha un senso visivo piuttosto spiccato e grazie cinematografico remix surround 5.1 riusciamo ad addentrarci nella mente del protagonista, tra momenti quasi sognanti e altri più violenti, per non uscirne più. Al massimo si può seguire Mr Self Destruct in qualche delirio pseudo onirico (“Piggy” e “March of the Pigs”), per piombare poi in spietate autoanalisi (“Ruiner” e “The Becoming”). C’è un tema musicale ricorrente (ovviamente discendente, che mima la struttura narrativa dell’album) e delle parole che compaiono più volte nel disco. “Nothing can stop me now” è l’espressione più presente, e pare un presagio continuo della fine, una fine annunciata già dal titolo della prima traccia (“Mr Self Destruct”), ma anche una liberazione. Se ogni canzone, infatti, vede il protagonista che agisce o subisce qualcosa in senso violento e assoluto (la differenza è di poco conto, visto il solipsismo imperante), il “niente può fermarmi, ora” dà un senso di libertà di percorrere la spirale discendente fino in fondo, senza costrizioni e impedimenti.
“Eraser” è preceduta da “A Warm Place”, l’unica traccia strumentale del disco, ed è una canzone rilassata e tremenda: “ho bisogno di te / ti sogno / ti trovo / ti assaggio / ti scopo / ti uso / ti taglio / ti rompo / lasciami / odiami / sbattimi / cancellami” e nel libretto non è riportato l’ultimo “kill me”, urlato tra i rumori. Ma l’ultimo pensiero prima del suicidio, che avviene “fuori campo”, è per una donna (“Reptile”), che la mente del protagonista, ovviamente, vede come dolce e infetta allo stesso tempo. L’ultima frase del testo è “I am so impure”, e poi si passa alla title track, in cui sembra che ci sia qualcuno che parli della scena del suicidio dal di fuori, con un brusco cambio di focalizzazione. La canzone si conclude con quello che potrebbe essere un nuovo accenno di follia (“The deepest shade of mushroom blue / All fuzzy / Spilling out of my head”), ma il disco non è finito. “Hurt” è l’ultima canzone di TDS, e credo sia una delle più belle canzoni degli ultimi vent’anni (non credo assolutamente di fare un’affermazione rivoluzionaria, sia chiaro): ma a chi attribuirla? Al suicida, come fosse un ultimo pensiero? Alla voce della traccia precedente, ormai presa anch’essa dalla spirale discendente? A Trent Reznor stesso?
Chi è che muore, alla fine di TDS? Forse Trent Reznor stesso, che si è reso conto, per sua stessa ammissione, di avere fatto un album definitivo, dal quale sarebbe stato difficile tornare indietro, un disco difficile e complesso nei temi, ma che è rimasto il più grande successo dei NIN, sia dal punto di vista del pubblico che della critica. TDS rimane un album duro, che fornisce costantemente materiali per i live, compreso quello di Woodstock del 1994, dove su quindici pezzi solo tre arrivavano da TDS. Ma, estrapolati dal contesto, questi pezzi hanno una forza che si esaurisce nella loro stessa durata, pur rimanendo dei gioielli. Ascoltare e leggere con attenzione la spirale discendente dall’inizio alla fine è tutt’altra cosa. Non credo che Trent Reznor avrà mai il coraggio di ripercorrerla tutta dal vivo: molti dicono che una volta arrivato in fondo alla spirale (e nel secondo disco c’è anche un pezzo che si chiama “TDS: the Bottom”), per Trent non sia stato facile risalire. Ci sono infatti voluti cinque anni per il suo disco successivo, non per niente intitolato The Fragile.
Se si potesse intuire qualcosa della vita di un musicista dai titoli dei dischi che scrive, però, dovremmo dire che Trent è rinato, o che comunque la sua rabbia è di nuovo rivolta all’esterno: With Teeth, il prossimo album dei NIN, è in uscita tra poco più di due mesi.

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